Bilancio delle primavere

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Bilancio della primavera araba

Sorpresa: la rivoluzione è possibile anche nel XXI secolo…

[Questo articolo è apparso sulla rivista on-line Cassandra, ed è stato scritto in settembre. Lo inserisco con alcune piccole modifiche, e una selezione di foto dalle primavere arabe, in cui compare l’immagine di Guevara. In rete ce ne sono moltissime, soprattutto dallo Yemen e dalla Tunisia. a.m. 9/10/11]

Appena un anno fa praticamente nessuno poteva immaginare che regimi apparentemente solidi sarebbero stati scossi da una protesta tenace di giovani a mani nude. Dopo il 1979 che vide la cacciata dello Shah, non si era visto nulla di simile. Ma la rivoluzione iniziata nel dicembre del 2010 in Tunisia si è propagata poi a macchia d’olio in molti altri paesi, con esiti diversi ma in ogni caso sufficienti a escludere che si possa semplicemente tornare alla situazione precedente.

Esiti diversi, anche perché in parte erano diversi i problemi, e diversi i criteri usati dai gruppi dirigenti per resistere o riciclarsi. Queste differenziazioni hanno portato Tariq Ali, il saggista britannico di origine pakistana, a comparare questo movimento alla vicenda europea della “Primavera dei popoli” del 1848: anche allora, l’effetto contagio è stato forte, anche se a Milano o Vienna o Parigi o Berlino non erano identici gli obiettivi.

La vittoria, naturalmente non definitiva, della rivoluzione tunisina, è stata più semplice per l’effetto sorpresa, la maggiore debolezza del gruppo dirigente, e lo scarso peso del paese nello scacchiere internazionale. Ben Ali era un fornitore di piccoli e bassi servizi ai governanti di Francia e Italia, ma non una pedina essenziale per il controllo della regione e delle risorse del Mediterraneo: per giunta nessuno poteva immaginare che l’esempio avrebbe contagiato immediatamente un paese di ben diversa importanza strategica come l’Egitto. Di fronte alle violenze della polizia e dei corpi speciali un settore dell’esercito era stato pronto ad abbandonare il dittatore impopolare, e a provare a gestire la “rivoluzione dei gelsomini”, come i mass media l’hanno ribattezzata. Gli stessi mass media ci hanno inondato di servizi che attribuivano la rivolta soprattutto ai giovani utenti di Facebook e di Twitter, sorvolando sul peso di solidi sindacati già all’opposizione, e su alcuni sintomi importanti, come le lotte operaie esplose per motivi non esclusivamente economici nel bacino minerario di Gafsa nel 2008. Meno che meno hanno informato sulle tensioni che contrappongono anche oggi i giovani rivoluzionari (studenti o operai) ai militari e ai burocrati voltagabbana che tentano di riprendere tutto il potere nelle loro mani, usando quando è possibile ancora la repressione.

Eppure cominciano a uscire utilissime analisi specifiche, tra le quali vorrei segnalare il numero speciale 163/164 della rivista “Guerre & pace” (primavera-estate 201), che dedica cento pagine in grande formato alle Rivoluzioni in corso, con articoli di militanti tunisini, egiziani e di altri paesi. Ad esempio gli articoli sulla Tunisia di Jalel Ben Brik Zoghhlami, Wassim Azreg, e Larbi Chouikha (sulla rivolta di Gafsa), sull’Egitto di Chedid Khairy, Mona El-Ghobashy, Lina El-Wardani, e molti altri.

Ma vorrei anche segnalare le decine di articoli sull’argomento apparsi sul mio sito, miei o di osservatori attenti come Gilbert Achcar, Santiago Alba Rico, Guillermo Almeyra, Tariq Ali, Ignacio Ramonet.

 

 

La svolta era avvenuta a partire dal 17 dicembre del 2010, innescata dalla reazione a un impressionate suicidio di Mohamed Bouazizi, un giovane commerciante ambulante che si era dato fuoco davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid per protestare contro il sequestro della propria merce da parte delle autorità. Era stato solo un detonatore, non la causa dell’esplosione delle proteste per l’aumento dei generi di prima necessità e contro il governo corrotto ed inetto. La riprova è che, anche se in altri paesi il gesto di Bouazizi è stato imitato subito, altri suicidi col fuoco non hanno avuto inizialmente lo stesso effetto. In Tunisia invece aveva scatenato una protesta esasperata nelle regioni più povere e dimenticate (Sidi Bouzid, Casserine, Gafsa, che si era estesa successivamente alle periferie delle città più grandi, compresa Tunisi. La censura dei media, tutti governativi, non ha funzionato grazie alla larga diffusione del canale satellitare al Jazeera, che ha fatto circolare filmati e testimonianze. Questo si, un elemento nuovo, anche se in prospettiva potrebbe essere riportato sotto un più stretto controllo, come forse sta già avvenendo, con la sostituzione del direttore.

