Cina | La questione uigura: un po’ di chiarezza

di Daniel Tanuro

[La questione uigura è improvvisamente diventata centrale sulla scena politica belga, fra il PS e, più ancora, ECOLO da una parte, e il PTB dall’altra. I primi accusano il secondo di complicità nel genocidio del popolo uiguro, il secondo accusa i primi di prender parte a una nuova guerra fredda imperialista contro la Cina (1). Le ostilità sono cominciate, ma è sorprendente vedere come i due campi contrapposti abbiano un punto in comune: entrambi tacciono sul fatto che, se Pechino opprime i popoli musulmani dello Xinjiang (o Sinkiang) con gli stessi metodi impiegati dagli Stati Uniti in Iraq e da Israele in Palestina, ciò avviene per motivi economici e geostrategici simili. Si tratta, in effetti, di accaparrarsi le ricchezze, e in particolare quelle energetiche, di questo territorio. A beneficio degli Han, naturalmente, ma anche delle multinazionali che approfittano delle condizioni di sovrasfruttamento in questa officina del mondo capitalista. E si può anche andare oltre, e dire che l’oppressione degli Uiguri contribuisce a ridurre i costi dei «Green Deals» e di altre formulazioni analoghe della transizione verso un capitalismo verde in Occidente. Cerchiamo di vederci chiaro. (Gauche anticapitaliste)].

Lo Xinjiang non è diventato una provincia cinese vera e propria che con la sua annessione all’impero Qing alla fine del XIX secolo (2). La denominazione assegnatagli non lascia spazio a dubbi: «Xinjiang» in cinese significa infatti «nuova marca», «nuova frontiera». Benché l’impero Qing non possa essere assimilato alle potenze imperialiste occidentali dell’epoca (come la Gran Bretagna, la Francia e … la monarchia belga), non si può negare il fatto che lo Xinjiang nasca da una conquista coloniale della Cina imperiale nella sua immediata periferia (così com’è stato il caso del Caucaso e di parti dell’Asia centrale per quanto riguarda la periferia dell’impero russo). E non si può nemmeno negare il fatto che le diverse popolazioni autoctone maggioritarie – e maggioritariamente musulmane – dello Xinjiang non si siano mai considerate e continuino a non considerarsi cinesi. L’attuale obiettivo di Pechino è precisamente quello di sommergerle con un colonialismo di popolamento han che discrimini i musulmani turcofoni in tutti i sensi, ritenendo che le loro religioni ed etnie li rendano sospettabili di terrorismo e lasciando loro una “scelta” fra una sinizzazione forzata o l’inferno d’una repressione orwelliana senza paragoni.

Un po’ di storia del Turkestan Orientale

La vera natura di ciò che Pechino chiama “Xinjiang” si coglie meglio se si ricorre alla più vecchia denominazione di “Turkestan Orientale”, anche se nemmeno questo termine esprime bene la varietà dei popoli che vi vivono. Questo vastissimo territorio (un sesto della Cina, il triplo della Francia) fa parte in effetti dell’immensa Asia centrale, con le sue elevate catene di montagne, le sue steppe, i suoi deserti, le sue fiorenti oasi e le sue animate città mercantili. Da svariati millenni questa regione è all’intersezione degli scambi Nord-Sud (fra le steppe siberiane e il subcontinente indiano) e, soprattutto, Est-Ovest (fra la Cina, la depressione caspica, il Mar Nero e il bacino mediterraneo), lungo la “via della seta”.

Aspramente disputata nel corso dei secoli e formata da due distinte entità (le steppe della Zungaria, con i suoi popoli nomadi, a Nord, e il bacino del Tarim, con i suoi mercanti e coltivatori, che circonda il deserto del Taklamakan, a Sud), la regione annessa dai Qing era – e resta – un centro di scambi commerciali e culturali. Le due principali ramificazioni della “via della seta” attraversano in effetti lo Xinjiang, aggirando i deserti e incuneandosi fra le montagne. La mescolanza di popoli (Uiguri, Kazaki, Tagiki, Mongoli, Russi, Tatari, Cinesi…) e di religioni (musulmani, animisti, buddisti, taoisti…) è il risultato di questa lunga storia.

