Gli arabi e la Shoah

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GLI ARABI E LA SHOAH:

«COMBATTERE LE CARICATURE SIMMETRICHE»

Intervista di Olivier Doubre a Gilbert Achcar (pubblicata nella rivista francese Politis, 2-02-2010),

[v. il sito di Europe sans Frontières: http://www.europe-solidaire.org/spip.php?/article16573]

 

 

Olivier Doubre – Nell’Introduzione al suo libro (G. Achcar, Les Arabe et la Shoah, Sindbad/Actes/Sud] lei precisa di averlo scritto con «l’intenzione di combattere le caricature simmetriche» che spesso circolano sugli arabi nei confronti della Shoa. Di che cosa si tratta?

Gilbert Achcar – Queste caricature abbondano nella guerra di propaganda in corso tra fautori di Israele e filo-palestinesi o filo-arabi. La visione caricaturale diffusa dai sostenitori di Israele presenta gli arabi come se fossero stati in maggioranza filo-nazisti, e sfrutta in particolare la figura del fin troppo celebre muftì Amin Al-Husseinni, il cosiddetto “Muftì di Gerusalemme”. Costui, effettivamente, si è rifugiato nel 1941 presso le potenze dell’Asse, trascorrendo il resto della seconda Guerra mondiale tra Berlino e Roma, partecipando attivamente alla propaganda dell’Asse all’indirizzo dei mondi arabo e mussulmano e contribuendo tra l’altro a organizzare unità bosniache musulmane della Waffen-SS tedesca.

La caricatura, però, esagera notevolmente il reale ruolo del Muftì, attribuendogli una responsabilità diretta nel genocidio ebraico, e ne esagera soprattutto la rappresentatività o l’impatto sul mondo arabo, mentre molti elementi tangibili dimostrano in modo certo che le sue esortazioni hanno avuto in questo mondo scarse ripercussioni. Tanto è vero che l’esercito britannico ha avuto tra i suoi ranghi molti più arabi della sola Palestina di quanti non ne abbia avuti, provenienti dall’insieme dei paesi arabi, l’esercito tedesco. Sull’altro fronte, troviamo – e non stupisce – una tendenza apologetica, che cerca di trovare giustificazioni per l’atteggiamento del Muftì – cosa che io respingo con veemenza, perché non esistono circostanze attenuanti per la collaborazione in piena cognizione di causa a un’impresa genocida. Il Muftì infatti, nelle sue Memorie, non nasconde che era al corrente del genocidio nazista, perché riferisce che Himmler lo ha informato a Berlino, nell’estate del 1943, che erano già stati sterminati tre milioni di ebrei. Per questo io segnalo che la testimonianza del Muftì si può considerare una buona confutazione indiretta del negazionismo.

 

Lei giustamente affronta questo problema del negazionismo, attualmente presente sul versante arabo.

Pur non rappresentando, tutt’altro, l’insieme dell’opinione pubblica dei paesi arabi e neppure la maggioranza di questa, si nota effettivamente una recrudescenza di espressioni negazioniste sul versante arabo. Più che di uno sbocco antisemita, come è il negazionismo occidentale, le manifestazioni arabe sono, nella maggior parte dei casi, reazioni che potremmo definire epidermiche, cioè superficiali e istintive, alla «strumentalizzazione» – per riprendere l’espressione di Pierre Vidal Naquet – della Shoah fatta dallo Stato di Israele per legittimare se stesso e i propri atti, parando qualunque critica.

Si impone una distinzione tra gli atteggiamenti antiebraici che si possono trovare tra europei e che sono una pura e semplice abiezione, e manifestazioni antiebraiche di palestinesi che subiscono la tremenda oppressione che conosciamo, da parte di uno Stato che pretende di agire in nome del “popolo ebreo”. Nulla ovviamente giustifica qualunque forma di giudeo-fobia, ma i due atteggiamenti non si possono ragionevolmente mettere sullo stesso piano, come non si può mettere sullo stesso piano l’antisemitismo di uno slavo filo-pogrom e il razzismo anti-goyim di un perseguitato ebreo dello Shtetl, o il razzismo anti-Nero di un Bianco dedito al linciaggio e quello anti-Bianco di un oppresso Nero. Troppo spesso, invece, si proiettano i termini della storia europea su una situazione completamente diversa, come è quella dei palestinesi dei Territori. Respingendo ogni genere di visione caricaturale, io cerco di contribuire a una migliore comprensione reciproca, indispensabile per risolvere in modo pacifico ed equo il conflitto arabo-israeliano.

Nella prima parte del suo libro, lei passa in rassegna le varie posizioni politiche nel mondo arabo sulla questione ebraica e il regime nazista. Lei dimostra, allora, come le posizioni apertamente antisemite e favorevoli a una vera e propria collaborazione con i nazisti non fossero all’epoca quelle più numerose.

