L’Europa tra il 1989 e il 1993: una riflessione indispensabile

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di Ilario Salucci, Crisi Globale

Uno stralcio dal capitolo centrale di un libro di Ilario Salucci sull’uccisione di tre compagni impegnati nella solidarietà internazionale nella Bosnia della guerra civile [Gornij Vakuf, una storia semplice, Crisi Globale], particolarmente utile per ricostruire il contesto della crisi jugoslava.

Il crollo delle dittature burocratiche nell’Europa orientale e nell’ex Unione sovietica, tra il 1989 e il 1991, fu l’avvenimento mondiale più importante dopo la Seconda guerra mondiale e la rivoluzione cinese del 1949. Fu la fine della “guerra fredda”, la fine del contesto che aveva retto la politica mondiale dal 1945, il che comportò una conseguente crisi, anche se allora non riconosciuta dalla maggior parte dei commentatori, dei rapporti globali, non solo al di là della “cortina di ferro”. Non potendo passare in rassegna gli avvenimenti convulsi di quegli anni, mi limito a cercare di evidenziare gli snodi storici di quel periodo. Altre possibilità storiche erano aperte, e quanto alla fine avvenne non era fatalisticamente inscritto fin dall’inizio, ma l’esito finale tuttavia obbliga a un bilancio sobrio di quanto avvenne, cercando di individuarne le logiche e le cause, sia sistemiche che contingenti.

La visione comune, per cui la svolta del 1989 fu la “fine del comunismo”, presuppone quattro assiomi: il dominio dei Partiti comunisti era equiparato al comunismo; il rigetto popolare dei regimi di questi Partiti comunisti era sic et sempliciter un sostegno ai successivi mutamenti politici e socioeconomici, introdotti nel quadro della globalizzazione neoliberale; quest’ultima era sinonimo di democrazia; e gli oppositori dei passati regimi “comunisti” erano eo ipso anticomunisti[1]. Questi assiomi non reggono a una analisi storica.

Le mobilitazioni popolari che si svilupparono nell’Europa orientale nella seconda metà degli anni ‘980 erano finalizzate a ottenere un maggiore benessere e una maggiore libertà, senza rimettere in discussione le acquisizioni sociali esistenti: in primo luogo l’inesistenza di un mercato del lavoro e l’impossibilità (al 99%) di licenziamenti, con una conseguente assenza di disoccupazione (con l’eccezione della Jugoslavia), un welfare state che, sia pure via via d’una qualità sempre più disastrosa, era riconosciuto come diritto generalizzato, e un potere all’interno dei luoghi di produzione sui ritmi di lavoro, che se era da un lato intrecciato a pratiche paternalistiche e clientelari da parte dei manager, dall’altro era pur sempre effettivo, come evidenziato dai generalizzati bassi livelli di produttività aziendale. Da nessuna parte vi furono delle rivoluzioni dal basso a sostegno di un programma di restaurazione capitalista. Le “riforme” neoliberali, introdotte via via nei vari paesi, vennero implementate contro il sentire comune delle popolazioni di questi paesi, sulla base delle indicazioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, non sulla base di dibattiti e di consultazioni democratiche ampie e trasparenti. Queste “riforme” produssero una crisi in tutti i paesi dell’Est che venne definita sistemica, con il crollo della produzione (dal 30 al 50%), una disoccupazione di massa e una pauperizzazione generalizzata. Due altre considerazioni comportano degli sviluppi e degli approfondimenti. Da un lato ampi settori della burocrazia dominante furono i principali soggetti della svolta neoliberale, pur con notevoli differenze specifiche nei singoli paesi. Dall’altro lato le mobilitazioni del 1989 fecero emergere una frattura che si situa nel corso degli anni ‘980. Fino al 1980-1981 le rivolte che si succedettero in Europa orientale esprimevano in generale l’aspirazione a sostuire il ruolo dirigente della burocrazia con un potere di massa, democratico, autogestionario, espresso dalla formazione e dal coordinamento di consigli operai; le realizzazioni pratiche furono molto diverse, a seconda dei paesi e delle congiunture, dalle più embrionali alle più elaborate, ma la tendenza di fondo era inequivocabile. Le mobilitazioni di massa del 1989 invece non videro nascere da nessuna parte forme organizzate autogestionarie, come i consigli operai, né vennero avanzate rivendicazioni che esprimessero questa aspirazione.