Nel corso di quest’ultima gli imperi (persiano, ottomano, mongolo, tibetano e cinese) hanno cercato di assicurarsi il dominio della regione, per impadronirsi di posizioni strategiche e per lucrare, con le tasse, sul suo fiorente commercio. Più recentemente, la rivoluzione industriale importata dall’Occidente ha rinfocolato gli appetiti, perché lo Xinjiang è ricco di prodotti agricoli (coltura del cotone) e di risorse minerarie (carbone, petrolio, gas, ferro, oro, rame, piombo, zinco, uranio). Con la modernità, in certi strati della popolazione, in particolare quelli aderenti al sufismo, si sono sviluppate aspirazioni democratiche a favore dello sviluppo, dell’istruzione e della liberazione dalla duplice tutela della tradizione e degli imperi, russo e cinese in particolare.

In questo contesto, la nascita dell’URSS incarnò, per un periodo – troppo breve – di alcuni anni, la speranza di spezzare ciò che Lenin, riferendosi all’impero russo, chiamava la «prigione dei popoli». Questa parentesi si chiude brutalmente con Stalin e il riemergere dello sciovinismo grande-russo. Più tardi, nel 1933, in un contesto turbolento, venne proclamata una Repubblica del Turkestan Orientale, rapidamente schiacciata dai signori della guerra hui (cinesi musulmani) alleati al Kuomintang. Nel 1944 si ebbe un secondo tentativo indipendentista, ambiguamente sostenuto dall’URSS (che dal 1941 controllava la regione, e nel dopoguerra vi si procurò l’uranio necessario alla sua prima bomba atomica). Tuttavia, Mosca permise alla Cina (ormai Repubblica Popolare) di riprenderne il controllo, nel 1949, dopo un bizzarro incidente: la misteriosa morte di undici nazionalisti uiguri del Turkestan orientale, scomparsi in un incidente aereo… mentre si recavano a Pechino per trattare con Mao Zedong.

Una colonia di popolamento han

In qualunque circostanza – sotto i Qing, all’epoca del Kuomintang o nel quadro della Repubblica popolare (RPC) – la Cina ha sempre cercato di incrementare la presenza fisica degli Han, da lungo tempo installati lungo la “via della seta”, ma ultraminoritari in questa regione scarsamente popolata (attualmente, 21 milioni d’abitanti, di cui il 60 % rurali). Tale volontà è apparsa più chiaramente dopo il 1949, quando la situazione in Cina e alle sue frontiere s’è in qualche modo regolarizzata. Il regime maoista ha incrementato una politica di colonizzazione di popolamento pilotata dallo Stato. La parte degli Han nell’insieme della popolazione è passato da circa l’8 % (1953) a oltre il 40 % (2000), con tassi più elevati nella metà settentrionale della provincia e con una accentuata separazione rispetto ai popoli autoctoni. Nello stesso periodo, la percentuale degli Uiguri ( di gran lunga il più consistente dei popoli autoctoni) è scesa da oltre il 75 % al 45 % (3). E non basta: il piano quinquennale in corso (2016-2020) prevede l’installazione di un altro milione di Han.