Come per qualsiasi popolazione presa nel suo complesso, le posizioni politiche sono molto diverse anche nel mondo arabo, checché ne dica la versione caricaturale che parla di un atteggiamento arabo al singolare.

Io ho distinto quattro grandi famiglie ideologiche all’interno del mondo arabo, all’epoca: l’occidentalismo liberale, i marxisti, i nazionalisti (sia di sinistra che di destra) e il panislamismo integralista e reazionario. Fra le prime tre, solo una frangia marginale appartenente al nazionalismo arabo di destra ha avuto affinità con la Germania nazista, mentre una tendenza più ampia del nazionalismo arabo, ad esempio il partito Baath, che arriverà al potere in Siria e in Iraq negli anni Sessanta, non ha avuto alcuna simpatia per i nazisti negli anni Trenta e Quaranta.

Soltanto il panislamismo integralista avrebbe sviluppato reali affinità ideologiche con il nazismo sul terreno dell’antisemitismo a partire dagli anni Venti, in rapporto all’inasprirsi delle tensioni tra ebrei e arabi in Palestina. Rachid Rida, che si può considerare il primo teorico dell’integralismo islamico moderno, elaborerà un discorso violentemente antiebraico riprendendo gli ingredienti dell’antisemitismo occidentale e mescolandoli con altri mutuati dal corpus islamico medievale – in cui si trovano elementi antiebraici, certamente, ma assai meno che nel corpus cristiano medievale. I suoi scritti diventeranno la matrice di un discorso che veicoleranno nel corso dei decenni successivi i Fratelli musulmani o altre correnti integraliste musulmane, la cui eco si ritroverà nella Carta di Hamas del 1988.

 

Che ne è, al «tempo della Nakba», del discorso di Nasser e di quello dell’OLP dopo la fondazione di Israele?

Il nasserismo è stato un’ideologia in costruzione permanente, a partire dall’avvento di Nasser al potere. Se si esplora la mole dei suoi discorsi e delle sue dichiarazioni non si trovano veramente espressioni antisemite. Tuttavia, a due riprese, in interviste ininterrottamente citate, ma che costituiscono più l’eccezione che non la regola, si vedrà Nasser, in un caso, consigliare la lettura dei “Protocolli dei Saggi di Sion” a un giornalista indiano e, nell’altra, avanzare un dubbio sul numero delle vittime del genocidio ebraico in un’intervista di un politico tedesco di destra. Si tratta di due manifestazioni rimaste isolate, e il fatto che in diciotto anni di potere Nasser abbia fatto solo due dichiarazioni di questo tipo sta a indicare come non si tratti di elementi centrali del suo pensiero. Nella sua cerchia c’erano molti intellettuali, buona parte dei quali di provenienza marxista, e sicuramente questi gli hanno sconsigliato con forza di ripetere dichiarazioni del genere.

Quanto all’OLP, anche qui, il ruolo degli intellettuali occidentali liberali o di sinistra vicini al marxismo sarà molto importante per contribuire a fare assumere dall’organizzazione il riconoscimento della Shoah e della questione ebraica europea, senza che questo nulla tolga all’intransigenza sulla questione palestinese. Uno di questi intellettuali è stato, soprattutto, Edward Said, che ha partecipato attivamente all’elaborazione di questa prospettiva, che considera che l’oppressione degli ebrei in Europa e il suo parossismo, il genocidio ebraico, costituiscano una lezione per l’intera umanità contro tutte le oppressioni xenofobe e razziste.

In proposito, va ricordato che Yasser Arafat, per cercare di riparare il torto arrecato alla causa palestinese dalla buona accoglienza riservata a Roger Garaudy in alcuni paesi arabi dopo la condanna in Francia per le sue posizioni negazioniste, aveva richiesto di visitare il Museo dell’olocausto a Washington. Ma la visita non si è potuta realizzare per l’ostilità della direzione del Museo. Alla fine Arafat ha visitato la casa di Anna Frank ad Amsterdam, e questo ha scatenato una polemica in Israele, mentre i media non hanno pubblicizzato molto la cosa in Occidente – come è accaduto anche per la mostra sulla Shoah organizzata dal villaggio palestinese di Niilin in Cisgiordania, epicentro della lotta contro il muro di separazione eretto da Israele. Si tratta, a mio avviso, di esempi rivelatori dell’immagine caricaturale del mondo arabo che si costruisce a furia di deformazioni e omissioni – rinviando in questo modo agli arabi un’immagine deplorevole di sé, con effetti nefasti e che è doveroso combattere.

 

(traduzione di Titti Pierini, 2 marzo 2010)