La Russia, dal Donbass alla Cina


 

a cura di Andrea Ferrario

 

 

La Russia, la cui economia continua a perdere colpi, appare in difficoltà su diversi fronti. Da una parte non è in grado di assumersi l’onere dei costi necessari per tenere in vita il regime separatista nel Donbass, dall’altra è costretta a fare dumping nei rapporti energetici con la Cina e si prepara al varo di un’Unione Eurasiatica piena di falle. Sullo sfondo di tutto questo ci sono l’incognita delle sanzioni e la proposta di una “pax imperialista” fatta da Putin all’Occidente con la sua nuova dottrina.

La Russia continua a rimanere il paese da cui più dipende l’evoluzione del conflitto in Ucraina. Dopo avere messo in atto con pieno successo l’annessione-lampo della Crimea a marzo, Mosca è riuscita ad avviare e gestire poi in modo molto abile una politica di destabilizzazione del Donbass mirata a porre un’ipoteca sul futuro dell’intera Ucraina. In questa seconda fase le cose non sono state così semplici come con la Crimea, per esempio non sempre è stata facile la gestione dei gruppi variegati di separatisti e quella del contrasto alle operazioni militari di Kiev tra fine giugno e fine agosto, ma nel complesso la Russia è riuscita ad avere la meglio nel conflitto (per ora) e a limitare i danni di riflesso per la propria economia e la propria posizione internazionale. Nonostante questo, la sua posizione appare nel complesso alquanto fragile. Qui di seguito cerchiamo di fare un punto della situazione riguardo alla posizione in cui si trova Mosca, concentrando in particolare l’attenzione su alcuni aspetti meno trattati dai grandi media.

 

L’incognita del Donbass
Innanzitutto, dopo la firma degli accordi di tregua a inizio settembre, e ancora oggi dopo le elezioni in Ucraina e nelle “repubbliche popolari”, Mosca sembra avere scelto nel complesso una linea improntata alla prudenza. Le elezioni-farsa nelle “repubbliche” sono servite a dare in qualche modo legittimità alla nuova dirigenza scelta dal Cremlino, il cui uomo-simbolo è un boss locale come Aleksandr Zakharchenko. Va notato tuttavia che la Russia ha sì riconosciuto tali elezioni, ma ha scelto parole particolarmente prudenti, per esempio quando ha affermato di rispettare la volontà espressa dagli abitanti “delle regioni di Donetsk e Lugansk” – il fatto che le autorità russe non abbiano utilizzato il termine “repubbliche” significa che, soprattutto alla luce delle future trattative con l’Occidente, non hanno ancora fatto il salto di qualità di un riconoscimento delle due entità come formazioni statali indipendenti. Rimane comunque poco chiaro cosa preveda il Cremlino per il futuro della RPD e della RPL, sempre che abbia piani precisi che vadano al di là del mantenimento di uno status quo indefinito ancora per lungo tempo. Appare significativo che Mosca, pur avendo fatto giungere nelle aree occupate dai separatisti un’altra carovana di aiuti umanitari, non si stia impegnando affatto, nemmeno solo a parole, per la ricostruzione o per il sostegno all’economia delle due entità. Queste ultime si trovano in una situazione disastrosa e non riescono nemmeno a pagare gli stipendi o semplicemente a garantire il riscaldamento per la stagione fredda. Senza aiuti sostanziosi dalla Russia (visto che logicamente non ci si può aspettare ora che arrivino da Kiev) le due repubbliche rischiano di perdere anche quella fetta di sostegno passivo di cui sembrano provvisoriamente godere tra chi è rimasto nella regione e quindi di trovarsi presto di fronte al rischio di non essere più in grado di esistere. Appare poco logico che dopo questi mesi di attivo intervento, anche a livello militare, il Cremlino sia disposto a lasciare al loro destino le “repubbliche” rischiando che crollino, magari anche sotto la spinta di mobilitazioni popolari. D’altronde Mosca non è però in grado di sostenere da sola l’onere di una ricostruzione in grande stile, se non per un periodo molto breve, vista la situazione sempre più grave della sua economia. Il particolare più inquietante è che invece la Russia, sul teatro ucraino, ha ottime carte da giocare sul campo militare e dell’impiego di forze destabilizzanti. Quindi vi è da temere che tenga ancora questa carta di riserva come principale atout da giocare. La sua attuale posizione prudente però potrebbe essere anche il segno di forti divisioni interne al Cremlino tra l’ala dura orientata a uno scontro con l’Occidente e quella moderata aperta a compromessi. I segnali di faide interne che vanno in questo senso si ripropongono a intervalli sempre più ravvicinati, l’ultimo è stato quello delle lotte intestine in atto nel Ministero degli interni.

