La mondializzazione ha consentito di dar vita al capitalismo

di Alain Bihr*

(Intervista a Le Comptoir, pubblicata da A l´encontre, 21-9-2108 – http://alencontre.org/)

Domanda – Perché ha scelto di fare iniziare la prima fase del capitalismo nel 1415 e di farla chiuderla nel 1763?

Risposta – La scelta delle date che delimitano lunghi periodi storici ha sempre qualcosa di arbitrario. La si può spiegare solo come ragione illustrativa di scelte teoriche più profonde. In questo caso, la scelta del 1415 è connessa alla tesi centrale del mio lavoro: l’espansione grazie alla quale l’Europa occidentale comincia ad impossessarsi dei continenti americano, africano ed asiatico avrebbe permesso il completamento dei rapporti capitalistici di produzione che contraddistinguono la prima fase del capitalismo. È infatti nel 1415 che i portoghesi, che saranno i primi a lanciarsi in quest’avventura, si impossessarono di Ceuta: iniziano così quella lenta discesa lungo le coste occidentali dell’Africa che consentirà loro alla fine del XV secolo, dopo avere doppiato il Capo di Buona Speranza, di sfociare nell’Oceano indiano, dove avrebbero rapidamente conquistato un immenso impero commerciale, soppiantando i mercanti-navigatori arabi, indiani e malesi che fino ad allora vi occupavano una posizione preminente. Si può perciò considerare quella data come l’inaugurazione dell’espansione europea d’oltre-mare.

La scelta della data di fine periodo sarebbe stata più delicata Si basa anche questa su una tesi centrale del mio lavoro: il punto culminante del processo di completamento dei rapporti capitalistici di produzione sta nella lotta ingaggiata tra le principali potenze europee per il predominio in Europa occidentale e nel primo mondo capitalistico di cui quest’ultima costituisce il centro. Ora, nel 1763 finisce la Guerra dei Sette Anni, durante la quale la Gran Bretagna ha confermato la propria costante superiorità navale e al cui termine essa infligge una pesante sconfitta alla Francia, facendole perdere la sua colonia del Québec e riducendone pressoché a zero l’impianto commerciale nelle Indie. Successiva al duplice insuccesso di Luigi XIV nella guerra della Lega d’Asburgo (1688-1697) e nella guerra di Successione spagnola (1701-1713), un insuccesso in cui la Gran Bretagna ha svolto in entrambi i casi un ruolo decisivo, la nuova vittoria segna la posizione egemone che essa acquisisce in Europa e che manterrà per quasi un secolo e mezzo, soprattutto di fronte alle guerre napoleoniche.

D. – Sono numerosi i dibattiti relativi alla nascita del capitalismo. Braudel lo fa risalire al Medioevo, in cui vede un inizio di capitalismo commerciale, laddove il suo discepolo Le Goff spiega che non si può parlare di capitalismo per tutto il Medioevo, specie in ragione di alcune restrizioni da parte della Chiesa cattolica e della mancanza di denaro. Quale è la sua posizione al riguardo?

R. – La mia opinione è che né Braudel né Le Goff sappiano di cosa si tratti quando parlano di capitalismo. Non sono i soli, del resto: la stragrande maggioranza di coloro che utilizzano questo termine non ne comprendono realmente il significato, per non aver letto o non aver capito Marx. Per quest’ultimo, il capitalismo è un modo di produzione, cioè una forma di società globale, di totalità sociale, che si sviluppa sulla base di determinati rapporti di produzione, dando origine a forme di società civile e di istituzioni giuridiche, amministrative, politiche, come pure a forme di coscienza (morali, religiose, filosofiche) specifiche in quanto adeguate a detti rapporti di produzione. Di conseguenza, parlare di capitalismo commerciale o finanziario o industriale non ha senso: il capitale si scompone certo in frazioni industriale, commerciale e finanziaria, ma sicuramente non il capitalismo. E chiedersi se si possa o meno parlare di capitalismo in pieno Medioevo europeo feudale è ugualmente un’assurdità.

