Le ragioni del riflusso dei governi “progressisti” in America latina

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di Modesto Emilio Guerrero*

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Questo testo di bilancio dei governi progressisti latinoamericani per i quali alcuni autori parlano di “fine di un ciclo”, non parte dall’idea che l’esperienza politica latinoamericana sarebbe la scelta migliore per regolare e risolvere i problemi e i disastri sociali del capitalismo. È un bilancio di quello che essi sono, non di quel che vorremmo che fossero, ricavato a partire dalle loro politiche pubbliche, dalle condizioni internazionali imposte dal sistema imperialista e dai comportamenti dei rispettivi governanti e dirigenti.

Noi non li giudichiamo secondo criteri che non corrispondono né ai loro obiettivi né alle loro caratteristiche. Questo bilancio si basa su ciò che hanno fatto, o non fatto, a partire dai loro stessi programmi, nell’arco della loro durata (12 anni per l’Argentina) e nell’attuale fase di riflusso, di parziali insuccessi come in Venezuela e in Bolivia, o di possibile sconfitta sociale e morale che aspetta al varco il governo lulista di Dilma Rousseff in Brasile e quello di Rafael Correa in Ecuador.

Insuccesso, fine del ciclo, battaglia persa?

Non si tratta di dire che siamo di fronte al generale fallimento o alla fine di un ciclo, come sostengono quanti sono legati a una visione meccanicista. La realtà è più complessa e più dinamica. Non si tratta neanche di affermare che il ciclo dei governi progressisti sia finito o, viceversa, che i tre insuccessi [Argentina, Venezuela, Bolivia] siano solo “piccole cadute, “passi falsi”, o una semplice battaglia persa, come hanno dichiarato i presidenti del Venezuela e della Bolivia.

Per attenersi ai fatti, Evo Morales e Nicolas Maduro hanno ragione di limitare i loro insuccessi a una semplice battaglia persa. La stessa logica aveva condotto a un’analoga valutazione in Argentina dopo la sconfitta alle elezioni politiche del governo di Cristina, nell’ottobre 2013. Nei tre casi non si è voluto vedere quegli insuccessi come il segnale di qualcosa di più profondo, di una dinamica sociale che, in politica, è più decisiva delle statistiche, o della somma o sottrazione di momenti “buoni” o “cattivi”.

È vero che finora la maggior parte dei governi progressisti sono ancora in piedi, a parte il caso dell’Argentina, dove l’insuccesso è ormai consumato al livello del potere politico nazionale. È vero anche che le destre che hanno vinto, per ora in tre paesi, hanno ottenuto solo un margine elettorale ristretto: 700.000 voti in Argentina (su 30 milioni di votanti), 300.000 in Venezuela (su 19 milioni) e uno scarto inferiore al 3% in Bolivia.

Alcuni intellettuali della destra internazionale mettono in guardia da qualsiasi trionfalismo di fronte a progressi così modesti. Carlos Malamud, una delle punte di lancia accademiche della destra anti-progressista, ammette che, certo, nei tre casi si sono registrati insuccessi, ma questo non significa la fine del populismo in America latina e meno ancora del populismo bolivariano. E, volendo partire da un dato dell’evidenza, soltanto in Argentina si è avuto un cambio di governo. Le elezioni in Venezuela erano elezioni legislative e il referendum boliviano riguardava una riforma della Costituzione.[1]

Volendo fare un’analisi scientifica del riflusso, occorre tener conto dell’insieme dei fattori nella loro dinamica, non come sommatoria statistica di casi e di fatti; e, partendo da questo, individuare il fattore o l’elemento che sintetizzi il tutto e quali siano le combinazioni che consentiranno al progressismo di reggere, di ricostruirsi dopo sconfitte “tattiche” o che, viceversa, lo faranno arretrare fino alla completa sconfitta.