Voglia di compromesso
In questo contesto appaiono significative le dichiarazioni recentemente formulate da Putin in occasione del forum Valday. Dietro alcune parole dure (per esempio quelle che ricordavano minacciosamente l’arsenale nucleare di cui dispone la Russia) il suo discorso è stato nella sua essenza improntato all’offerta all’Occidente, e in particolare all’Ue e agli imprenditori europei, di giungere a un compromesso che garantisca le relative sfere di influenza imperialiste, decidendo anche gli ambiti dove invece Russia e Occidente possono agire insieme per soffocare quelle che ritengono comuni minacce (un’evidente allusione al Medio Oriente). L’accordo sul gas firmato a fine ottobre è un primo passo che va in tale senso e Mosca è riuscita a ottenere un successo, visto che alla fine sono state accettate le condizioni che aveva proposto fin dall’inizio dei negoziati tre mesi fa e che sia l’Occidente che Kiev avevano allora definito inaccettabili. Un altro segno di compromesso è la recente dichiarazione del segretario generale della Nato, Stoltenberg, secondo cui un’adesione dell’Ucraina alla Nato non è in alcun modo all’ordine del giorno. Sullo scenario mediorientale, oltre all’avallo di fatto di Mosca riguardo ai bombardamenti americani contro l’IS, c’è anche l’importante ruolo che la Russia sta svolgendo, a fianco di Ue e Usa, nelle trattative per la cessazione dell’embargo contro l’Iran, che secondo le ultime notizie potrebbe non essere così lontana.

Le sanzioni, il loro futuro e i loro effetti
Sullo sfondo di tutto questo c’è l’aspetto fondamentale delle sanzioni economiche approvate dall’Ue a settembre. In un recente interessante articolo il quotidiano russo “Kommersant” mette in luce alcuni particolari fondamentali ignorati dai grandi media. Le sanzioni sono state infatti approvate con una data di scadenza, e cioè il 15 marzo prossimo. Vista le difficoltà che l’Ue ha dovuto superare per approvarle, essendovi al suo interno una profonda frattura a tale proposito, “Kommersant” ritiene improbabile che prima del 15 marzo i paesi dell’Unione riescano a trovare l’unanimità per diminuirne la portata o addirittura annullarle prima della scadenza. Per lo stesso motivo sarà però pressoché impossibile, a meno che non si verifichino nel frattempo sviluppi di grande portata, giungere a un accordo per la loro proroga dopo la scadenza di metà marzo. Il Cremlino può quindi puntare con una discreta dose di sicurezza, se lo vuole, su una cessazione delle sanzioni all’inizio della prossima primavera. Una volta cadute, per l’Ue sarebbe di nuovo un compito di Sisifo riapprovarne di nuove. Lo scadere delle misure a metà marzo coincide, vale la pena di sottolinearlo, con la fine dell’inverno e l’inizio di una stagione in cui è molto meno problematico condurre operazioni militari sul terreno.

Alcuni dati pubblicati di recente dicono comunque che l’effetto di ritorno delle sanzioni sull’economia europea è senz’altro sostenibile. Da questo punto di vista, le affermazioni di molta stampa secondo cui le sanzioni sarebbero uno dei motivi principali dell’arretramento dell’economia tedesca appaiono prive di sostanza. Ad agosto le esportazioni della Germania verso la Russia hanno registrato, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, un calo del 26%, pari a circa 800 milioni di euro. Questa percentuale molto alta appare tuttavia di gran lunga meno significativa se si tiene conto di due altri dati fondamentali. In primo luogo la Russia è la destinazione di solo il 3% delle esportazioni complessive della Germania, quindi anche un calo così netto non ha effetti dirompenti per Berlino. In secondo luogo tale calo è da attribuirsi quasi esclusivamente alla brusca frenata dell’economia russa a partire dall’autunno-inverno scorso indipendentemente dalle sanzioni che, lo ricordiamo, sono state approvate ad agosto e sono di natura tale da avere effetti rilevanti solo sul lungo periodo. Lo dimostra tra l’altro il fatto che nel primo trimestre 2014, cioè prima di qualsiasi sanzione, l’export tedesco verso la Russia abbia registrato un analogo calo anno su anno, pari a circa 800 milioni al mese. Se nelle condizioni recessive in atto quindi gli effetti di ritorno delle sanzioni sono senz’altro un elemento “spiacevole” per l’Ue, le stesse non costituiscono certo un problema di entità rilevante. Per un’economia di gran lunga più debole come quella russa non si può certo dire lo stesso, ma va ricordato ancora una volta che si tratta di sanzioni con effetti a lungo termine, alle quali Mosca è in grado di fare fronte senza grandi problemi ancora per mesi. Dietro a tutto questo ci sono le continue pressioni esercitate sia da alcuni paesi, in prima linea l’Italia, sia dalle aziende europee per giungere a una cessazione delle sanzioni. E’ con tale obiettivo che si è tenuto in questi giorni un incontro a porte chiuse, definito poi dalle parti come “soddisfacente”, tra vertici statali russi e grandi imprese tedesche.