Gli Han e gli Hui (minoranza di Cinesi musulmani) si concentrano lungo le vie di comunicazione e nelle città, in modo particolare nella capitale Urümqi e nei centri storici della civiltà medievale uigura (Kashgar, Aksu, Tarim …), dove sono maggioritari. Vi sono attirati dai piani nazionali di sviluppo del Nord-Ovest avviati dal Xinjiang Construction and Production Corps (XCPC), una struttura del potere centrale incaricata dello sviluppo, della sicurezza e dell’armonia etnica nella regione. Questo XCPC impiega 2,4 milioni di persone (per il 90 % han), controlla un terzo delle terre arabili, un quarto della produzione industriale e amministra direttamente molte città di media ampiezza. Si tratta della potenza dominante nello Xinjiang e del principale strumento di sinizzazione sociale, economico e amministrativo. Altro strumento della colonizzazione han è l’esercito: nello Xinjiang vi sono un milione e trecentomila soldati cinesi, e nell’arco dei prossimi anni questo numero dovrebbe triplicare, mentre è prevista la costruzione di 25 città per alloggiare le truppe. Infine, la liberalizzazione economica ha fatto sì che un numero sempre maggiore di Han si trasferisse nello Xinjiang per farvi carriera nel settore privato (industria petrolifera e tessile, turismo…), i cui proprietari han assumono preferibilmente … degli Han.

Ma, si obietterà, lo Xinjiang è pur sempre una regione uigura autonoma, no? Sulla carta, sì, è così. Nel 1955 Pechino concesse uno statuto di autonomia a diverse regioni popolate da non-Han, fra le quali il Xinjiang. All’epoca, Mao Zedong attirava già l’attenzione sul fatto che la RPC era popolata per il 94 % da Han, ma per il 60 % del suo fabbisogno dipendeva dalle risorse minerarie ed energetiche allocate in regioni in cui le minoranze erano maggioritarie, fra le quali il Xinjiang. Come nel caso dell’URSS, il regime burocratico del partito unico maoista era molto sensibile alla possibilità che i gruppi oppressi, qualunque fossero, entrassero in dissidenza. Vi sono stati periodi caratterizzati da un maggior paternalismo e altri da una maggiore repressione ma, in linea generale, l’«autonomia» delle regioni speciali è sempre stata strettamente controllata dall’apparato del partito (dove gli Han sono dominanti), e pertanto dal potere centrale, con l’accompagnamento d’un discorso ideologico ipocrita a base di «aiuto reciproco», «armonia» e «unità» in seno alla patria.

Nello Xinjiang questa politica è stata applicata sin dalle origini, unitamente a una diffidenza istituzionale e all’incoraggiamento dei pregiudizi degli Han nei confronti delle popolazioni turcofone e musulmane, sospettate di poter tradire la nazione a favore del mondo islamico in generale e di quello turco in particolare. Di conseguenza, sin dal 1966 agli Uiguri è stato proibito di lasciare la Cina, in modo che non si esponessero a funeste influenze. Dopo la morte di Mao (1976), negli anni Ottanta si è avuto un relativo allentamento del controllo sui musulmani turcofoni ma, dopo che l’URSS fu sconfitta dai Talibani in Afghanistan (febbraio 1989) e dopo la repressione del movimento democratico a Tienanmen (giugno dello stesso anno), il regime ha ripreso a stringere la vite contro i musulmani dello Xinjiang, il locale apparato del partito è stato epurato e la tensione è salita di diversi gradi. Negli anni Novanta si sono avuti diversi moti, violentemente repressi. Degli Han e degli Uiguri “collaborazionisti” sono stati aggrediti, e a volte uccisi. Nel 2009 degli scontri interetnici a Urümqi si sono conclusi con almeno 197 morti. Questi dati vanno presi con prudenza, ma sembra che tutto sia cominciato con un raduno di studenti che esigevano una spiegazione sulle circostanze della morte, nel corso di una rissa, di due operai uiguri trasferiti nel Sud. Vittime del razzismo han? In ogni modo, a partire da allora la dottrina «Yanga» delle autorità («colpire duramente» la minaccia autonomista) è diventata il sistematico complemento dei piani di sviluppo favorevoli agli Han (4).