Su questo punto è determinante che cosa fanno o non fanno i governi e i movimenti, là dove i movimenti sociali continuano ad essere attivi e non sono stati sclerotizzati dal clientelismo statale. Non le promesse che fanno dopo l’insuccesso, ma la loro capacità di capire che per salvare il processo dalla sconfitta finale è indispensabile portarlo a termine, assolvendo bene gli impegni economici, sociali e politico-culturali lasciati cadere nel percorso o deformati dalla concentrazione burocratica del potere e dalla corruzione clientelare.

Cambiare modello, ma quale modello?

«Approfondire il modello» hanno dichiarato il governo di Cristina Kirchner e alcuni dei suoi dirigenti dopo il loro clamoroso insuccesso nelle elezioni legislative del 2010. «La rivoluzione bolivariana si rafforza nei suoi insuccessi, andiamo verso più rivoluzione» ha proclamato Maduro subito dopo aver saputo di avere vinto per soli 3 punti percentuali. Evo Morales ha promesso più o meno la stessa cosa quando è uscito malconcio dal referendum, il 25 febbraio scorso. Nei primi due casi, il bilancio che hanno ricavato (approfondire e rafforzare) non è andato oltre la semplice proclamazione, e questo è sfociato soltanto, qualche anno dopo, in nuovi insuccessi. In Bolivia, si dovrà aspettare che cosa farà Evo Morales (e il MAS) per verificare se assume gli stessi comportamenti di quelli di Buenos Aires e di Caracas, oppure se ne discosta e conduce in porto il processo di cambiamento e di potere popolare avviato nel 2005 e abbandonato subito dopo, fagocitato dal potere come finalità del cambiamento.

I governanti progressisti si erano galvanizzati per le tante vittorie elettorali in così poco tempo – cosa del tutto inedita nella storia elettorale dell’emisfero Sud del continente – grazie all’andamento favorevole dei prezzi delle materie prime e all’elevato avanzo primario raggiunto sotto i loro governi, e questa idealizzazione a partire dal miraggio di dati congiunturali li ha portati a una serie di errori politici, sulla base di una concezione erronea della politica, del potere, della società e del mondo. Hanno creduto di poter ingannare il sistema mondiale di potere costruito in 300 anni dal capitale e, peggio ancora, hanno pensato di poter schivare la logica di classe della società capitalista e le sue molteplici forme di lotta. Hanno imboccato la strada più facile e sono arrivati a uno sbocco ben più arduo, a insuccessi che si sarebbero potuti evitare. Hanno creduto di potersi liberare dalla ferrea logica del capitale con qualche cambiamento, più o meno grande ma non emancipatore, introdotto nella vita sociale dei più oppressi o di settori di ceto medio, dimenticando che il sistema capitalistico è radicato ed opera come sistema sugli oppressi, gli sfruttati e le nazioni. Guidati da tali concezioni erronee, hanno scelto il soggetto storico sbagliato nelle indispensabili alleanze sul piano economico e dell’amministrazione di governo, dimenticando che «le scappatoie concilianti non hanno sbocchi», come fa notare István Mészáros per analoghe situazioni in altre parti del mondo.

Se un cambiamento sociale come quello avviato dai governi progressisti a partire dal 1999 non consolida le prime trasformazioni tramite una rottura con i meccanismi del capitale nei gangli vitali dell’economia, nel sistema di potere e nell’animo dei lavoratori e del ceto medio, questi governi non potranno fare granché, di fronte a un sistema che non gioca come il gatto col topo se si è a capo di una nazione. Se restasse qualche dubbio su questo aspetto fondamentale della politica, basti vedere quel che fa il governo di Mauricio Macri in Argentina, o i tentativi della nuova maggioranza parlamentare in Venezuela.

Alcune condizioni favorevoli

Emergono due ordini di cause, esogene le une, endogene le altre. Il loro combinarsi è stato fatale per il processo regionale di autonomizzazione avviato da vari paesi di fronte al predominio imperialista.

