Husson: Il miracoloso mondo del “reddito universale”

di Michel Husson

su A l’encontre


Che una società garantisca a tutti i suoi membri un reddito evidentemente è un obiettivo legittimo. Questo tuttavia non implica l’adesione a qualsiasi progetto di reddito universale, di base, ecc. Tali progetti si basano, infatti, su un postulato sbagliato, e portano a un vicolo cieco strategico, rinunciando al diritto all’occupazione.

Addio piena occupazione, viva il reddito

L’idea di un reddito incondizionato si incarna in molteplici progetti.[1]. Al di là delle differenze tra loro, tuttavia, tutti si sviluppano all’intersezione di due proposte più o meno esplicite. La prima è nota: gli aumenti di produttività determinano l’irraggiungibilità della piena occupazione. E poiché ogni attività umana è creatrice di valore, occorre ridistribuire la ricchezza prodotta tramite un reddito scollegato dall’occupazione.

Ammettiamo per un attimo, pur trattandosi di una previsione molto discutibile,[2] che gli aumenti di produttività legati alle nuove tecnologie comportino un’ecatombe di posti di lavoro e che uno su due di questi saranno automatizzati entro i due prossimi decenni. I sostenitori della fine del lavoro ci dicono allora: “vedete bene che non vi sarà più occupazione per tutti, quindi occorre un reddito universale per redistribuire la ricchezza prodotta dai robot”.

È questo “quindi” che va assolutamente respinto. È infatti possibile un altro ragionamento: “I robot svolgono parte del nostro lavoro, quindi si può ridurre il nostro orario di lavoro”. Su scala storica, è quanto è avvenuto (non spontaneamente, ma sotto la pressione delle lotte sociali): gli incrementi di produttività sono stati in larga parte redistribuiti in forma di riduzione dell’orario di lavoro.

Piccola economia politica del numerico

In pratica, succede che gli incrementi di produttività connessi alle nuove tecnologie impieghino tempo per manifestarsi. Gli economisti si trovano di nuovo di fronte al “paradosso di Solow”: queste nuove tecnologie si vedono dappertutto, meno che nelle statistiche di produttività. I tentativi di uscire da questa difficoltà consistono nel dire che il volume della produzione si misura male con i tradizionali metodi: sarebbe stato sottovalutato, cosicché gli incrementi di produttività sarebbero alla fine più elevati di quel che non sembri. I correttivi proposti si basano perlopiù sulla dimenticanza della vecchia distinzione tra valore d’uso e valore di scambio che il numerico starebbe confondendo.

Lo sviluppo dell’economia delle piattaforme [digitali] (Uber, ecc.) e dei GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon) ha infatti stimolato alcune innovazioni teoriche spesso impressionistiche ma che si basano sulla maggior parte delle nuove definizioni della produzione o della captazione di valore. La domanda che allora bisogna porsi è se le nuove tecnologie rendano davvero indispensabile un tale “superamento” della teoria del valore.

Qui è necessario un cauto arretramento – a rischio di un certo conservatorismo -: occorre cercare di discernere quel che è effettivamente nuovo, pur prendendo le distanze dall’idea facile secondo cui le innovazioni tecnologiche determinerebbero meccanicamente gli adeguati cambiamenti sociali. L’essere affascinati dai prodigi delle tecniche porta piuttosto rapidamente alla conclusione affrettata che il lavoro salariato sia ormai condannato.

Per sradicare questo dispositivo ideologico, la cosa più semplice è chiedersi quale sia il modello economico delle imprese “numeriche”. In altri termini, come guadagnano soldi? Apple vende smartphone e tablet; il suo modello si contraddistingue per il semi-monopolio basato, da un lato, sul super-sfruttamento di manodopera, dall’altro sulla rendita procuratagli dal crescente inserimento di consumatori nel suo sistema chiuso. In fin dei conti, però, Apple guadagna soldi vendendo merci. Non vi è quindi nulla di nuovo sotto il sole, da questo punto di vista, e ciò consente di sottolineare la molla ideologica consistente nel mescolare due cose: le notevoli prestazioni del prodotto e il fatto che questo resta una classica merce. Lo stesso si potrebbe dire di Amazon, che altro non è che un distributore di merci immagazzinate in immensi capannoni (o presso grandi server per i beni numerici) e manipolati da proletari.