Spossessioni, umiliazioni, discriminazioni: di male in peggio

Fra Cinesi e non-Cinesi le tensioni erano andate accumulandosi nel corso dei secoli. Lungi dall’allentarle, la politica della RPC le ha acuite, in modo particolare da una trentina d’anni a questa parte. Il motivo risiede nella volontà del regime di fare della Cina l’«officina del mondo» capitalista, per issarla al rango di grande potenza. L’“officina del mondo”, in effetti, abbisogna di molta energia, ciò che ha considerevolmente accresciuta l’importanza dello Xinjiang. Questo è al primo posto fra le province cinesi per le riserve note di combustibili fossili (38 % del carbone; 21,5 % del petrolio; 23,3 % del gas naturale) e dell’uranio. La provincia dispone inoltre di un gigantesco potenziale di energie rinnovabili (eoliche, solari, idroelettriche), solo parzialmente sfruttato (5).

L’amministrazione cinese punta su questo Eldorado energetico sia per industrializzare la provincia, sia per sostenere l’industrializzazione del Paese intero, mediante l’esportazione di elettricità e di gas verso altre regioni. Un gasdotto dovrà collegare lo Xinjiang a Shanghai. Il carbone, sul posto a basso costo, consente di produrre elettricità a buon mercato, ciò che risulta essere decisivo per la competitività dell’industria, in modo particolare nella produzione di silicone policristallino, estremamente energivora. La legge del profitto comanda: quasi la metà del silicone policristallino utilizzato nel mondo per fabbricare pannelli fotovoltaici viene dallo Xinjiang. Senza questa risorsa, disponibile a un prezzo che sfida ogni concorrenza, i costi della «transizione verde» e dei «Green Deals» capitalisti salirebbero considerevolmente (6). Stando così le cose, si comprende meglio il fatto che l’Unione Europea, nel sottoscrivere il suo recente accordo commerciale con la Cina, abbia ficcato sotto il tappeto il problema dei diritti umani… (7).

La colonizzazione di popolamento, con l’accaparramento delle risorse, ha effetti a pioggia sui piani sociale ed ecologico. Per esempio, l’estrazione del carbone richiede grandi quantità d’acqua. Lo Xinjiang non ne è carente, ma è anche un paese di deserti e di oasi. Affinché l’industria disponesse a sufficienza di questa risorsa, Pechino ha stabilito che l’agricoltura dovesse consumarne meno. Il regime ha pertanto organizzato un massiccio esodo rurale delle popolazioni autoctone. Si stima che fra il 2004 e il 2020 siano oltre dieci milioni le persone che hanno dovuto lasciare le campagne per andare a lavorare in un’economia dominata dagli Han. E coloro fra esse che presentavano indici di una possibile «radicalizzazione islamica» sono state costrette ai lavori forzati nell’ambito di una loro «rieducazione» (8).

Le multinazionali capitaliste sono fra i grandi beneficiari di questo sistema: fra il 2017 e il 2019 sono 83 quelle che avrebbero tratto profitto dal lavoro forzato di circa 80.000 lavoratori delle comunità musulmane dello Xinjiang. Quanto alle terre recuperate in questo modo, sono state proposte agli investitori cinesi. Qui sta il segreto dell’esplosiva espansione della monocoltura industriale del cotone, che ha trasformato lo Xinjiang in una delle principali regioni cinesi nella produzione e trasformazione tessile. Nel complesso, è vero che la provincia è uscita dalla condizione di povertà che la caratterizzava in precedenza, ma con un impressionante aumento dell’ineguaglianza sociale, soprattutto se si considera la discriminante etnico-religiosa: il reddito medio di una famiglia han supera anche di quattro volte quello delle famiglie uigure, kazake e di altri gruppi musulmani oppressi (9).