 

La svendita alla Cina
Nel frattempo la Russia sta cercando di intensificare i rapporti economici con la Cina nell’ambito di una politica di diversificazione delle relazioni internazionali, che tuttavia è nella sua essenza molto fragile. La debolezza di Mosca nei rapporti con Pechino deriva principalmente dallo stato pietoso della sua economia, uno dei cui segni è il recente crollo del rublo, giunto a perdere il 30% del suo valore rispetto a inizio anno. A causa di questa debolezza il Cremlino tratta con la Cina da una posizione forzatamente debole, nonostante cerchi con tutti i mezzi di fare apparire ogni nuovo sviluppo nei rapporti con Pechino come una dimostrazione di forza e di prestigio. La Cina sta al gioco perché riesce a ottenere determinati vantaggi nel trattare con un partner debole, ma per Pechino i rapporti con potenze economiche del calibro degli Usa e dell’Ue rimangono comunque di gran lunga prioritari. Un esempio della debolezza della posizione russa è il mega-accordo sulle forniture di gas firmato a maggio dopo dieci anni di trattative che, se verrà messo in atto, comporterà per Mosca la svendita di una grande quantità di gas a un prezzo estremamente basso, inferiore ai già bassi prezzi praticati alla Germania e probabilmente sottocosto. Svetlana Samoylova ha scritto per il sito Politcom un interessante articolo su tale questione. L’accordo firmato nella primavera scorsa tra la russa Gazprom e la cinese CNPC prevede la fornitura di 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno da parte della Russia alla Cina. Le forniture verranno effettuate lungo la “rotta est” che parte dai giacimenti nella Siberia orientale, attraverso il gasdotto “Forza della Siberia” che deve ancora essere costruito. Come spiega Samoylova, tuttavia, per la Russia è di maggiore importanza strategica la “rotta ovest” proveniente dalla Siberia occidentale, perché consentirebbe di trasportare gas da giacimenti già in corso di sfruttamento (gli stessi attingendo ai quali ora viene rifornita l’Europa), mentre nella Siberia Orientale Mosca deve assumersi in più il costo dell’avvio dello sfruttamento dei giacimenti. Ma le trattative tra Mosca e Pechino per la “rotta ovest”, che secondo la parte russa avrebbero dovuto andare a buon fine proprio in questi mesi, sono state rimandate dalla parte cinese a data da destinarsi. Il contratto firmato a maggio prevedeva che la Cina finanziasse la costruzione del gasdotto “Forza della Siberia” con 25 miliardi di dollari su un costo totale di 55 miliardi. Recentemente però la parte cinese ha deciso unilateralmente di annullare l’impegno di finanziare la costruzione del gasdotto, che sarà ora interamente a carico della Gazprom. Quest’ultima, come spiega il quotidiano “Kommersant”, è in grado in qualche modo di assumersi l’onere, ma così facendo indebolirà notevolmente la propria solidità finanziaria (il suo indebitamento è già di 50 miliardi di dollari), con il rischio di vedersi costretta a diminuire il proprio impegno su altri fronti, come per esempio il gasdotto “South Stream” o lo sviluppo delle attività nel settore del gas liquido. Come scrive “Kommersant”, “la dipendenza della Gazprom e della Rosneft dalle relazioni con la Cina è in costante aumento, tanto che Pechino è in grado di imporre [alla Russia] condizioni sempre più svantaggiose”.