Quel che è possibile trovarvi è un capitale mercantile (commerciale e usurario) già forte, basato su città e reti di città (esempio tipico ne è la Lega Anseatica), che si valorizza e si accumula controllando il commercio remoto, sul continente europeo e tra l’Europa e l’Oriente (vicino o lontano), ma dominando anche gli scambi vicini (tra città e campagne) e cominciando, in questo quadro, a debordare dal processo di circolazione al processo di produzione nella forma di lavoro in accomandita, sfruttando il lavoro contadino a domicilio (per esempio, filatura e tessitura) o di artigiani che sfuggono ai regolamenti delle corporazioni (per esempio nelle miniere o nella metallurgia rurale). E, su questa base, si assiste al formarsi di una protoborghesia mercantile che intrattiene rapporti complessi con i signori feudali, laici o religiosi, che costituiscono l’ordine dominante, rapporti fatti a seconda delle circostanze di alleanze e compromessi, di rivalità e di conflitti. In una parola, arcipelaghi capitalistici in un oceano feudale.

D. – Lei sostiene che la mondializzazione non è il risultato del capitalismo ma la sua origine. Può chiarire questa posizione?

R. – Per chiarire la metafora che ho appena usato, il problema che si pone è la sovranità: come sono riusciti questi arcipelaghi capitalistici ad impossessarsi dell’oceano feudale scalzando i proprietari terrieri feudali dalla loro posizione predominante, trasformandolo da cima a fondo per farne il proprio dominio e dando vita a un mondo capitalistico, in una parola: a un modo di produzione capitalistico? Vecchia questione del passaggio dal feudalesimo al capitalismo che ha già fatto versare parecchio inchiostro. La mia ipotesi direttrice in questo mio lavoro è che c’è voluta la svolta dell’espansione europea portata avanti da capitalisti mercanti con il sostegno di apparati di Stato perché potesse verificarsi questa transizione. In questo senso io sostengo che la mondializzazione (l’integrazione tendenziale del pianeta e dell’umanità in una stessa rete di rapporti economici e politici) ha permesso di dar vita al capitalismo. Un processo peraltro non completato e che prosegue ai giorni nostri. Insomma, la storia del capitalismo si confonde in un certo senso con quella del processo che gli ha dato origine e che da allora non ha smesso di protrarsi, allargandolo e approfondendolo.

D. – Un paradigma forte ai giorni nostri, soprattutto intorno a global histories, spiega come la mondializzazione non dati da ieri. E, se concordate su questo, siete comunque tenuti a notare la specificità della mondializzazione cosi come si produce in Europa/Occidente. Come e che cosa permette di distinguerla dagli altri periodi e contesti storici che hanno visto la presenza o la crescita di scambi commerciali?

R. – Come sul termine “capitalismo”, regna una grande confusione anche su quello di “mondializzazione”, che gli studi che si richiamano alla global history, peraltro molto diversi tra loro, non hanno permesso di dissipare, al contrario.

I modi di produzione precapitalistici sono riusciti a dare origine a mondi, nel senso di spazi più o meno vasti, che comprendono differenti formazioni sociali (a livelli diversi e in molteplici forme), integrate da scambi mercantili, dalla subordinazione a uno stesso potere politico e da osmosi culturali. In questo senso, l’Impero romano ha costituito un mondo incentrato sul Mediterraneo, così come l’Impero cinese degli Hang e ancor più a partire dai Tang. Tuttavia, nessuno di questi mondi ha avuto una dimensione planetaria, né in atto né in potenza. Allora, quel che si inaugura e si delinea attraverso l’espansione europea commerciale e coloniale insieme che si verifica a partire dal XV secolo è un processo che, tramite l’interconnessione dei continenti europeo, american, africano e asiatico e attraverso la divisione del lavoro che si delinea da allora tra questi, darà origine alla fine a un solo e medesimo mondo di dimensione planetaria incentrato sull’Europa. Si tratta di qualcosa che non si era mai verificata prima nella storia dell’umanità e che segna il superamento di una soglia irreversibile nel corso di questa.