Ernest Mandel, nelle sue analisi delle società postcapitaliste, aveva escluso la possibilità che le burocrazie al potere potessero essere gli agenti di una restaurazione capitalista, in quanto il loro potere esisteva solo grazie all’assenza di una borghesia; l’ipotesi che uno strato sociale dominante potesse compiere un suicidio collettivo era impensabile. Nelle sue analisi la restaurazione capitalista sarebbe potuta avvenire solo grazie a una sconfitta storica dei lavoratori di questi paesi e alla distruzione violenta degli Stati burocratici. La dinamica all’opera nel 1989 ha invalidato questa tesi. Catherine Samary, per risolvere la contraddizione, ha apportato delle nuances alla categoria della burocrazia come non-classe, e ha sostenuto che quanto affermato da Mandel era teoricamente vero (e confermato) solo in periodi di crescita economica, mentre risultava invalidato in periodi di crisi[2]. Ma in questo modo Samary non ha risolto la contraddizione, ha semplicemente ascritto i suoi termini a diverse congiunture storiche ed economiche. Il problema è capire se la burocrazia, come strato dominante, si sia effettivamente “suicidata” con la restaurazione capitalista. A mio avviso no: importanti suoi settori sono rimasti al potere grazie a dei compromessi e a degli accordi con le borghesie internazionali. Ad una embrionale, molto embrionale, rivoluzione dal basso, si è contrapposta una rivoluzione (controrivoluzione) sociale dall’alto. La possibilità di una tale controrivoluzione non viene considerata né da Mandel, né da Samary, ma il suo prototipo storico, la Germania bismarckiana, è stato attentamente analizzato da Marx ed Engels. Tali rivoluzioni (controrivoluzioni) possono estendersi per decenni, senza cesure improvvise e drammatiche, e i compromessi sociali, economici, di potere su cui si basano dànno luogo a formazioni sociali e a Stati ibridi, mostruosi. Così, per Marx, lo Stato di Bismarck e di Guglielmo I era “uno Stato che non è altro se non un dispotismo militare, mascherato di forme parlamentari, mescolato a residui feudali, e allo stesso tempo già influenzato dalla borghesia, tenuto assieme dalla burocrazia, difeso dalla polizia”[3]. Tale opzione è stata fatta propria dalle burocrazie al potere in funzione delle particolari congiunture politiche ed economiche della fine degli anni ‘980, ma presupponeva che la possibilità storica di tale opzione esistesse indipendentemente da queste stesse congiunture.