Mai, nei 200 anni di storia repubblicana del nostro continente, si sono saldati tanti elementi favorevoli all’emancipazione nazionale e sociale. Mentre gli Stati Uniti erano ancora impegolati nel loro strutturale deficit energetico, con i soprassalti della crisi finanziaria mondiale del 2008 e il progresso della Cina a livello del potere mondiale, vale a dire negli anni 2010, esistevano in America latina 9 governi progressisti, compresa Cuba.

Per 50 anni Cuba è riuscita a mantenere rapporti temporanei e limitati con diversi governi nazionalisti e progressisti, ad esempio con: la Repubblica dominicana (1964-1965); il Perù (1979-1984); il Panama (1969-1975); il Cile (1970-1973); con l’effimero governo di Cámpora, che ha resistito 3 mesi nel 1973 in Argentina; con quello di Carlos Andrés Pérez (1973-1976), finché un bomba attivata dal terrorista cubano anticomunista Posada Carriles – che si era servito di strutture della polizia venezuelana – uccise più di 80 sportivi in un aereo in volo. Ha stabilito rapporti stretti con il governo sandinista per quasi 10 anni, fino alla sua sconfitta nel 1990, e con il governo anti-yankee di Grenada finché nel 1983 un intervento statunitense non l’ha allontanata da quest’isola del Caribe orientale. Il governo di Cuba ha sempre mantenuto rapporti equilibrati con governi di destra, ad esempio quelli del Messico, del Venezuela (Carlos Andrés Pérez, 1975), della Colombia (Belisario Betancur, 1982), largamente favoriti dalla mediazione dello scrittore Gabriel García Márquez, influente amico di Fidel.

Tuttavia, lo Stato cubano non è mai riuscito a stabilizzare rapporti con più di uno o due Stati per volta, per oltre 3 anni; ad eccezione del Nicaragua (tra il 1979 e il 1990), la cui economia e il cui Stato erano altrettanto indeboliti quanto Cuba, in un contesto di sferzante sconfitta della lotta armata in America centrale. La ragione è che nessuno di questi governi “progressisti” riusciva a durare e che i loro rapporti con Cuba erano condizionati dalla Guerra Fredda. A partire dal 1999, i rapporti tra Cuba e il Venezuela bolivariano hanno aperto una nuova fase per l’isola. Per quasi 20 anni, i governi dei fratelli Castro hanno ritrovato uno spazio in seno alla mutata geopolitica regionale, prima inimmaginabile. Basti ricordare che, per 2 anni (2013-2014) Cuba ha presieduto la Comunità degli Stati Latinoamericani e del Caribe (CELAC) e ha svolto un ruolo di primo piano in un altro organismo sovranazionale, l’Alleanza bolivariana delle Americhe (ALBA) e in seno al canale televisivo continentale Telesur, in cui centinai di suoi giornalisti sono diventati figure di spicco del giornalismo latinoamericano, una cosa altrettanto impensabile nello stato di criminale isolamento in cui si trovava l’isola nei 50 anni precedenti.

A rendere possibile questo è stato il nuovo arco geopolitico dei 9 paesi governati da persone che si richiamavano alla sinistra. Pur appartenendo a sinistre diverse, hanno fraternizzato con Cuba.

Governi progressisti sono apparsi in maniera ricorrente nella nostra storia, perlomeno a partire dalla rivoluzione messicana del 1910. Ma non ve ne erano mai stati tanti nel medesimo spazio/tempo storico. Nell’ordine cronologico di comparsa, il Venezuela, il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay, l’Ecuador, la Bolivia, il Paraguay, l’Honduras, il Nicaragua e il Salvador. Più Cuba, isolata dal 1959, che si è unita a questo schieramento di nuovi governanti di sinistra in America latina. Essendo più di un governo “progressista”, è diventata un elemento dinamico dell’ALBA, di PetroCaribe, della CELAC e, in modo particolare, con i suoi rapporti con il Venezuela, con cui ha stabilito legami così stretti da suscitare illusioni unioniste in seno alla sinistra e seri timori al livello del Dipartimento di Stato.