È stata la cacciata di Ben Ali in meno di un mese che ha avuto poi un effetto galvanizzante in molti altri paesi, a partire dall’Egitto ma arrivando a scuotere anche Libia, Algeria, Siria, Yemen, Bahrein, Marocco, e – più o meno direttamente – Israele e Palestina.

 

La sfasatura delle rivoluzione egiziana rispetto a quella tunisina è stata di appena un mese; come l’altra, era stata preparata a partire dal 2008-2010 da un ciclo di lotte operaie nella zona di Mahalla, Alessandria, Suez, di cui quasi nessuno aveva parlato in Italia, e che aveva visto il regime di Mubarak fare importanti concessioni economiche che avevano però rafforzato la fiducia in sé stessi degli operai e lasciato un’eredità di sindacati semiclandestini. In entrambe le rivoluzioni l’esercito si era spaccato: prima di diventare un freno e un pericolo per il futuro della rivoluzione, questa divisione aveva consentito la vittoria dei manifestanti. Questo aspetto è stato dimenticato o negato da parte della sinistra, anche per effetto della posizione assunta da Cuba e dal Venezuela su Libia e Siria, che per reggersi deve gettare un’ombra su tutta l’ondata di movimenti, negandone il carattere popolare e riducendoli ad effetto di manipolazioni imperialiste o presentandoli come fanatici integralisti islamici. Questo argomento, usato in modo grottesco in primo luogo dallo spudorato Gheddafi (che spiegava la presenza tra i ribelli di tanti giovani con la distribuzione di bibite e caramelle drogate da parte di al Qaeda!), ha fatto breccia in qualche settore della sinistra, contro ogni evidenza, dato che il risveglio dei popoli ha al contrario messo ai margini gli integralisti, che si erano sviluppati proprio negli anni in cui le speranze di cambiamento sembravano definitivamente affossate. s wwHo parlato di “rivoluzione” e non solo di rivolte (come erano state quelle tunisine o algerine per il pane o il semolino degli anni Ottanta) anche se questa parola sembrava dimenticata da decenni, o peggio ancora usata a sproposito dai nostri governanti per ribattezzare qualche misura impopolare, come la “rivoluzione delle pensioni”. In effetti non è facile reintrodurla nel lessico della sinistra. Ho fatto vari dibattiti e ho sentito spesso negare che nel Nord Africa ci fosse una rivoluzione in corso con i più diversi argomenti: il più bizzarro, la dichiarava impossibile perché non c’era un partito rivoluzionario. Eppure di rivoluzioni iniziate senza che ci fosse un partito rivoluzionario ce ne sono state tante, a partire da quella tedesca del 1918-1919. Certo quella tedesca, come la maggior parte delle rivoluzioni, con o senza partito rivoluzionario, è stata sconfitta presto per lo scarto tra l’entusiastica impreparazione delle masse, più che comprensibile dato che per la prima volta si interessavano alla politica, e la cinica determinazione delle classi dominanti, che avevano una lunga esperienza di governo. Ma era stata una vera e straordinaria rivoluzione, che era rimbalzata subito da Berlino a Vienna e Monaco; per stroncarla fu necessaria una “controrivoluzione preventiva” che con la collaborazione della socialdemocrazia aveva assassinato i dirigenti più lungimiranti: non solo Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, ma migliaia di militanti generosi. Sarebbe bene ricordare che anche nel 1905 la rivoluzione in Russia c’era stata, anche se il partito bolscevico era appena in formazione, con un radicamento di massa insufficiente, e con molte rigidità che gli hanno impedito di avere un ruolo.

In realtà tutti gli osservatori distaccati a Tunisi, Il Cairo o Bengasi, hanno fornito elementi per capire che si trattava di rivoluzioni, con tutta la caoticità che ha sempre una vera rivoluzione, cioè l’entrata in scena di masse prima in gran parte lontane dalla politica: per usare un’espressione molto in voga in America Latina, los de abajo, quelli che stanno in basso non accettano più di starci, e los de arriba, quelli in alto, si dividono tra chi punta a inasprire la repressione e chi finge di accettare le richieste della piazza e promette o concede riforme. Detto per inciso, le più importanti riforme sono sempre state il sottoprodotto di una rivoluzione, e del panico che essa provoca nelle classi dominanti anche dei paesi vicini.