Il modello di Google o di Facebook è diverso: i loro introiti provengono dalla valorizzazione delle informazioni raccolte sul rispettivo parco utenti che vengono rivendute sotto forma di spazi pubblicitari o migliori punti di riferimento. La loro stravagante capitalizzazione borsistica rinvia alla loro capacità di monopolizzare una quota rilevante del mercato pubblicitario. Si tratta quindi più del trasferimento che non della creazione autonoma di valore, come dimostrano le difficoltà di Twitter, che non è mai riuscito a ottenere un guadagno netto, non riuscendo a mordere a sufficienza sul mercato pubblicitario.

La tipologia delle piattaforme [digitali] è ancor più diversificata. Ad esempio, Blablacar e Uber non hanno esattamente la stessa logica. Nel primo caso, la piattaforma mette in contatto due persone che hanno scelto di fare lo stesso percorso e si dividono le spese. Si tratta allora di un trasferimento di reddito tra due persone, che non crea valore in sé. In compenso, la piattaforma percepisce la sua commissione, corrispondente alla vendita di un bene mercantile, in questo caso il servizio di messa in contatto. Uber, e tanti altri, come ad esempio Task Rabbit negli Stati Uniti, funzionano piuttosto come agenzie interinarie, mettendo a disposizione “lavoratori salariati” che eseguiranno un incarico per un cliente che pagherà per questa prestazione.

Le applicazioni di messa in rapporto rendono così possibili transazioni che si sarebbero fatte in altre forme ma a un prezzo più elevato, o non si sarebbero fatte. Si potrebbe parlare di imprese virtuali che mettono direttamente in contatto l’acquirente di un servizio con un “lavoratore”. Da un punto di vista strettamente economico, non c’è niente di davvero nuovo sotto il sole. La piattaforma rende redditizio il proprio investimento e i suoi pochi lavoratori dipendenti percependo la sua commissione: la merce che vende è il servizio di messa in rapporto. Il lavoratore riceve, da parte sua una remunerazione, come farebbe un piccolo artigiano. La grande differenza sta evidentemente nell’aggiramento (potenziale ma non inevitabile) di qualunque legislazione sociale e fiscale. Questo settore della gig economy [modello economico dove non c’è prestazione lavorativa continuativa, ma solo se e quando c’è specifica richiesta] è parente del settore cosiddetto informale o non registrato dei paesi in via di sviluppo e la condizione di chi vi partecipa è spesso più vicina a quella di un lavoratore a giornata dell’Ottocento che non del lavoratore dipendente o anche di quello autonomo.

È particolarmente evidente nel caso del micro-lavoro che consiste, come spiega il sito foulefactory.com, nell’automatizzare i «compiti manuali più gravosi» tramite una remunerazione minima. L’esempio emblematico è il Turco meccanico (Mechanical Turk) di Amazon: questa piattaforma (mturk.com) mette in contatto privati e imprese che propongono micro-compiti. Lo stesso nome di Turco meccanico è rivelatore. Si riferisce a una celebre frode della fine del Settecento: un automa vestito alla turca giocava a scacchi (e perlopiù vinceva). In realtà, era un essere umano a manovrare il manichino. Amazon rivendica con fierezza il riferimento a quello stratagemma, ostentando lo slogan “intelligenza artificiale”: significa ammettere che molti dei lavori che sembra siano stati automatizzati sono di fatto effettuati da manine sparse per il mondo e pagate quattro soldi. Amazon pone così in risalto il vero stratagemma ideologico che consiste nel trasformare il ricorso a questo super-sfruttamento in miracolo della tecnologia.