Nuove “vie della seta” e oppressione intensificata

S’è instaurata una dinamica coloniale che odora di razzismo e di islamofobia, che nell’ultimo periodo s’è aggravata nel quadro del progetto cinese delle “nuove vie della seta”. Lo Xinjiang si trova in effetti in una posizione centrale di questo ampio piano economico e geostrategico che mira a intensificare gli scambi globali della Cina con l’Occidente, a ridurre la sua dipendenza dalle energie fossili importate dal Medio Oriente (da una parte, importando gas russo e petrolio dal Kazakistan; dall’altra, sfruttando le proprie riserve fossili e sviluppando l’energia nucleare e quelle rinnovabili) e a costruire attraverso l’Eurasia vie di comunicazione terrestre (strade e ferrovie) che potrebbero rivelarsi utili in caso di tensioni sui collegamenti marittimi. In altri termini, le “nuove vie della seta” significano che il territorio dello Xinjiang non è più solo un deposito di risorse, ma diventerà il punto di passaggio di ingenti flussi commerciali, il cui oliato funzionamento non deve essere messo in causa da alcunché. Di punto in bianco, il rigido controllo dei popoli musulmani oppressi dell’Asia centrale diventa per Pechino una necessità geostrategica ineludibile: a qualunque costo è necessario che l’ordine regni nello Xinjiang (10).

Questo piano non nasce dal nulla. Già nel 2001, a seguito degli attentati terroristici a New York, la Cina, la Russia, il Kazakistan, l’Uzbekistan, il Kirghizistan e il Tagikistan avevano dato vita alla OCS, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (estesasi nel 2017 all’India e al Pakistan). L’iniziativa era venuta soprattutto da Putin. Il leader russo, stando alle sue parole, in Cecenia aveva «inseguito i terroristi fin nel cesso»: e cioè schiacciato i Ceceni insorti contro le sopraffazioni di Mosca. La Cina ha quanto meno gli stessi interessi di Mosca, perché l’obiettivo dell’OCS è quello di «garantire la sicurezza collettiva dei suoi aderenti di fronte alle minacce del terrorismo, dell’estremismo e del separatismo» (11). La partecipazione dei quattro “stan” lascia indovinare il gioco di Putin e Xi: usare il bastone e la carota per assicurarsi la collaborazione degli apparati polizieschi delle ex Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale nella lotta contro gli oppositori «terroristi», «separatisti» e anche genericamente «estremisti». D’ora in avanti, le popolazioni musulmane e le altre comunità oppresse della regione entrano nel mirino. È su questa base che la Cina ha ottenuto dal Kazakistan la messa al bando delle organizzazioni uigure.

La questione nazionale non è, in generale, che il riflesso della questione sociale. Quando le comunità etnico-religiose oppresse vengono spossessate e discriminate sul piano economico e sociale, non ci si deve stupire che la loro legittima protesta assuma una forma nazionalista e/o religiosa. L’aveva ben compreso Lenin. In una tardiva presa di coscienza della brutalità da grande-russo di Stalin nei confronti dei comunisti georgiani, accusati di «social-nazionalismo», Lenin nel 1922 aveva raccolto le sue ultime forze per una messa in guardia. «Non bisogna assolutamente impostare in astratto la questione del nazionalismo in generale», scriveva. «È necessario distinguere il nazionalismo della nazione dominante dal nazionalismo della nazione oppressa […] Nei confronti del secondo nazionalismo, noi, appartenenti a una grande nazione, ci troviamo ad essere quasi sempre, nella prassi storica, colpevoli di infinite violenze, e anzi, compiamo in più, senza nemmeno accorgercene, un numero infinito di violenze e offese […] Perciò l’internazionalismo […] deve consistere non solo nell’osservare la formale uguaglianza tra le nazioni, ma anche una certa ineguaglianza che compensi da parte […] della grande nazione, l’ineguaglianza che si crea di fatto nella realtà. Chi non l’ha capito, non ha capito l’atteggiamento realmente proletario verso la questione nazionale […] e perciò non può non scivolare ad ogni istante nella posizione borghese» (12). Oggi Lenin deve rivoltarsi nella tomba: è in nome del «comunismo» che il regime cinese commette, nello Xinjiang, un’infinità di violenze, di ingiustizie, di esazioni freddamente programmate, su scala di massa.

