Cannavò su Craxi

Craxi, Rifondazione e la politica del surf

Riprendo dal sito http://www.ilmegafonoquotidiano.it/ un pezzo di Salvatore Cannavò che affronta la questione di Craxi da un altro punta di vista. Molto interessante. Per altri aspetti, rinvio alle mie precedenti polemiche come Napolitano: non è viltà!

“La storia del Psi e quella del Prc sono incomparabili, eppure si tratta di due partiti che in soli quindici anni sono passati dall’altare alla polvere. Come la politica della tattica e della mossa del cavallo ha dissolto un intero gruppo dirigente” Dal libro "La Rifondazione mancata

 

di Salvatore Cannavò

(…) Si è corso molto con Rifondazione, di emergenza in emergenza, di elezione in elezione, di svolta in svolta, senza fermarsi mai a guardare chi fosssimo davvero, da dove venissimo, cosa eravamo stati e cosa avremmo voluto diventare. Una politica da bere, un po’ come quella Milano degli anni 80 di craxiana memoria. Del resto, sia pure nell’incomparabilità di storie, percorsi e moventi all’agire, il crollo improvviso di Rifondazione e della sinistra radicale assomiglia in modo impressionante al dissolvimento di quell’esperienza. Nessun altro partito in Italia è passato così repentinamente dall’altare alla polvere; nessun gruppo dirigente è caduto così velocemente e irrimediabilmente nell’oblio. Tranne, appunto, il Psi che per primo ha fatto della tattica e della manovra un perno obbligato della propria politica. Forse perché, al netto di differenze nemmeno comparabili, entrambi i progetti politici hanno dovuto fare i conti con un sistema politico dominato da due grandi blocchi, la Dc e il Pci per Craxi, il Polo e l’Ulivo per Rifondazione, dovendo gestire la difficile condizione del vaso di coccio tra i vasi di ferro. Una condizione che ha giustificato, ancora al netto dei contenuti, una politica "corsara", audace, veloce. Bertinotti ha gestito Rifondazione comunista nell’era del bipolarismo italiano dove la forza dei due ex partiti di massa è stata surrogata da una legge elettorale che ha realizzato un finto bipartitismo e che ha costretto il Prc a dover fare i conti con un alleato obbligato, il centrosinistra, l’Ulivo o il Pd, ma comunque scomodo e ingombrante e del tutto innaturale rispetto alla propria storia e vocazione. Da qui, la necessità di una tattica rapida e disorientante, spregiudicata e abile: l’alleanza con il primo Prodi e poi la rottura; la svolta movimentista e poi di nuovo il governo; l’antistalinismo e la non violenza. Un collage di tentativi finalizzati a far uscire quel partito dal minoritarismo e dalla tutela della frazione maggioritaria del Pci che ha dato vita ai Ds e poi al Pd. Così come Craxi aveva bisogno di passare dal 10% del Psi di De Martino ad almeno il 16-18%, percentuale mai raggiunta, così il Prc aveva bisogno del passaggio dal 5-6% storicamente detenuto a una percentuale a due cifre. Anche per questo si spiega il progetto affastellato e confuso dell’Arcobaleno, la coalizione elettorale con cui tutta la sinistra di governo si è presentata alle elezioni politiche del 2008. Un modo per provare a reggere rispetto al bi-partitismo imperfetto cui puntavano, e puntano, Berlusconi e il Pd; una tappa per limitare i danni e provare a reimpostare una strategia vincente. Una necessità vitale che ha alimentato fretta e improvvisazione, politica «acrobatica» a velocità inaudite. L’analogia potrebbe finire qui, avendo già più volte ribadita la non assimilabilità di due fenomeni così diversi. Eppure c’è ancora qualcosa che connette i due fenomeni sia pure in tempi diversi: parliamo del processo di scomposizione del movimento operaio italiano che il processo degenerativo del Partito socialista ha contribuito a avviare e che la vicenda della Rifondazione comunista ha afferrato per coda mancando la presa. Craxi e il Psi agirono con voracità e velocità in un contesto in cui, la sconfitte maturate negli anni 70, dal compromesso storico fino al vero e proprio tradimento dei 35 giorni alla Fiat, modificarono il movimento operaio producendo un arretramento ideologico dal punto di vista marxiano della «classe per sé» e una adesione sbarazzina al liberismo selvaggio che si stava sprigionando sotto le insegne del duo Thatcher-Reagan. Con gli anni 80 si apre la fase del ripiegamento, della diminuzione della forza lavoro concentrata nella grande fabbrica, della esternalizzazione che significa innanzitutto divisione e mancanza di autoriconoscimento, quindi organizzazione, e si comincia