D. – Un concetto chiave del suo lavoro è quello del “farsi mondo del capitalismo”. Che cosa significa?

R. – Utilizzo questa espressione, a prima vista inelegante e pedantesca, per evitare appunto le confusioni legate al termine “mondializzazione”. Esso sta ad indicare il processo storico (quindi plurisecolare) attraverso cui il capitalismo invade e sottomette l’umanità e l’intero pianeta, inglobandoli in un unico mondo e, con lo stesso movimento, si costituisce in quanto tale, cioè come un modo di produzione specifico. Come infatti accenno nell’Introduzione generale all’opera in cui ne ho affrontato l’analisi (La préhistoire du capital [La preistoria del capitale], Ed Page 2, Losanna, 2006, disponibile sul sito Le classiques des sciences sociales dell’UQAC, Università del Québec), il “farsi mondo del capitalismo” non è che una delle dimensioni fondamentali della formazione del modo di produzione capitalistico, essendo l’altra ciò che io chiamo “il farsi capitalista del mondo”: il processo non meno storico tramite il quale i rapporti capitalistici di produzione sottomettono tutti i campi e i livelli dell’attività sociale (tutti rapporti sociali e tutte le pratiche sociali), sconvolgendo (distruggendo, emarginando, integrando e trasformando) ogni retaggio storico precedente, pur facendo al contempo emergere alcune realtà sociali originarie, sconosciute fino ad allora all’umanità. Insomma, i processi attraverso cui i rapporti capitalistici di produzione si appropriano di tutta l’estensione e la profondità dell’esistenza umana per plasmare uno specifico mondo, quello del modo capitalistico di produzione. Al punto che quest’ultimo deriva al tempo stesso dal farsi mondo del capitalismo e dal farsi capitalista del mondo.

D. – Perché aver cercato di spiegare lo sviluppo del capitalismo puntando su criteri “socio-geo-politici” (espansioni coloniali e commerciali, rapporti tra centro semi-periferie e periferie, ecc.) e non, ad esempio, sullo sviluppo della tecnica e della scienza. senza le quali non ci sarebbe mai stato il capitalismo né di certo la colonizzazione? Ad esempio, secondo Edward P. Thompson, la nascita del capitalismo e stata in larga misura permessa dall’invenzione dell’orologeria e dalla razionalizzazione del tempo, che ha permesso e che influenza in larga misura il rapporto di lavoro?

R. – Se la tecnica dispone, come qualsiasi pratica sociale, di una relativa autonomia, credo sia un errore farne un deus ex machina e il motore della storia, come ha fatto a lungo un certo marxismo che su questo sembra continuare a seguire Thompson. Se va concesso un primato a un fattore esplicativo, esso va ai rapporti di produzione nel loro complesso, non alla tecnica, che nel migliore dei casi non ne è che un elemento; sono i rapporti di produzione a spiegare perché e come si sviluppano o meno le tecniche. Lei dice che secondo Thompson è stata la scoperta dell’orologeria ad aver reso possibile la razionalizzazione del tempo e permesso così la formazione dei rapporti di produzione capitalistici. Prima però di domandarsi cosa ha reso possibile razionalizzare il tempo occorre chiedersi cosa l’ha resa necessaria. Perché misurare il tempo e fare di questa misura la dimensione chiave del processo sociale del lavoro? Perché il capitale è un “valore in processo”, come dice anche Marx: un valore (in forma autonomizzata di moneta) che cerca di valorizzarsi (di conservare la propria qualità e di aumentare la propria quantità), facendo produrre e circolare merci; e lo stesso valore altro non è se non la forma feticista assunta dal lavoro sociale nelle condizioni della divisione mercantile che impongono i rapporti capitalistici di produzione, anche se una determinata quantità di valore non si misura mai se non con una determinata quantità di lavoro (astratto), i cui vari fattori sono il numero dei lavoratori, la durata del loro lavoro, la sua intensità, ecc. In altri termini, poiché i rapporti di produzione capitalistici fanno della durata del lavoro uno dei fattori chiave della valorizzazione del capitale diventa imperativo misurare il tempo. Ed è questo imperativo che spiega le ricerche effettuate per costruire apparecchi capaci di misurare quanto più esattamente possibile il tempo: orologi e cronometri.