A questo proposito il percorso jugoslavo è peculiare. Una pianificazione economica centralizzata e burocratica, per un paese relativamente piccolo come la Jugoslavia, implicava l’inserimento in una integrazione economica ampia a livello regionale. La rottura con Mosca nel 1948 aveva precluso questa possibilità. La scelta dell’autogestione permise alla Jugoslavia non solo di sopravvivere nella nuova situazione internazionale, ma di crescere in modo deciso, chiudendo con un passato di arretratezza e di miseria. Ma se una pianificazione economica centralizzata e burocratica era impensabile in primo luogo per motivi economici, l’estensione, l’approfondimento dell’autogestione a livello economico e politico era impensabile in primo luogo per motivi politici, in quanto avrebbe svuotato il predominio burocratico. La scelta, a metà degli anni ‘960, fu così quella della riduzione dei poteri dell’autogestione operaia e popolare e di una sostanziale apertura internazionale dell’economia[4]. In questo modo si fece dipendere lo sviluppo delle singole repubbliche, dei vari settori produttivi, delle singole imprese dall’accesso ai crediti e ai mercati internazionali, frammentando e cristallizzando interessi divergenti a livello economico all’interno dell’élite. Ma non solo: comportò anche una simbiosi tra politica estera e politica industriale, tra la posizione strategica della Jugoslavia a livello internazionale e il suo accesso al capitale estero, sia in termini di crediti che di mercati internazionali. Grazie a questa simbiosi interessi economici divergenti si tramutavano in divergenze politiche, che a loro volta si tramutavano di nuovo in divergenze economiche sulla gestione dei fondi statali e repubblicani. Ma queste divergenze non dipendevano da variabili interne su cui la burocrazia poteva operare, ma da dinamiche economiche globali e di relazioni tra Stati a livello internazionale del tutto imprevedibili, e che per di più potevano anche essere divergenti tra loro[5]. I conflitti politici intraburocratici eruppero all’inizio degli anni ‘970, e vennero apparentemente superati con una estrema decentralizzazione della Jugoslavia, formalizzata dalla nuova Costituzione del 1974 scritta da Kardelj, e con l’esplosione incontrollabile della domanda per crediti esteri. Il “patto faustiano” che legava politica estera e sviluppo economico interno venne confermato, ma il soggetto principale passò dal centro federale ai centri repubblicani; le sub-economie repubblicane si integrarono progressivamente nel mercato mondiale in modo indipendente l’una dall’altra, con sempre minori relazioni tra loro e con uno svuotamento del ruolo economico del centro federale. Ne derivarono sprechi incalcolabili, inflazione e la diffusione di una mentalità capitalistica nella conduzione degli affari, sia economici che politici. La polarizzazione sociale, già favorita dal rientro in patria di un milione di Gastarbeiter con l’avvio della recessione internazionale nel 1973, aumentò vertiginosamente: a metà degli anni ‘970 i lavoratori non specializzati erano prossimi o sotto la linea della povertà, mentre si avvicinavano pericolosamente a questa soglia anche i lavoratori specializzati; nei catastrofici anni ‘980 il 10% più ricco della popolazione jugoslava possedeva più del 40% più povero. L’aumento dei tassi di interesse a partire dal 1982 e la successiva rinuncia a un ruolo mondiale preminente da parte dell’Urss gorbacioviano modificarono entrambi i termini del problema della stabilità interna della Jugoslavia. L’accesso al credito internazionale era ancora essenziale, ma utilizzabile solo per pagare gli interessi sui passati crediti, e la posizione strategica della Jugoslavia a livello internazionale venne annullata di colpo. La Jugoslavia fu ridotta in quegli anni a un paese dipendente periferico, subalterno alle ricette del FMI di austerità e di tagli ai deficit statali, con un’economia interna sull’orlo del collasso, in preda a un’inflazione a tre cifre e a una disoccupazione di massa e crescente. La controrivoluzione sociale dall’alto era stata preparata e avviata da ben due decenni, ma all’appuntamento decisivo della seconda metà degli anni ‘980 la posizione contrattuale delle varie burocrazie jugoslave si rivelava catastrofica.

La via di un compromesso tra burocrazia jugoslava e borghesie internazionali, secondo le modalità che furono maggioritarie negli altri paesi dell’Europa orientale, venne tentata con l’elezione a primo ministro federale di Ante Marković nel marzo 1989. Il problema era che un centro burocratico federale non esisteva più da molti anni, e questo tentativo, su cui tutte le borghesie internazionali avevano giocato le loro carte, fallì miseramente nell’arco di un anno. Un altro tentativo con un orizzonte federale venne fatto da Slobodan Milošević, dall’autunno 1987 a capo della Lega dei comunisti di Serbia. Politicamente comportava un processo di centralizzazione della Jugoslavia (ad eccezione della Slovenia, la cui separazione dalla Jugoslavia veniva considerata inevitabile) sotto il dominio della frazione burocratica serba, ed economicamente comportava un processo di spoliazione del paese a favore di un arricchimento privato dello strato superiore della burocrazia, in modo da assurgere a nucleo di una borghesia autoctona. Anche questa opzione fallì miseramente, per gli stessi motivi che avevano portato al fallimento dell’opzione Marković, con lo scioglimento de facto della Lega dei comunisti jugoslava nel gennaio 1990. I centri di potere erano da molto tempo a livello repubblicano, e nella tormenta dell’anno 1990 la burocrazia croata e quella bosniaca persero la partita e vennero escluse dal potere, mentre quella slovena riuscì a mantenere un minimo di forza contrattuale nei nuovi assetti. In Serbia, Montenegro e Macedonia i vecchi centri di potere riuscirono, chi più chi meno, a superare la prova.