L’assimilazione forzata, col pretesto dell’antiterrorismo

Come caratterizzare queste violenze? Il governo statunitense e numerosi media capitalisti parlano di «genocidio». Un genocidio è lo sterminio fisico d’un intero popolo, ma vi è oggi una irresponsabile tendenza a utilizzare questa nozione in modo indiscriminato. Nello Xinjiang non è in atto un genocidio. Il ricorso da parte di ECOLO a questa accusa è del tutto inappropriata. Formulandola, i Verdi contribuiscono a banalizzare i veri genocidi – di ebrei, di tutsi, di armeni… – e gli orrori commessi dall’imperialismo in tutto il mondo nel corso della sua storia (Hiroshima e Dresda, per esempio). Di più: così essi aiutano Pechino a sbarazzarsi da un’accusa manifestamente di carattere propagandistico.

In realtà, la Cina non vuole affatto liquidare fisicamente tutti gli Uiguri, così come del resto Israele non vuole affatto liquidare fisicamente tutti i Palestinesi. L’obiettivo di Pechino è un altro: distruggere culturalmente i popoli musulmani dello Xinjiang, sinisizzarli eliminando puramente e semplicemente i loro caratteri identitari, usarli come manodopera a buon mercato. Questo progetto si articola in vari modi: nei roghi dei libri, nei provvedimenti contro le lingue materne, nelle restrizioni alla libertà religiosa, nei campi di rieducazione, nel sistema di spionaggio e di delazione, nei posti di blocco, nella sistematica schedatura biometrica, nella sottrazione dei figli ai genitori “sospetti”, nel ricorso a lavoratori e lavoratrici uiguri per riempire i buchi causati dal Covid in altre province, per non parlare della pratica particolarmente perversa dei cosiddetti «cugini han», questi funzionari cinesi incaricati di passare una settimana al mese “ospiti” di una famiglia uigura.

Nonostante che la Cina faccia grandi sforzi per non lasciar filtrare niente della sua politica nello Xinjiang, sappiamo abbastanza – grazie alla diaspora organizzata nel Congresso mondiale uiguro (che nulla ha a che fare con lo jihadismo!) – per affermare che nel Nord-Est cinese è in atto un crimine contro l’umanità. Un crimine odioso, con l’aggravante di essere perpetrato a porte chiuse da uno Stato possente nei confronti di una minoranza che non ha alcuna via d’uscita. Un crimine orwelliano, del quale multinazionali capitalistiche e Stati occidentali sono di fatto complici, nonostante i dirigenti di questi ultimi formulino ipocritamente l’accusa di «genocidio» per rinverdire il mito della «democrazia occidentale».

Come abbiamo detto in un’altra occasione, la Cina fa ricorso nello Xinjiang a metodi ispirati alle strategie repressive impiegate dall’imperialismo statunitense in Iraq e dallo Stato sionista in Palestina. Con quattro eccezioni, che fanno sì che la politica di Pechino sia un inasprimento degli originali: 1) la strategia è impiegata in modo preventivo; 2) si basa in modo strutturale, alla maoista, sulla collaborazione dei comitati di quartiere del partito e su quella degli individui della nazione colonizzatrice; 3) fa ricorso su larga scala a tecnologie di tracing e di riconoscimento facciale; 4) le popolazioni, racchiuse all’interno del proprio Paese come se si trattasse di una prigione a cielo aperto, non sono solo sottoposte a umilianti controlli (come i Palestinesi) ma anche a un tentativo di assimilazione forzata su larga scala.

Come in Occidente (e in Russia), la «lotta contro il terrorismo» funge in Cina da pretesto per una politica colonialista di rapina veicolo anche di razzismo e di islamofobia. Come in Occidente (e in Russia) la «lotta contro il terrorismo» fertilizza il terreno per il terrorismo, di modo che sviluppandosi il terrorismo serve a giustificare la lotta antiterrorista e il suo inasprimento. Il caso ceceno, che ha ispirato la Cooperazione di Shanghai, è istruttivo: le operazioni militari «antiterroriste» si sono protratte, ufficialmente, sino al 2009, al punto che Mosca s’è vista costretta a dichiarare finita per la seconda volta una guerra a suo dire già vinta nel 2001. Ciò che è avvenuto in questo periodo è stata la “cecenizzazione” del conflitto, e cioè l’istituzione di un brutale potere locale al quale Mosca ha “esternalizzato” la repressione, che continua ancora oggi. Tutte le esperienze di guerra alla jihad conducono a una stessa conclusione: queste politiche non producono solo brutali conflitti, ma sfociano in situazioni nelle quali la questione politica (la rivendicazione d’autonomia della popolazione in questione) non viene risolta, con il susseguirsi di violenze cicliche che s’alimentano l’un l’altra, senza fine.