Se i progresso tecnologico potesse spiegare la nascita del capitalismo, allora questo non sarebbe dovuto apparire in Europa occidentale ma in Cina, e molto prima. La Cina è stata infatti la sede dell’invenzione e della diffusione di strumenti e di processi tecnologici che hanno anticipato di secoli e a volte di due millenni la loro reinvenzione o diffusione in Europa occidentale, come ha posto in risalto l’opera monumentale intrapresa dallo storico britannico Joseph Needham. Ma non è stato così. E questo continua ancora a creare problemi a tutti quelli – e continuano ad essere numerosi – che ragionano nei termini in cui mi ha posto lei la domanda (si veda l’ultimo tentativo in questo senso di Kenneth Pomeranz autore di Une grande divergence. La Chine, l’Europe et la construction de l’économie mondiale [Una grossa divergenza. La Cina, l’Europa e la costruzione dell’economia mondiale], 2010). Dando invece la priorità ai rapporti sociali di produzione si dischiude una prospettiva ben più feconda, come ho tentato di mostrare nel capitolo che dedico alla Cina nel terzo tomo del mio libro.

D. – Che cosa distingue il suo colossale lavoro di ricerca da altri tentativi di analisi dello sviluppo del capitalismo nel mondo, e sul lungo periodo (Wallerstein, Braudel…)?

R. – Io ho cercato innanzitutto di affrontare la materia storica a partire da un certo numero di concetti chiaramente definiti e padroneggiati. A partire da quelli di capitale, rapporti di produzione capitalistici, riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici, rapporti di classe, differenza tra strutture d’ordine e strutture di classe, Stato e blocco al potere, sistema di Stati, ecc. Quel che rimprovero a Wallerstein e ancor più a Braudel è la loro debolezza concettuale; la povertà e fragilità del loro apparato concettuale. Mostro in particolare come né l’uno né l’altro padroneggino non solo il concetto di capitalismo ma neanche quello di capitale; e, soprattutto come non colgano la differenza tra capitale mercantile e capitale industriale, né il salto qualitativo che si verifica nella dinamica capitalista quando si passa da un capitale che si valorizza esclusivamente grazie al gioco dello scambio di merci e denaro a un capitale che si valorizza facendosi carico del processo di produzione, con tutte le sue implicazioni, geografiche, sociali, politiche, culturali, ecc. Perciò, essi sterilizzano spesso da soli alcune loro idee-forza; ad esempio, in Wallerstein, la divisione del mondo capitalistico tra un centro, qualche semiperiferia e periferie, ecc.

D. – Quali resistenze ci sono state durante questi tre secoli di fronte allo sviluppo di quello che lei chiama “protocapitalismo”?

R. – Mi è difficile rispondere brevemente a questa domanda. Nella misura in cui questa prima fase del capitalismo (che spesso io indico in effetti con il termine “protocapitalismo”) segna l’ultima fase di transizione dal feudalesimo al capitalismo in Europa occidentale, si può dire che si costituiscano fattori di resistenza a tutto ciò che riguarda il feudalesimo. I fattori di resistenza sono quindi innumerevoli: è in gioco tutto lo spessore delle strutture feudali e occorrerà rovesciarle perché possa venire il capitalismo. Quanto ai fattori soggettivi, sono rappresentati dai gruppi sociali che hanno tutto da perdere in questo sconvolgimento. Se ne trovano fra “quelli che stanno in alto”: si tratta di quella parte della nobiltà che non può o non vuole trasformare le sue forme di sfruttamento e di dominio sui contadini per adeguarle allo sviluppo dell’economia mercantile e monetaria dominata dal capitale commerciale. Ma se ne trovano anche e soprattutto fra “quelli che stanno in basso”, nel grosso dei contadini minacciati d’esproprio delle loro terre per raggiungere i ranghi del protoproletariato in formazione.