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Alla Libia, terzo paese che si è mosso, non mancava la dimensione di massa della protesta né una divisione nel gruppo dirigente. La tesi che non c’era stata nessuna rivoluzione ma solo una guerra civile, diffusissima anche grazie al contributo di Cuba e soprattutto Venezuela, con una forte ripercussione in tutta l’America Latina, che ha visto in Libia solo un intervento imperialista (che c’era) che ricordava troppo le ingerenze degli Stati Uniti nel continente americano, ma non il movimento che quell’intervento – col pretesto di proteggerlo – voleva bloccare o controllare, ha creato abbastanza confusione. In realtà la guerra civile era scoppiata dopo le grandi manifestazioni di massa a Bengasi, Misurata e anche Tripoli, ed era stata molto cruenta, perché solo una parte dei militari avevano abbandonato Gheddafi, che si reggeva peraltro da anni più su corpi speciali e mercenari che sull’esercito in quanto tale, di cui non si era mai fidato troppo e che aveva epurato periodicamente. Ma questo che vuol dire? Anche nella Russia rivoluzionaria la guerra civile, con la partecipazione attiva di una dozzina di potenze europee, era iniziata solo nella primavera del 1918.

L’equivoco era aggravato da una esaltazione di un presunto ruolo antimperialista di Gheddafi, che – se mai c’è stato – era cessato da lungo tempo: la Libia si era trasformata in un cane da guardia dell’Italia e di altri paesi europei per il controllo dei migranti provenienti dall’Africa sub sahariana, oltre che in un ottimo cliente per il mercato delle armi. Il fatto che nella guerra civile si sia inserita rapidamente la NATO, che ha rifiutato di fornire armi pesanti ai ribelli, mentre ne aveva fornite in quantità notevoli a Gheddafi fino a pochi mesi prima, ed è apparsa per questo sui media come l’unica forza combattente, non può far dimenticare l’ampiezza iniziale della protesta di piazza anche a Tripoli, e il fatto che questa città sia stata liberata da un gran numero di forze ribelli, interne alla città, oltre che provenienti dalla Cirenaica, da Misurata e dal Gebel Nafusa. Chi voleva negare il carattere popolare della rivoluzione libica, ha sottolineato i legami con l’imperialismo di diversi notabili (in genere ex gheddafiani), ma ha dimenticato che sono stati spesso contestati clamorosamente dalle forze combattenti, e costretti quindi a ribadire il rifiuto categorico alla presenza di truppe di terra della NATO. L’accoglienza favorevole della maggior parte dei cittadini di Bengasi all’ipocrita offerta di protezione aerea, non è certo una prova di collusione. Era comprensibile che di fronte alla certezza di un massacro, si accogliesse qualsiasi aiuto che diminuisse l’asimmetria delle forze. Tra l’altro, per inesperienza, l’aiuto era stato richiesto all’ONU, non sapendo quanto questo organismo è da sempre prono ai desideri delle maggiori potenze imperialiste. Presto i ribelli hanno verificato gli effetti del “fuoco amico” (dovuto probabilmente all’inesistenza di bombe e missili “intelligenti”); qualcuno ha pensato che lo scarso impegno delle forze NATO, enormemente inferiore anche a quello usato per concludere la guerra del Kosovo, non fosse casuale, e puntasse a far logorare le due parti per impossessarsi alla fine più facilmente di una Libia stremata (ma in cui gli impianti petroliferi erano stati risparmiati…).

È sintomatico che tutti i grandi mezzi di informazione hanno spesso presentato in modo pittoresco l’impreparazione militare dei ribelli, che effettivamente nella prima fase c’era ed è costata loro carissima, di fronte ai mezzi pesanti rimasti in mano a Gheddafi. Ma che voleva dire? Ricordiamo la derisione degli stalinisti nei confronti delle prime milizie anarchiche o del POUM (rievocata efficacemente da Ken Loach in Terra e libertà), o le descrizioni di Babel sull’Armata Rossa durante la guerra civile, o le pagine di Guevara sui suoi sforzi per disciplinare i generosi e imprudenti giovani ribelli, prima sulla Sierra Maestra, poi in Africa, per capire che quel caos generoso e poco efficace era la prova del carattere popolare di una rivoluzione esplosa (come sempre) spontaneamente, che non assomigliava per niente ai film di Bondarciuk…

Mi sembra indecente il disprezzo riversato su quei giovani insorti, alcuni perfino con la maglietta di Guevara, descritti su “La Stampa” da uno dei più onesti corrispondenti dalla Libia, Mimmo Càndito. Erano gli insorti “realmente esistenti”, non quelli che potevamo desiderare, ed era appoggiati dalla maggior parte della popolazione, come si è visto quando sono arrivati a Tripoli, dove a beneficio degli ingenui l’abile propaganda di Gheddafi aveva per mesi messo in posa davanti alle telecamere qualche centinaio di fanatici sostenitori.