La messa in guardia di Lenin

Il Parti du travail du Belgique (PTB) denuncia queste dinamiche infernali quando si tratta dell’Iraq o della Palestina, ma nel caso degli Uiguri sembra piuttosto imbarazzato. Dice di «disapprovare la risposta cinese al terrorismo», che trova «troppo inclusiva» (intervista a Nabil Boukili alla RTL). Questa argomentazione anguillesca accredita, di fatto, l’idea che il problema di fondo, nello Xinjiang, sia il terrorismo. Ora, se è vero che degli Uiguri si sono uniti alla jihad in Afghanistan e in Siria, e se è vero che degli Uiguri hanno compiuto attacchi terroristici in Cina (nella piazza Tienanmen nel 2013, nelle stazioni ferroviarie di Kunming e di Urümqi nel 2014, e probabilmente altri ancora [13]), non v’è alcun dubbio che il vero problema, come in Palestina, risieda nella colonizzazione di popolamento, nell’accaparramento delle risorse da parte di un colonizzatore intriso di disprezzo, nell’accumulo di discriminazioni e umiliazioni imposte a persone spossessate del proprio Paese e, come appunto nel caso dello Xinjiang, della propria cultura. Che una simile intollerabile ingiusta situazione (della quale le donne, nello Xinjiang come altrove, sono le vittime principali) finisca col provocare esplosioni di collera non può stupire alcun marxista degno di questo nome. La dura repressione messa in atto per perpetuare l’ingiustizia non può che alimentare il jihadismo, qui incarnato dal Movimento islamico del Turkestan Orientale (14).

In materia, niente c’è da aspettarsi dai Verdi, ubbidienti gestori del neoliberismo e sostenitori di un molto ipotetico «capitalismo verde». Quanto al PTB, si trova alle prese coi fantasmi del proprio passato. Approfitterà dell’occasione per rimettere in discussione la propria parentela ideologica con lo stalinismo, dissimulata agli occhi dei suoi iscritti ma mai rinnegata? (15). Per poterlo fare dovrebbe prendere atto della realtà, e in particolare di ciò che lo storico Moshe Lewin ha chiamato «L’ultima battaglia di Lenin» (16). La domanda cui si deve dare una risposta è questa: perché il dirigente della Rivoluzione d’Ottobre denunciava in modo così virulento il nazionalismo grande-russo in seno al partito? E la risposta è che egli riteneva che l’atteggiamento nei confronti delle piccole nazioni oppresse fosse una questione di principio, una questione che non si può ignorare senza conseguenze: «Chi non l’ha capito […] non può non scivolare […] nella posizione borghese».

Non si deve pensare che Lenin, dicendo questo, sottovalutasse l’importanza del fronte unito contro l’imperialismo che assediava l’URSS. Al contrario. Ecco quanto sosteneva: «Una cosa è la necessità di essere compatti contro gli imperialisti dell’Occidente, che difendono il mondo capitalistico […]; altra cosa è quando noi stessi cadiamo […] in atteggiamenti imperialistici [sottolineatura mia. DT] verso le nazionalità oppresse, minando così completamente tutta la sincerità dei nostri principi, tutta la nostra difesa di principio della lotta contro l’imperialismo».