La seconda condizione, esogena, è stata la crisi del sistema finanziario mondiale, il cui centro era negli Stati Uniti e in Europa, e che si è combinata con un’avanzata senza precedenti del peso globale della Cina nelle economie del nostro continente. A 10 anni di distanza, la Cina è l’investitore più dinamico e ha il vento in poppa in quasi la metà dei paesi dell’America latina. Nel 2016 ha svolto un ruolo cruciale per la sopravvivenza dell’economia venezuelana.

Il rialzo dei prezzi mondiali delle materie prime, che ha proseguito per 7 anni, ha esteso la capacità di intervento dello Stato e ha costituito un elemento nuovo, propizio al processo di integrazione sub-regionale, consentendo a interi pezzi del continente di guadagnare indipendenza. Ha permesso eccedenze fiscali e una bilancia finanziaria e commerciale attiva. Mai le nostre economie avevano conosciuto avanzi in questi tre campi contemporaneamente. Aggiungiamo a questo le preoccupazioni geopolitiche provocate all’imperialismo dalle “”rivoluzioni arabe” che, benché tutte arretrate e sconfitte, hanno turbato il sonno del Dipartimento di Stato e dei ministri degli Esteri di Francia, Gran Bretagna e Germania.

Questo combinarsi di fattori positivi ha consentito un rapporto di forza tra i paesi progressisti e gli Stati Uniti e l’Europa sempre più favorevole a processi di liberazione ed emancipazione.

E due errori strategici

I governi progressisti hanno commesso due errori di strategia, che è opportuno ricondurre alla concezione politica dominante dei loro principali dirigenti. Il primo è quello di avere puntato sul fatto che si sarebbero mantenuti a lungo termine gli elevati prezzi delle materie prime, dimenticando in questo una lezione della storia del sistema capitalistico. Dal XVIII secolo, ogni volta che l’economia internazionale è entrata in crisi, a causa dei suoi connaturati squilibri e delle sue contraddizioni, e che questo ha portato al temporaneo rialzo dei prezzi delle materie prime, colpendo di conseguenza i tassi d’interesse e commerciali delle grandi potenze, i capitalisti sono riusciti a ridurli grazie alla cassetta degli attrezzi fatta di guerre, racket, ricatti commerciali, blocchi, minacce, accordi segreti di un settore contro l’altro, o di governi contro determinati protagonisti commerciali. Marx ed altri specialisti dell’economia mondiale lo hanno messo in evidenza. Maurice Niveau, specialista francese di storia economica, ha descritto questa risvolto nascosto della vita delle nazioni nella sua Storia dei fatti economici contemporanei.[2] Nello stesso solco, lo storico, sociologo, economista colombiano Renán Vega Kantor, fornisce fondamentali elementi di comprensione di questo meccanismo sciagurato nel suo libro Capitalismo e spoliazione.

Un’economia estrattivista

Il secondo errore dei governi progressisti è stato (e continua ad essere) quello di limitare le prospettive nazionali di sviluppo a un’economia primaria, più o meno florida, ma sempre basata sulle materie prime, cosa che – come indica il ricercatore Claudio Katz – ha avuto come risultato «l’aumento della primarizzazione del Sud America».[3]

Il rapporto privilegiato con la Cina non è stato posto al servizio di una strategia di sviluppo, scelta per la quale l’America latina è meglio preparata che non le società africane. La potenza mondiale cinese ha instaurato rapporti privilegiati con queste due aree del pianeta, prestando montagne di dollari, a condizione che queste economie restino dipendenti. E anche se la Cina non impone le condizioni grossolane del FMI o della Banca di Basilea, essa trasferisce solo poca tecnologia, senza la quale qualsiasi decollo industriale risulta impossibile per riuscire a rivaleggiare sul mercato mondiale a condizioni favorevoli a uno sviluppo indipendente, come ad esempio è avvenuto nella Corea del Sud.

