Dallo Yemen a Damasco

 

Nel plauso generale, la conferenza di Sharm el Sheikh che riuniva i più retrogradi regimi arabi, ha avallato il bombardamento della popolazione yemenita, in nome della “lotta al terrorismo”. Ne avevo accennato nell’articolo Dallo Yemen a Gaza, che denunciava la pericolosità dell’appoggio dato da Mahmoud Abbas all’aggressione allo Yemen. Il capo della cosiddetta “Autorità Palestinese” invitava addirittura ad estendere a Gaza i “bombardamenti sanitari” per sradicare Hamas. Mostruoso, anche se è difficile che possano servire a molto. Non sono servite neppure a Israele, che dispone di una forza militare non comparabile a quella di tutti questi paesi. E d’altra parte di operazioni di terra nello Yemen per ora non se ne parla neanche, dato che la maggior parte dei paesi partecipanti – a parte Turchia ed Egitto – non sono in grado neppure di tentarle.

E i bombardamenti sullo Yemen per colpire i “ribelli” Houthi, cioè per intervenire in un conflitto interno a un paese complesso, con una popolazione quasi uguale a quella dell’Arabia Saudita e di gran lunga superiore a quella di paesi come la Giordania o gli Emirati o il Kuwait, non sono serviti a molto in loco, e ancor meno per colpire le quotidiane manifestazioni di barbarie integralista in Nigeria o in Kenia, o a contenere l’espansione dello Stato Islamico in varie parti del mondo. Hanno però rivelato ancora una volta la doppiezza e incapacità di Washington a destreggiarsi nel Medio Oriente: si allea come sempre con Israele e Arabia Saudita, ma dovendo fare i conti con l’Iran se vuole ottenere un aiuto significativo nel contenimento dell’ISIS in Iraq e Siria.

Nel frattempo, segnalata con angoscia da pochi, con l’eccezione di Domenico Quirico su “la Stampa”, è arrivata una notizia tremenda dalla Siria: il campo di Yarmuk, alla periferia di Damasco, è stato conquistato da una formazione dell’ISIS, appoggiata da parte della popolazione sopravvissuta a ogni tipo di vessazioni e ai combattimenti tra le diverse fazioni che l’hanno coinvolta. A Yarmuk sono rimasti, probabilmente, non più di 18.000 palestinesi, mescolati a non pochi siriani poveri (come era accaduto a Sabra e Chatila con i libanesi). In passato il campo aveva ospitato fino a 120.000 persone, originariamente solo palestinesi. La maggior parte degli edifici sono ridotti in macerie, e la popolazione per sopravvivere dipende esclusivamente dalla distribuzione di aiuti internazionali.

Il dato più inquietante è proprio che a Yarmuk si può assistere in diretta a come l’ISIS trova le condizioni per conquistare terreno: l’abbandono (in primo luogo da parte dei dirigenti dell’OLP, per non parlare della cosiddetta “comunità internazionale”) in cui si trovano i rifugiati palestinesi, che sono impotenti di fronte a una guerra civile che ha fatto già 200.000 morti, e che ha avuto vari sponsorizzatori internazionali, incapaci però di avviarla a una conclusione qualsiasi, predispone gli abitanti del campo ad accogliere qualsiasi novità, pur di uscire dalla situazione attuale.

Mai come in questo caso emerge la responsabilità diretta della dirigenza palestinese, incapace di resistere alle pressioni dello Stato di Israele, e che per questo ha abbandonato completamente i palestinesi della diaspora, sparsi in diversi paesi arabi, sempre in condizioni disumane, e a cui è stato sistematicamente negato il diritto al ritorno.

Responsabilità diretta, dicevo, non solo della squallida e corrotta direzione attuale, ma anche di quella che in tempi migliori, e coprendosi con discorsi apparentemente rivoluzionari, aveva scelto la strada del “non intervento” negli affari interni degli altri paesi arabi. Una scelta opportunista pagata a caro prezzo: dal massacro del “Settembre Nero” in Giordania, alle tante stragi nel Libano di cui basterebbe ricordare quella Sabra e Chatila. Tutte perpetuate da truppe mercenarie locali, sotto l’occhio benevolo dell’esercito israeliano, ma anche di quello siriano. Una scelta pagata anche con una dipendenza economica e politica sempre maggiore della burocrazia palestinese dai regimi feudali o dittatoriali dell’area. Le forze palestinesi, che negli anni Settanta non erano esigue, avevano rinunciato a saldarsi con le sinistre interne in Giordania o in Libano, e avevano finito per essere ugualmente travolte e costrette a un esodo incessante.

Con questa logica di dipendenza dai suoi protettori Mahmoud Abbas ha finto ora di credere che nello Yemen si combatta contro il terrorismo, anziché per evitare che dalla guerra civile emerga una direzione amica dell’Iran. Come confermano i commenti allarmati all’accordo di Losanna sull’arricchimento dell’uranio iraniano, che a Riyadh ricalcano quelli del governo israeliano.

E il governo italiano tace, o avalla, condendo con banalità le tante velleità di intervenire sulla scena internazionale. Cosa si deve aspettare perché la sinistra riprenda a discutere anche di politica internazionale? O si pensa che ottenere un 3 o 4% nelle regionali per qualche candidato governatore sedicente “di sinistra” basti a evitare il precipitare del nostro paese in nuovi conflitti incontrollabili e che rimbalzeranno prestissimo in casa nostra, sotto forma di vero terrorismo?

(a.m. 3/4/15)