Lenin, ricordiamocelo, con queste parole fustigava la deviazione in senso nazionalista grande-russo d’un numero ristretto di dirigenti sovietici, nel momento in cui la rivoluzione trionfante sembrava sul punto di poter estirpare il cancro capitalista fin dalle radici. Si può agevolmente immaginare cosa oggi direbbe il dirigente dell’Ottobre del nazionalismo grande-han di tutti i dirigenti cinesi, che stanno allegramente pilotando il loro Paese verso il ristabilimento del più brutale capitalismo. Altro che «scivolare nella posizione borghese»… Il dovere della sinistra è quello di sostenere il popolo uiguro contro il tentativo di strangolamento culturale da parte della Cina, non di nascondere con mezze parole i crimini di Pechino.

(28 aprile 2021)

Note

[1] https://www.rtl.be/info/video/778281.aspx [PS sta per Parti socialiste; ECOLO è il partito dei Verdi (l’acronimo sta per Écologistes confédérés pour l’organisation de luttes originales); PTB è il Parti du travail de Belgique. I socialisti, un tempo fra i maggiori partiti belgi, sono in forte declino (9,5 % nelle elezioni del 2019), mentre in ascesa, ma sempre più filocapitalisti (sia pure di un capitalismo “verde”) sono gli ECOLO (6,1 %). Quanto al PTB (8,6 % e 12 deputati, fra i quali Nabil Boukili, citato più sotto), ha un passato maoista (viene fondato nel 1970 come Tout le pouvoir aux ouvriers), ma col tempo ha subito un’evoluzione, con molti contorcimenti, che però non gli ha impedito di diventare uno dei principali partiti della sinistra belga, sia pure al prezzo di notevoli concessioni a contradditorie posizioni populiste. Nota del traduttore, Ndt)].

[2] Già nel 1750 era stato sottoposto a parziale tutela.

[3] https://www.cairn.info/revue-internationale-et-strategique-2006-4-page-89.htm

[4] Ibidem.

[5] https://www.powermag.com/energy-industry-xinjiang-china-potential-problems-solutions-web/

[6] https://www.bloomberg.com/news/articles/2021-02-10/why-it-s-so-hard-for-the-solar-industry-to-quit-xinjiang

[7] https://france.attac.org/actus-et-medias/salle-de-presse/article/premiere-analyse-de-l-accord-d-investissement-ue-chine

[8] https://www.cairn.info/revue-l-homme-2020-3-page-191.htm?contenu=article

[9] Vedi il sito riportato alla Nota 3.

[10] https://www.sciencespo.fr/ceri/fr/oir/la-lutte-contre-le-terrorisme-et-l-extremisme-au-xinjiang-quelles-methodes-pour-quels-resultats-#footnote3_rcdtlgz

[11] https://fr.wikipedia.org/wiki/Organisation_de_coopération_de_Shanghai

[12] Oeuvres, t. 36, pp 618 e segg. [Il testo citato è Sulla questione delle nazionalità. La traduzione dei brani riportati è presa dal Marxist Internet Archive: https://www.marxists.org/italiano/lenin/1922/12/georgia.htm Ndt]

[13] https://www.lemonde.fr/asie-pacifique/article/2014/05/20/attentats-ouigours-la-chine-confrontee-au-terrorisme-de-masse_4422114_3216.html Nessuno di questi attacchi è stato però rivendicato.

[14] Il ruolo di questo gruppo sembra, sino a ora, del tutto marginale, nonostante che le autorità cinesi sostengano il contrario: https://www.cairn.info/revue-internationale-et-strategique-2006-4-page-89.htm

[15] Dalla guerra in Bosnia alla guerra in Siria, senza dimenticare la Libia, questa parentela continua a generare, nel PTB, una visione del mondo «campista», in bianco e nero: un’eredità di quella guerra fredda della quale i Verdi vengono accusati di essere oggi i continuatori.

[16] https://www.persee.fr/doc/homso_0018-4306_1967_num_5_1_3093 [Moshe Lewin, L’ultima battagli di Lenin, Laterza, Bari 1969. Ndt]

Titolo originale: Le Xinjiang s’invite dans la politique belge: https://www.gaucheanticapitaliste.org/le-xinjiang-sinvite-dans-la-politique-belge/

Traduzione dal francese di Cristiano Dan.