I favori cinesi espressi in dollari sono incommensurabili per Venezuela, Ecuador, Bolivia, Brasile, Argentina, ma non è colpa della Cina se è la Cina. In compenso, i governi non hanno mai organizzato una piattaforma unitaria per uno sviluppo strutturale sub-regionale da contrapporre all’impero cinese. Il risultato è che le donazioni cinesi finiscono per costare care al processo progressista nel suo complesso. Queste non sono state impiegate per promuovere un’economia dinamica di produzioni non primarie. Questo rapporto di forza globalmente favorevole è stato forse sfruttato per modificare la collocazione delle nostre economie nella divisione internazionale del lavoro e per inserire stabilmente i nostri paesi nel sistema mondiale degli Stati?

Non si può rispondere con un sì o con un no. Siamo di fronte a un processo complesso in cui si sono fatti alcuni passi in direzione di un obiettivo di emancipazione, ma il cui risultato complessivo è negativo, debole e deludente rispetto alle potenzialità che quel buon rapporto di forza aveva dischiuso.

Il sistema politico e il modello economico basati sulla produzione e l’esportazione di prodotti primari hanno necessariamente condizionato politiche endogene non meno regressive di quelle esogene.

Concentrazione burocratica, clientelismo e verticismo

La prima conseguenza di queste pericolose combinazioni è stato il moltiplicarsi o il concentrarsi di nuove burocrazie amministrative in seno alle istituzioni, con apparati e forme di poteri statali contraddistinti dalla dilapidazione dei beni sociali e delle risorse. Il caso più grave è quello del Venezuela. In meno di un decennio, il volume dell’apparato amministrativo è triplicato. Nel 1999, l’amministrazione Chávez ha cominciato con circa 800.000 dipendenti pubblici; 7 anni dopo, questi ammontavano a circa 2,200 milioni, mentre la popolazione era aumentata di 3 milioni di abitanti ed era immutata la struttura economica.[4]

È vero che un buon numero di questi funzionari inseriti nell’apparato statale sono serviti a mettere in atto le politiche pubbliche, le “Missioni” (come vengono chiamate in Venezuela) – più di 20 nel 2012 – e che hanno svolto un ruolo decisivo per lenire la catastrofe sociale che si era accumulata. Tuttavia, quando si sono ridotte le attività delle Missioni in seguito ai tagli della spesa pubblica a partire dal 2011, ed alcune di queste sono addirittura state chiuse a causa del calo del tasso di cambio, il numero dei dipendenti pubblici non è sceso, e questo semina il dubbio sul fatto che quel numero corrispondesse alla volontà di cambiamento. Ma la cosa più importante, in termini di emancipazione e di trasformazione rivoluzionaria, è che si sia rafforzato l’apparato statale, non la capacità politica dei movimenti sociali, senza aver trasformato il modo di amministrare parte della cosa pubblica. Per farlo, ci sarebbe stati bisogno di avanzare il concetto di lavoratori come soggetti del loro proprio Stato. L’altra fonte di spreco sociale è la corruzione, diventata il sistema di funzionamento dell’amministrazione.