Ma la situazione nelle formazioni centrali (Europa dell’ovest) è in effetti più complessa, Tra coloro che sono infatti interessati al completamento dei rapporti capitalistici di produzione e quanti ne rappresentano la punta di lancia non è raro che si trovi chi, al contempo e contraddittoriamente, temono di fare le spese del processo, cercano di frenarlo o indirizzarlo in svolte e percorsi trasversali. Lo si vede chiaramente in occasione degli episodi di rivoluzione borghese che si verificano in quel periodo (negli ex Paesi Bassi in rivolta contro la corona spagnola, nell’Inghilterra degli Stuart, al momento della Fronda in Francia) in cui una parte della borghesia mercantile finisce per prendere posizioni controrivoluzionarie perché i suoi interessi (commerciali, finanziari, istituzionali, ecc.) immediati finiscono per renderla solidale con lo Stato monarchico che si deve abbattere.

Quanto a quel che succede nelle periferie coloniali e commerciali dell’Europa occidentale, le resistenze principali proverranno dalle popolazioni indigene che ne sono indistintamente le vittime designate, e dai poteri politici preesistenti. che non intendono lasciarsi distruggere o strumentalizzare dagli europei.

D. – Quale ruolo ha svolto secondo lei lo Stato moderno in questi prodromi di capitalismo?

Come tutte le fasi protocapitaliste, lo Stato moderno che vi viene alla luce è una sorta di Giano. A mo’ della divinità romana, ha due facce: una rivolta al passato feudale che contribuisce a conservare, l’altra che guarda al futuro capitalistico di cui favorisce l’avvento. In realtà, l’importanza relativa delle due facce dipenderà dai rapporti di forza tra la nobiltà (più precisamente, il suo stato superiore, l’aristocrazia nobiliare) e la borghesia (più precisamente, la grande borghesia mercantile, di cui rappresenta l’istituzionalizzazione). Là dove la prima è largamente predominante, lo Stato (all’epoca, feudale-monarchico) è completamente al servizio dei suoi interessi fondiari e dei suoi privilegi giuridici e fiscali tradizionali, imbrigliando lo sviluppo della borghesia nazionale, fino al punto di sterilizzare ogni potenziale fattore di completamento dei rapporti capitalistici di produzione che vi possano nascere: tipico esempio ne è la Spagna asburgica dei secoli XVI e XVII, che non si è così trovata in grado di trarre beneficio delle immense ricchezze che estraeva dalle proprie colonie americane e filippine per promuovere uno sviluppo protocapitalista autocentrato. Là dove, viceversa, è la borghesia mercantile ad avere la meglio, in genere dopo una più o meno rilevante rottura rivoluzionaria con l’antico ordine feudale, si ha a che fare con uno Stato che, con le sue politiche fiscali, commerciali, diplomatiche e militari, si mette completamente al suo servizio: ne è il principale esempio quello delle Province Unite, sorte dalla rivolta degli ex Paesi Bassi contro la Spagna asburgica, il cui sistema repubblicano dominerà il XVII secolo europeo. Tra questi due poli estremi si colloca tutta una gamma di posizioni occupate da Stati monarchici tendenti all’assolutismo, proprio perché in preda ai conflitti e ai compromessi sia con l’aristocrazia nobiliare sia con la borghesia mercantile. Ne sono buoni esempi l’Inghilterra dei Tudor e poi degli Stuart così come la Francia degli ultimi Valois e poi dei Borboni, con gli sviluppi dei rapporti di forza tra questi due gruppi che ne spiega in definitiva sia la rispettiva storia politica sia la piega assunta dalla lotta ingaggiata tra loro a partire dalla fine del XVII secolo per il predomini in Europa. (20 settembre 2018)

Di alain Bihr sul sito si veda:

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Marx e la prima mondializzazione del capitale (Parte I) e MARX E LA PRIMA MONDIALIZZAZIONE DEL CAPITALE (II Parte)

(Traduzione di Titti Pierini).


* A. Bihr – Sociologo, autore di un’opera importante che riguarda sia la storia del movimento operaio sia quella dell’estrema destra. Richiamandosi al comunismo libertario, i suoi ultimi lavori affrontano la questione del capitalismo da un’angolazione storico-sociale con accentuata ispirazione marxiana. Lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del primo tomo della sua colossale storia della nascita del capitalismo, dal titolo Le premier âge du capitalisme (1415-1763) [La prima fase del capitalismo (1415-1763)], t. I: L’expansion européenne [L’espansione europea], coedizioni Syllepse e Page 2.