Nel 1990 le élite al potere, sia di vecchia provenienza burocratica, sia nuove arrivate ai vertici degli Stati, ereditarono l’estrema debolezza sociale delle burocrazie repubblicane degli anni ‘980. Ma questa non è stata l’unica peculiarità jugoslava. La classe operaia jugoslava aveva avuto una continua attività autonoma nel corso di questo decennio, raggiungendo un picco di mobilitazioni e scioperi dopo il 1985, e con un accumulo di esperienze altrove impossibili. Scioperare in Jugoslavia non era un diritto, piuttosto una rottura contrattuale da parte del lavoratore che poteva portare al suo licenziamento; era tuttavia per lo più tollerato, ed eventuali misure repressive colpivano i dirigenti degli scioperi, più che la massa dei lavoratori. Queste mobilitazioni non si erano cristallizzate in organizzazioni autonome permanenti, ed erano rimaste per lo più frammentate e senza coordinamento, ma avevano sollevato una importante commozione e solidarietà nella società jugoslava[6]. Il picco fu nel 1987, e l’emblema fu lo sciopero di due mesi dei minatori di Labin (Croazia); l’emblema della conclusione di questa ondata fu lo sciopero dei minatori di Trepča (Kosovo), nel febbraio 1989. Le rivendicazioni non erano solo salariali, ma riguardavano la gestione aziendale, le responsabilità politiche, i diritti collettivi. Nel caso di Trepča (che era all’avanguardia di uno sciopero generale nell’industria di tutto il Kosovo) veniva richiesto il rispetto della Costituzione, dei diritti della minoranza albanese e dei fondamentali diritti democratici di poter tenere riunioni e dimostrazioni pubbliche (aboliti il precedente novembre); Belgrado rispose arrestando i dirigenti dello sciopero, imponendo un governo militare de facto nella provincia e cancellandone l’autonomia[7].

Questa attività autonoma dei lavoratori, pur con tutti i suoi limiti, era un unicum in Europa orientale, e assieme alla debolezza delle élite dirigenti poneva una potenziale, ma pur sempre reale, minaccia al completamento della controrivoluzione sociale, obiettivo di quelle élite, di qualsiasi provenienza fossero.

Secondo una diffusa visione le masse jugoslave avrebbero manifestato il proprio nazionalismo allorquando votarono nel 1990, sia in Croazia, che in Serbia, che in Bosnia. I partiti vincitori lo furono perché giocarono la carta etnica, e le guerre che seguirono sarebbero state l’espressione dei più profondi sentimenti popolari. Innumerevoli volumi, saggi e articoli sono stati scritti sui secolari odii etnici balcanici, che sarebbero esplosi portando alla dissoluzione della Jugoslavia e alle guerre che ne seguirono; l’antitesi esplicita o implicita era tra l’arcaismo balcanico e la modernità occidentale. Contro questa visione Gagnon ha argomentato in modo approfondito, facendone emergere le aporie[8]. I partiti nazionalisti che vinsero le elezioni del 1990 vinsero perché si presentarono agli elettori come dei partiti moderati, con a cuore la nazione ma rispettosi di tutte le altre, e ancor più delle minoranze; e soprattutto al centro della loro propaganda non vi erano le questioni nazionali ma il benessere dei cittadini e dei lavoratori, il rafforzamento dello stato sociale, la diminuzione della disoccupazione. In Serbia e in Croazia si presentarono alle elezioni altri partiti, anch’essi nazionalisti, ma che scelsero di fare una propaganda esclusivamente nazionalista, contro le altre nazioni: uscirono pesantemente sconfitti, con risultati risibili. Secondo tutta una serie di studi sociologici sul terreno, nel 1990 e nel 1991, per le persone comuni non vi era alcuna emergenza nazionale, e in generale avevano ottimi rapporti con persone di altre nazionalità; se dei problemi esistevano erano di minor conto, di ben poca importanza a fronte dei problemi del lavoro, del salario, della casa, dei servizi sociali. Cioè: solo i partiti nazionalisti che non si presentarono realmente come tali riuscirono a vincere. Quando iniziò la guerra, il rifiuto popolare alla mobilitazione dei riservisti, alla coscrizione obbligatoria, fu di massa, e nell’estate e nell’autunno del 1991 portò 200.000 giovani serbi a fuggire all’estero, mentre altri 50.000 disertarono una volta al fronte. Secondo alcune ricerche a Belgrado tra l’85 e il 90% dei giovani rifiutarono di andare a combattere, e nella Serbia nel suo complesso la percentuale è stata valutata tra il 20 e il 50%.