Il Brasile offre un’illustrazione del diretto rapporto tra il modello economico applicato, il partner strategico prescelto (il soggetto sociale storico) e la loro traduzione in clientelismo e corruzione all’interno del governo. Anche se lo scandalo dell’arresto di Lula Da Silva, accompagnato in manette per rilasciare una dichiarazione, costituisce una persecuzione politica nel quadro del tracollo istituzionale del governo di Dilma Rousseff, questo non deve impedirci di capire che l’abuso poliziesco contro il leader del Partito dei Lavoratori (PT) ha come intelaiatura di fondo un sistema di corruzione tra gli uomini d’affari e i politici progressisti. In Brasile, la dilapidazione non si è tradotta in crescita esponenziale del lavoro della burocrazia, perché è stata occultata dalla terziarizzazione del lavoro, lo strumento privilegiato per ridurre la quota del salario rispetto al captale durante i governi di Lula e Dilma. Lo stanziamento di bilancio per consentire il reclutamento di personale nel settore pubblico, pagato in onorari (essendo stato soppresso il salario) è aumentata quasi del 40%. E il progetto di bilancio del prossimo anno prevede ancora un aumento del 39,1% rispetto al 2015 dello stanziamento destinato a questo tipo di reclutamento. Questo rappresenta circa 9 volte l’aumento complessivo delle spese pubbliche, del 4,4% quest’anno. In percentuale, tra il 2013 e il 2016 tali aumenti hanno riguardato soprattutto il ministero della Difesa (407%), la Segreteria generale del Presidente (SEGPRES) (188%9 e il ministero dell’Energia (82%).[5]

Il ricercatore brasiliano Ricardo Antunes descrive la questione come segue: «Un esempio attuale è la crisi di Petrobras, dove la corruzione non è stata creata dai lavoratori, ma deriva dalla nefasta simbiosi tra le grandi imprese e determinati settori dell’alta burocrazia dello Stato che si sono lasciati corrompere. In altri termini, i lavoratori sono fuori causa, ma il risultato è stato il licenziamento di circa 200.000 lavoratori e lavoratrici di ditte appaltatrici, reclutati in società che offrono contratti di sub-appalto per effettuare lavori nei siti di Petrobras».[6]

In Ecuador, secondo il ministero delle Finanze, il totale di dignitari, autorità, funzionari, impiegati e lavoratori del settore pubblico ammonta a 454.034 persone, contro 356.120 nel 2006: val a dire che si sono avuti circa 100.000 funzionari in più in 4 anni. Tuttavia, a differenza del Venezuela, in Ecuador non ci sono Missioni né alcun altro organismo militante del genere. I mutamenti progressisti sono avvenuti nel quadro delle istituzioni tradizionali. Non è così scandaloso come in Venezuela, se si tiene conto dell’esigenza da parte dello Stato di portare avanti programmi sociali fra monti e vallate remote, tuttavia questo dimostra che il progetto si basa più sulla burocrazia statale che non sui movimenti sociali per realizzare cambiamenti progressisti. Al di là della quantità di funzionari entrati nell’amministrazione, una buona parte dei quali si tradurrà in spreco sociale accumulato, la cosa più importante è che Correa non abbia cercato di consolidare i movimenti e di dar loro la capacità di gestire e imparare a governare in quanto movimenti.

Secondo i dati forniti da un economista boliviano sostenitore del governo di Evo Morales, F. Xavier Iturralde, lo Stato plurinazionale sorretto dai movimenti sociali soffre dello stesso cancro clientelare degli altri governi progressisti. Iturralde ha censito circa 500.000 funzionari pubblici nel 2015, contro 350.000 nel 2011 e 255.928 nel 2005. Il raddoppio non corrisponde al raddoppio della popolazione. E anche se una parte rilevante, circa il 70%, di questi funzionari lavorano utilmente nei settori della sanità, dell’istruzione e in altri servizi pubblici, il resto va considerato sperpero della capacità di trasformazione sociale.

Stando a un rapporto pubblicato dal portale www.elauditor.info, dell’organizzazione dei vari personali degli organismi di controllo (APOC, il sindacato dei controllori governativi), sulla base di dati ufficiali dell’Ufficio nazionale del bilancio del ministero dell’Economia lo stesso problema si ritrova in Argentina, anche se con altre modalità. Anziché gonfiare l’amministrazione, la si è accentrata, combinando quel che si è fatto in Venezuela e in Brasile: rigonfiamento e subappalto.