Gli stessi mass media hanno lanciato poi grida di allarme sulla pericolosità di tante armi finite in mani ai civili al momento della conquista di Tripoli. Per questo hanno amplificato la dimensione delle vendette che accompagnano quasi inevitabilmente la fase conclusiva di una guerra civile (compresa la nostra resistenza), analogamente a quel che aveva fatto la stampa statunitense nei confronti di Cuba fin dai primi mesi del 1959. E hanno cominciato a ribadire che sarebbe stato necessario un intervento di truppe di terra, magari di paesi arabi “moderati” o meglio di docili paesi africani, per “riportare l’ordine”. La partita non è ancora chiusa.

Non è possibile continuare nella descrizione di tutti i processi avviatisi successivamente nell’area e ancora non conclusi (dal Marocco che ha visto una sintomatica iniziativa riformista di Maometto VI, alla Siria e allo Yemen che hanno conosciuto le più sanguinose repressioni senza che i regimi siano riusciti a bloccare la protesta).

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Ma vale la pena di accennare comunque ad alcune altre novità che possono essere considerate dei “sottoprodotti” dell’ondata rivoluzionaria: Prima di tutto, non solo al Qaeda, ma anche l’Iran è stato messo al margine, il suo gruppo dirigente teme possibili ripercussioni interne, ed è in difficoltà perché ha perso l’unico alleato nell’area, la Siria, il cui regime, ammesso che riesca a soffocare del tutto le tenaci proteste, avrà in ogni caso per parecchio tempo molti gravi problemi e certo non sarà in grado di venire in aiuto all’Iran, se questo sarà scelto come bersaglio da Israele e dagli USA, come è stato più volte proposto.

Viceversa la Turchia si è radicalizzata, è divenuta più attiva su tutto lo scacchiere del Vicino Oriente, e ha “riscoperto” la solidarietà con la causa palestinese, indubbiamente accantonata negli anni in cui era il più stretto alleato di Israele. L’aggressione sionista alla Mavi Marmara, ha provocato l’esplosione di un’ostilità antisraeliana che tuttavia stava già crescendo, e ha spinto il governo Erdogan a difendere quella che in passato sarebbe stata considerata solo un’iniziativa imprudente di un piccolo gruppo di militanti, per prevenire possibili ripercussioni interne dell’ondata di ribellioni nei paesi vicini.

Ma è soprattutto Israele ad essere nel panico, non tanto di fronte alla richiesta all’ONU di riconoscimento di un fittizio Stato di Palestina avanzata da uno screditato Abu Mazen, che ovviamente non può fare davvero paura all’armatissimo Stato sionista, quanto dal riavvicinamento tra Gaza e ANP, che è stato imposto alle due parti, entrambe in difficoltà, da un’ondata di mobilitazioni giovanili per l’unità palestinese. Il processo unitario è stato presto ostacolato dalle divergenze sull’iniziativa alle Nazioni Unite, che Hamas considera un diversivo, e dalle resistenze interne ai due gruppi dirigenti, ma non sarà facile tornare indietro, perché era stato imposto da una grande mobilitazione dal basso, prevalentemente giovanile, nelle due parti della Palestina. Per il gruppo dirigente israeliano è un pericolo peggiore di qualsiasi attentato terroristico di questo o quel gruppetto.

Nonostante le dichiarazioni rassicuranti dei vertici militari dell’Egitto, la collaborazione che è stata finora determinante per mantenere Gaza in una gabbia di ferro non è affatto garantita. Ci sono molti segnali, a partire dai ripetuti attentati al gasdotto che porta il gas egiziano in Israele ai prezzi che erano stati assurdamente ridotti dal regime di Mubaraq. Più allarmante ancora l’assedio di centinaia di migliaia di persone all’ambasciata israeliana al Cairo, che ha costretto all’evacuazione del personale in elicottero (un episodio che ricorda la fuga statunitense da Saigon). Insomma qualcosa che non può essere attribuito a qualche integralista, e che rivela che la stragrande maggioranza della popolazione egiziana non ha condiviso a suo tempo il tradimento della causa palestinese da parte di Sadat, e vorrebbe oggi una svolta “nasseriana”. Si aggiunge anche la chiusura prolungata dal venerdì alla domenica dell’ambasciata ad Amman per timore di analoghe manifestazioni, a conferma che gli accordi con la dinastia giordana non sono condivisi da una parte notevole della popolazione.