Addio alla teoria del valore

Un ulteriore passo si compie con le teorie del digital labour. Questo lavoro gratuito effettuato dai consumatori che navigano in Internet sarebbe sfruttato, in quanto produce un’informazione che viene integralmente captata dal sito e che verrà rivenduta: c’è quindi captazione di valore prodotto dai prosumers (“prosumatori”)

Questo schema approda a elaborazioni teoriche a volte strampalate e che si possono anche presentare in una cornice concettuale che evoca la teoria marxista del valore. È il caso di Christian Fuchs, che porta fino in fondo la tradizione operaista italiana: «la fabbrica è il luogo del lavoro salariato, ma anche il salone. Fuori dai luoghi del lavoro salariato, la fabbrica non è solo a casa, ma ovunque».[3]

Per Antonio Casilli, un altro teorico del digital Labour, noi dunque creiamo lavoro senza saperlo, specie attraverso gli oggetti connessi: «il solo fatto di trovarsi in una casa o in un ufficio “intelligenti”, vale a dire attrezzati con oggetti connessi, è già produttore di valore per le imprese che raccolgono le nostre informazioni».[4] Va allora «riconosciuta la natura sociale, collettiva, comune di tutto quel che si produce in termini di contenuto condiviso e di dati interconnessi, e va prevista una remunerazione che possa restituire al comune ciò che ne è stato ricavato. Donde l’idea, che sostengo, del reddito di base incondizionato».

Questa giustificazione del reddito di base poggia su un’estensione indebita dei concetti di valore e di sfruttamento, e alla fine sull’incomprensione dei rapporti sociali capitalistici. Il grosso problema del capitalismo numerico è viceversa la sua incapacità di mercificare i beni e i servizi virtuali che produce.

Altri due adepti del capitalismo cognitivo si spingono anche oltre proponendo un reddito sociale garantito che dovrebbe «essere concepito e instaurato come reddito primario connesso direttamente alla produzione, cioè come contropartita di un’attività creativa di valore e di ricchezza, attualmente non riconosciuta e non remunerata».[5] Il termine reddito “primario” rinvia alla ripartizione “primaria” dei redditi tra salari e profitti. In altri termini, il reddito garantito è pensato come una forma supplementare di reddito che andrebbe aggiunto al salario e al profitto. Ma questo reddito corrispondente a una creazione di valore ex nihilo ci fa entrare in un mondo parallelo illusorio che non è più il capitalismo.

A saldo finale del conto

La prima difficoltà strategica dei progetti di reddito universale è una forma di ingenuità raramente sottolineata, che rinvia del resto al postulato di base, e cioè che la piena occupazione sia ormai irraggiungibile. Eppure è facile dimostrare, quasi aritmeticamente, che il pieno impiego è essenzialmente una questione di distribuzione.[6] Dire che la piena occupazione è fuori portata porta ad ammettere che è impossibile modificare la spartizione del valore aggiunto delle imprese nel senso della creazione di posti di lavoro attraverso la riduzione dell’orario di lavoro.

Eppure i progetti di reddito universale implicano anch’essi una modifica della ripartizione dei redditi necessaria a finanziare il reddito incondizionato a un livello “sufficiente” per un tenore di vita decente. Ma perché il cambiamento della ripartizione – perlomeno così drastico – verrebbe accettato più facilmente dalle classi dominanti che non la riduzione d’orario?

I fautori del reddito universale si trovano poi di fronte a una contraddizione fatale. Se il reddito è sufficiente o “decente”, il suo finanziamento implica un ampio ridimensionamento della protezione sociale, perché non c’è un’autonoma fonte di creazione di valore. Si tratta dunque di un arretramento sociale, che consiste nel ridurre di nuovo a merce quel che è stato socializzato. E se il reddito si fissa a un livello modesto, come tappa intermedia, allora il progetto non si distingue più da quelli neoliberisti e gli prepara il terreno.

Idealizzando il precariato come se dipendesse completamente da un lavoro più autonomo, che consente di liberare iniziative, se ne nascondono le forme più classiche e dominate. Auspicando il superamento del lavoro salariato in direzione di un lavoro sorretto da un reddito di base si prepara il terreno a chi organizza nella pratica il ritorno al pre-salariato. I fautori progressisti di un reddito a 1000 euro mensili rischiano allora di fungere da “utili idioti” per l’instaurazione di un reddito base di 400 euro – tutto compreso – che consentirebbe oltretutto di ridurre vantaggiosamente i costi di funzionamento del Welfare.