ad affermare il fenomeno della precarizzazione e della flessibilità. Il Psi agisce la propria strategia in un contesto in cui l’infiacchirsi della forza operaia e proletaria organizzata permettono ai suoi dirigenti di lanciare la parola d’ordine dell’“arrangiatevi” rivolta a giovani generazioni alle prese con l’università e un mondo del lavoro in rapido mutamento. L’indebolimento, organizzativo e strutturale, e la crisi ideologica complessiva permettono a Craxi di surfare su quel soggetto intervenendo negativamente sulla sua trasformazione oggettiva. Craxi sfrutta e alimenta la disgregazione del movimento operaio italiano per la sua impresa rivelatasi fallimentare. Questa crisi sfocerà poi, in forma molto più imponente, seria e devastante, nella crisi e nel cambiamento di nome del Pci che, dieci anni dopo, assume di fatto le indicazioni del Psi e si lancia nella propria mutazione genetica. Lo fa con lo stile e la boria di un gruppo dirigente cresciuto a “pane e Togliatti”; lo fa con il rito dovuto alla propria vicenda, con le lacrime dal palco e con gli scontri interni sottaciuti. Lo fa per il bene del paese e del partito, lo fa per la democrazia, lo fa meglio di chiunque altro. Ma lo fa. Esattamente come, senza i riti e le pantomime dell’89, aveva fatto più prosaicamente e pragmaticamente Craxi alla fine degli anni 70 con il celebre congresso del Midas o, ancora, nel 1990 cambiando nel corso di una riunione di segreteria nome allo stesso Psi trasformato in Unità socialista. Il Psi è la sentinella di uno smottamento che diverrà valanga nel corso degli anni 90 e nel primo decennio del terzo millennio. La “classe operaia” continua ad arretrare e dividersi, si smarrisce nei suoi ultimi riferimenti ideali, perde il senso di sé e della propria missione. La post-ideologia prende lo spazio della lotta di classe che invece continua dal lato della borghesia che non smette di agire per i propri interessi a colpi di ristrutturazioni, licenziamenti, controriforme pensionistiche e del lavoro, precarietà dilagante. Il soggetto sociale di riferimento nel corso degli anni 90 diventa irriconoscibile, introvabile, non agguantabile. Rifondazione comunista è costretta a subire questo processo di scomposizione restando per molti di quei settori l’ultimo baluardo, l’ultimo vascello, anche se malconcio, in un mare infestato da squali e pirati oltre che da navi nemiche. Ma, ecco che torna l’analogia, il Prc non sa affrontare questa difficoltà, non la mette nemmeno in agenda. Preferisce vivere della rendita elettorale, istituzionale e di apparato che il simbolo comunista le concede, alimentando una piccola schiera di burocrati e istituzionali che non hanno la testa e gli occhi rivolti a quel disastro sociale ma piuttosto al quadro politico, in cui devono cercare di sopravvivere. Se il Psi ha contribuito a produrre le macerie del movimento operaio, agendo al di fuori dei suoi legami, Rifondazione le rimuove o, meglio, inizia a surfarci sopra. Adotta la “mossa del cavallo” invece di dedicarsi alla “lenta impazienza” necessaria a ricostruire davvero. Sceglie tatticismi ed eclettismo per cercare di sopravvivere alla crisi che le consegna il proprio passato. Dà fondo a tutto il proprio patrimonio consumandolo improduttivamente invece di reinvestire nel sociale per cercare di far fruttare una forza nuova. La controprova è il progressivo affievolimento del suo insediamento sociale, la perdita costante di legami con la società, la marginalizzazione all’interno di tutti i sindacati, il rinsecchimento dei propri circoli e della propria vitalità politica, un turnover gigantesco che vedrà centinaia di migliaia di uomini e donne aderire a Rifondazione per poi lasciarla subito dopo. A poco a poco, lo vedremo meglio con il passare degli anni e l’esplosione di contraddizioni e antagonismi interni, Rifondazione comincia a perdere il senso stesso della propria esistenza e della propria sfida, la rifondazione appunto. E diventa l’appendice stanca di una storia giunta al termine, la “gloriosa” storia del Pci italiano che scompare dalla scena lasciando sul terreno un partito all’americana e una manciata di detriti. Ma una soggettività che non riesce a congiungersi con le proprie radici può veleggiare nella politica per molti anni, può anche avere successi parziali ma alla fine soccombe con una rapidità inaspettata e improvvisa. Può sparire da un giorno all’altro e lasciare un vago ricordo di sé.

Il libro "La Rifondazione mancata"

 

Cannavò a Macerata