Tra il 2007 e i primi mesi del 2014, sono stati reclutati nella Pubblica amministrazione argentina 80.994 dipendenti. La crescita corrisponde solo al 27% dei funzionari stabili, in situazione precaria, o temporanea ed è meno consistente, in media annua, degli assunti in Venezuela e in Bolivia. Nel 2007, c’erano 295.000 funzionari a livello dell’amministrazione nazionale. Ora sono 376.145. Il reclutamento ha favorito i militanti, i parenti e gli amici degli alti funzionari del potere. Le organizzazioni privilegiate sono state La Cámpora, Kolina e JP (Gioventù peronista), Evita, ma ve ne sono anche altre.

In Argentina il fenomeno non è stato tanto quantitativo, quanto piuttosto si è soprattutto concentrato in modo settario sugli amichetti politici. L’errore concettuale di concentrare nell’apparato burocratico dello Stato quel che avrebbe dovuto essere investito in capacità sociale riproduttiva degli stessi produttori organizzati in movimenti ha costituito il tratto comune della strategia di tutti i governi progressisti, a partire dall’idea sbagliata che una società si trasformi con più burocrazia.

Nel caso del Venezuela, il governo ha trasferito una quota rilevante della sua capacità operativa e finanziaria alle Comuni, ai sindacati e ad altre organizzazioni di quello che viene chiamato “potere popolare”. Questo punto, abbastanza positivo, non ha però impedito la smisurata crescita del numero dei funzionari, molti dei quali si sono trasformati in clientela politica parassitaria, visibile in qualsiasi ministero e in alcune missioni quali quelle di Barrio Adentro, Sucre, quelle dell’Alloggio e della Cultura.

La concentrazione burocratica dell’amministrazione ha portato alle perversioni del clientelismo, della corruzione come sistema di funzionamento governativo e dell’economia privata, all’approdo del verticismo instaurato nei rapporti politici tra lo Stato e la società, il partito e le sue basi, il movimento e i suoi simpatizzanti, il – o la – presidente e i mezzi di comunicazione di massa, tra la politica in generale e la vita sociale. Il disagio causato tra la popolazione da questo divorzio generalizzato si è tradotto nei tre esiti elettorali negativi del progressismo nel 2015.

Un altro dei fattori interni che ha contribuito alla sconfitta dei governi progressisti è stata la politica fiscale regressiva che ha ridotto del 35% il reddito da lavoro, grazie al punto di vista reazionario consistente nel considerare come profitto capitalistico il salario guadagnato lavorando. Aggiungiamo a questo l’indebolimento del potere d’acquisto del salario medio nazionale rispetto al saggio medio di profitto delle imprese e il fatto di considerare i lavoratori alla stessa stregua dei capitalisti e delle famiglie borghesi al livello del consumo.

La tassazione dei salari ha minato il voto al governo Kirchner tra il 2011 e il 2015. È opportuno ricordare che i tre scioperi nazionali contro Cristina Kirchner avevano l’obiettivo dell’abrogazione della tassa sul salario. La stampa di opposizione al governo progressista ha approfittato di questi iati, di queste brecce, degli errori, contraddizioni, sbavature e arretramenti per esacerbare le sensazioni di malessere. Ma non è stata lei a creare queste realtà deplorevoli.

[L’articolo, scritto nell’aprile del 2016, è stato ripreso dalla versione francese pubblicata dal CADTM. La traduzione è di Titti Pierini.


*Modesto Emilio Guerrero: giornalista, scrittore, conferenziere venezuelano. Ex deputato e autore di un biografia di Chávez

[1] http://adnagencia.info/latinoameric

[2] PUF, (Quadrige), 1990.

[3] C. Katz, Desenlaces del ciclo progresista, COINCET, Buenos Aires, 2016.

[4] M. E. Guerrero, 12 dilemas de la revolución bolívariana, El Perro y la rana, Caracas, 2009.