Addio al programma transitorio

Il combinarsi di fondamenti teorici errati e indirizzi programmatici incerti porta fatalmente a rinunciare o a girare le spalle agli assi essenziali di un progetto coerente, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro. Al di là di alcune posizioni concilianti («è complementare»), i sostenitori del reddito universale ignorano o discreditano questa leva d’azione. Per Philippe Van Parijs, uno dei grandi promotori dell’assegno universale, «è un’idea del XX secolo, non del XXI» perché «la realtà del XXI secolo» (alla quale bisogna quindi rassegnarsi) è «il moltiplicarsi del lavoro atipico, del lavoro autonomo, del lavoro a part-time, di ogni sorta di contratti».[7]

Proiettandosi in un indistinto futuro, tutti questi progetti saltano a pie’ pari la mobilitazione intorno a misure d’urgenza come l’aumento del minimo salariale e dei minimi sociali (con la loro estensione ai giovani di 18-25 anni). Si rassegnano infatti al precariato, lasciano in realtà campo libero a progetti liberisti di un reddito minimo unico e insufficiente in sostituzione degli attuali minimi sociali.

Lasciando intravedere il miraggio di un salario a vita o di un reddito incondizionato, questi progetti ostacolano una versione più radicale della sicurezza e assistenza sociale professionale che garantisca la continuità reddituale.[8]

Per finire, questi addii alla piena occupazione impediscono di porre la questione dei bisogni sociali e di concepire una logica di Stato «datore di lavoro in ultima istanza». Manca la questione ecologica, a meno che magari forse la frugalità del reddito di base basti ad innescare la frugalità della decrescita salvifica.

In linea generale, il successo di tali progetti si spiega sicuramente con le coordinate di una fase piuttosto inquietante. Avanzati da apprendisti stregoni, essi sembrano costituire altrettante scorciatoie che permettono di aggirare gli ostacoli e ritornare all’offensiva. Si ritrova la stessa ricerca di soluzioni-prodigio in ambiti collegati: le mitiche monete (“libera”, “doppia” o “fondante”) per creare attività, il ritorno alle monete nazionali per uscire dalla crisi dell’euro, l’estrazione a sorte per ristabilire la democrazia, ecc. Queste utopie incantatrici non solo sono sterili; sono anche, purtroppo, altrettanti ostacoli alla costruzione di una strategia alternativa ancorata alla realtà dei rapporti sociali.

(22 dicembre 2016, per A l’encontre. Traduzione di Titti Pierini)

 


[1] M. Husson, “Fin du travail. Le temps des gourous [Fine del lavoro. L’era dei guru]”, in A l’encontre, 23 giugno 2016.

[2] M. Husson, “Le gran bluff de la robotisation” [Il grande bluff della robotizzazione”], in A l’encontre, 10 giugno 2016.

[3] Christian Fuchs, Prolegomena to a digital Labour Theory of Value, triple C, 10 (2), 2012.

[4] Antonio Casilli, Digital Labour: à qui profitent nos clics? [Digital Labour: a chi giovano i nostri clic?], in Le Temps, 12 gennaio 2015.

[5] Carlo Vercellone, Jean-Marie Monnier, Mutation du travail et revenu social garanti comme revenu primaire, in Les possibiles,, n. 11, autunno 2016.

[6] Michel Husson, France. Réduction du temps de travail et chômage: trois scénarios [Francia. Riduzione dell’orario di lavoro e disoccupazione: tre scenari], in A l’encontre, 4 aprile 2016.

[7] Philippe Van Parijs, La réduction du temp de travail est une idée du XXe siècle [La riduzione dell’orario di lavoro è un’idea del XX secolo], L’Obs, 7 luglio 2016.

[8] Laurent Garroust, Michel Husson, Claude Jacquin, Henri Wilno, Supprimer les licenciements Sopprimere i licenziamenti], Syllepse 2006.