La fragilità dell’Unione Eurasiatica
Anche il varo dell’Unione Eurasiatica con Kazakistan e Bielorussia (alla quale si aggiungerà l’Armenia) a partire dal prossimo 1° gennaio è segnato da molte incognite e rischi. Li riassume con efficacia Aleksandr Gushchin nel suo articolo pubblicato il 21 ottobre dal sito “Politcom”, di cui riportiamo alcuni brani:

“[…] L’Unione ha in linea di principio un carattere sia geopolitico che economico, ma per i partner della Russia si tratta di un’unione di natura principalmente economica, in particolare per quanto riguarda l’ideologo dell’integrazione eurasiatica, cioè Nursultan Nazarbayev, presidente del Kazakistan. Non a caso il Kazakistan ha speso con decisione molte energie per privare l’Unione di ogni elemento che possa essere di natura politica, spingendola verso un modello di integrazione esclusivamente economica e facendo a tale fine alcune concessioni alla Russia per quanto riguarda l’adesione dell’Armenia all’Unione Economica EurAsiatica (UEEA). Per la Russia, che si trova nelle condizioni di un confronto con l’Occidente e delle relative sanzioni […], di un calo dei prezzi del petrolio e di una frenata della crescita economica nazionale, l’UEEA costituisce più che altro un progetto di natura geopolitica. Mosca cerca di utilizzarla come uno strumento per ripristinare la propria influenza sullo spazio post-sovietico e diventare nuovamente il principale centro di attrazione per gli stati confinanti. E’ la struttura stessa dell’UEEA che assegna un tale ruolo alla Russia, rappresentando quest’ultima da sola quasi il 90% dell’economia dell’Unione. Di conseguenza, se si vuole essere rigorosi, l’Unione per motivi obiettivi non può essere un’unione tra uguali e in questo contesto il piegarsi alle richieste del Kazakistan e le concessioni fatte alla Bielorussia sono stati per Mosca di carattere chiaramente politico. Sono cioè le mosse di un grande paese che per motivi obiettivi è di fatto un donatore, ma che per motivi politici fa concessioni ritenendo che pagando un piccolo prezzo oggi otterrà una vittoria strategica nel futuro. L’elemento che comporta il maggiore rischio è la stessa natura dei regimi politici dei paesi dell’UEEA, che sono tutti in diversa misura autocratici, la Russia in misura minore e il Kazakistan e la Bielorussia in misura maggiore […]. La questione del futuro passaggio di poteri [dopo l’uscita di scena degli odierni autocrati], a tutt’oggi ancora irrisolta, costituisce una potenziale minaccia per l’UEEA. Allo stesso tempo va rilevata anche la crescita degli umori nazionalistici nel Kazakistan, da una parte, e dall’altra il sempre maggiore accento posto da Mosca sull’idea del “Mondo russo”. […] Le odierne ambizioni della Russia puntano a fare dell’Unione un polo geopolitico, ma per dimensioni economiche l’UEEA rappresenta meno del 3% dell’economia mondiale, mentre Kazakistan e Bielorussia aumentano il potenziale economico della Russia solo del 12%. Un’unione la cui economia è cinque volte inferiore a quella dell’UE e 4 volte inferiore a quella della Cina difficilmente può pensare di dare vita a un centro di potere paritario. L’idea dell’adesione all’UEEA da parte di paesi come la Turchia, l’Iran o il Vietnam non sembra realistica nemmeno in una prospettiva a lungo termine, e d’altra parte indebolirebbe di molto la posizione di leadership della Russia. […] Va rilevato poi che nella stessa UEEA non sono ancora state messe a punto le forme definitive dell’Unione Doganale. Un’unione doganale presuppone sempre una politica doganale unica nei rapporti con i paesi terzi che non ne sono membri. Le posizioni del Kazakistan e della Bielorussia riguardo all’Ucraina dimostrano con chiarezza che non si può parlare di una politica comune né su questo piano, né in via generale. Inoltre, non va dato per scontato che a partire dal prossimo 1° gennaio tutti i problemi tra i membri dell’Unione verranno appianati. La natura problematica dei rapporti tra Mosca e Minsk, per esempio, ha profonde radici storiche e l’entrata in vigore dell’Unione non la cambierà certo. […]

10 NOVEMBRE 2014