Ma Israele deve fare i conti anche con un altro “effetto collaterale” della ripresa di attività delle masse arabe: anche se la maggior parte dei partecipanti non ne hanno piena coscienza, e anzi rifiutano per il momento ogni interpretazione di questo tipo, il movimento israeliano degli “indignados” ha una notevole affinità con le rivolte arabe, nate come protesta contro il carovita e la disoccupazione, prima di spostarsi sul terreno politico. Ury Avnery, che come molti oppositori israeliani aveva partecipato al movimento, aveva cercato di far capire agli accampati che non potevano disinteressarsi della politica di occupazione militare dei territori, da cui in definitiva dipendono le loro difficoltà economiche. Avnery ha sospettato anche che uno di quei razzi inefficaci e rumorosi sparati dalla striscia di Gaza (con immediato innesco di una rappresaglia già predisposta) fosse stato programmato da Gerusalemme lasciando briglia sciolta a uno dei gruppetti estremisti sempre pronti a fornire pretesti alla repressione, proprio allo scopo di spezzare la mobilitazione degli “indignados”. Per il momento il trucco è riuscito, ma non è detto che l’operazione diversiva regga a lungo.

Insomma, nulla è stato ancora risolto, in nessuno dei paesi toccati dall’ondata. La sinistra presente in Tunisia e in Egitto denuncia spesso pericolose manovre di settori della polizia e dell’esercito, in Siria e nello Yemen la repressione continua, l’Arabia Saudita ha invaso il piccolo Bahrein col consenso ovvio delle truppe statunitensi che vi hanno il loro comando generale… La vittoria non è certa ed è probabilmente lontana, ma il processo non è stato chiuso. In ogni caso nulla sarà più come prima.

Antonio Moscato

Postilla: L’idea di mettere in rete questo articolo mi è venuta vedendo sul “Sole24Ore” di domenica 9 ottobre una bella foto di una manifestazione yemenita, con un grande ritratto di Guevara. Una frettolosa ricerca di quell’immagine (che non ho trovato e probabilmente non era scaricabile) mi ha fatto scoprire un gran numero di foto di diverse manifestazioni, in vari paesi. Alcune di esse, tra cui l’ultima che ho inserito, erano apparse sul sito de “La Gaceta de Cuba” con la scandalosa didascalia: Guevara y el universo de los idiotas. Evidentemente certi “rivoluzionari” cubani ritengono che non essendoci nessuna rivoluzione araba, ma solo una “manipolazione dell’imperialismo”, soltanto degli idioti possono portare ritratti di Guevara… Naturalmente la comparsa di molti ritratti di Guevara non vuol dire che una tendenza marxista rivoluzionaria abbia l’egemonia nei processi in corso… Ma nelle polemiche di agosto a cui rispondevo in Precisazioni sulla Libia… venivo accusato addirittura di aver inventato io le magliette del Che viste a Bengasi da Mimmo Càndito, un giornalista serio e indipendente, che non a caso si è scontrato di recente con Frattini.

In ogni caso ho pensato di pubblicare l’articolo, perché tentava di fare un bilancio complessivo anche se sintetico dell’ondata delle primavere. Ma volevo anche segnalare che dopo la chiusura dell’articolo (in settembre), lo Yemen ha visto una ripresa impetuosa delle lotte (non c’è più solo repressione, come scrivevo due settimane fa: il dittatore Abdallah Saleh ha dovuto annunciare che si dimetterà a breve), e anche nel Bahrein, nonostante la grande sproporzione di forze tra chi protesta e i militari locali, sauditi e statunitensi (che in quel piccolo territorio hanno il loro comando generale per l’area), sono riprese le manifestazioni. Anche in Israele, la protesta è ricominciata: l’effetto del diversivo denunciato da Avnery è durato pochi giorni. Segnalo in proposito un ampio articolo di Michael Warschawski, Protesta sociale in Israele: è il tempo delle scelte, sul num. 45 di “ERRE” appena uscito.

Ripeto: In ogni caso nulla sarà più come prima. (a.m. 9/10/11)