Ma allora perché le guerre, perché così tanta violenza “irrazionale”? Gagnon sottolinea come la guerra, la violenza, a differenza della semplice propaganda, creino un nuovo mondo sociale in cui le persone vengono “smobilitate”, silenziate; come la guerra, la violenza permettano di marginalizzare (e spesso eliminare fisicamente) gli oppositori, imponendo come legittimo il solo discorso politico della “sopravvivenza della nazione” (secondo la logica per cui la pulizia etnica è sempre e solo fatta dai nemici); come la guerra e la violenza creino un nuovo mondo sociale in cui l’omogeneità etnica diventa un presupposto di una ricercata omogeneità ideologica. In questa visione le guerre jugoslave furono in primo luogo delle guerre decise dalle élite al potere (in primo luogo quelle serbe e croate, con le loro appendici bosniache) contro le proprie popolazioni, per disciplinarle e per assicurare “lunga vita” ai loro dirigenti, consentendo la piena realizzazione della controrivoluzione sociale. Il massacro di Srebrenica in quest’ottica aveva come fine di creare un invalicabile fossato di sangue tra i serbo-bosniaci e gli altri bosniaci, rendendo nei fatti collettivamente responsabili i serbo-bosniaci, come “nazione”, di questa immane assurda carneficina, e per la “sopravvivenza della nazione” farli per sempre rimanere prigionieri delle loro direzioni nazionaliste. I livelli di violenza e atrocità furono proporzionali al terrore che le oligarchie al potere provavano di fronte alle proprie popolazioni.

Un’ultima considerazione deriva dall’analisi delle peculiarità jugoslave: le questioni nazionali non possono essere risolte con una semplice strumentazione di diritti (o doveri) nazionali. La loro soluzione (o non soluzione) ha sempre un contenuto sociale e un significato storico. La Costituzione di Kardelj, iperdemocratica per ciò che concerne i diritti nazionali riconosciuti, fu una tappa nella formazione delle burocrazie repubblicane, che a loro volta furono una tappa verso il grande macello degli anni ‘990. Ebbe questo ruolo non perché fosse iperdemocratica, ma perché era uno strumento di difesa burocratica contro la possibilità che l’autogestione all’interno delle imprese potesse evolvere verticalmente verso il potere, realizzando un autogoverno civico completo, una “democrazia plebea”. Per Suvin le possibilità di una emancipazione radicale presenti nella storia jugoslava dopo il 1941 si concretizzarono con il rifiuto sia dell’imperialismo fascista, sia dello stalinismo, ma “quando nuove forze sociali riuscirono a bloccare l’emancipazione, questo portò alla fine sia dell’autogestione sia della Jugoslavia, che si sono così rivelate essere consustanziali”[9], indissociabili perché di uguale natura e sostanza.

Per comprendere le dinamiche all’opera nell’Europa orientale nel 1989-1991 è necessario risalire alla “frattura degli anni ‘980”. “Il modo in cui le masse in Europa orientale e in Urss hanno reagito alla crisi crescente in questi paesi si è gradualmente modificata a partire… dall’inizio degli anni ‘980 […] Di colpo, la continuità che va dalla rivolta operaia nella Repubblica democratica tedesca del 1953, dalle mobilitazioni operaie in Polonia e dalla rivoluzione ungherese del 1956, alla ‘primavera di Praga’ del 1968-1969 e alle potenzialità di un socialismo autogestito espresse dall’esplosione di Solidamosc nella Polonia del 1980-1981, è stata rotta”[10]. Le masse dell’Europa orientale e dell’Urss, diversamente dal passato, non sono intervenute nella crisi del 1989-1991 con una qualsiasi iniziativa politica di classe, e hanno accettato che la dittatura burocratica venisse rimpiazzata da governi e Stati fautori della restaurazione capitalista.

È stato fatto riferimento, a questo proposito, alla stagnazione e alla crisi economica che hanno vissuto i paesi dell’est, accentuata dalla corsa al riarmo imposta da Washington, ma determinata in ultima analisi dalla incapacità strutturale di questi paesi a passare da una industrializzazione estensiva a una di tipo intensivo, e alla generale crisi ideologica e morale delle burocrazie al potere esemplificata dal “breznevismo”. Tutto ciò avrebbe comportato la presa di coscienza da parte delle larghe masse della bancarotta complessiva dell’ “economia di comando” e in generale delle istituzioni politiche esistenti, con il conseguente rigetto di stalinismo, comunismo, marxismo e socialismo, tutti identificati tra loro. Questo approccio non è convincente per due motivi. Da un lato ha risvolti paradossali, implicando che le rivoluzioni, le rivolte e le mobilitazioni precedenti si basavano sull’illusione che il sistema burocratico in qualche modo funzionasse più o meno accettabilmente. D’altro lato, se spiega l’esasperazione delle masse contro i regimi che li governavano, non spiega però la delega politica che queste stesse masse diedero ai regimi successivi, e che spesso includevano lo stesso personale politico di quelli precedenti. La “crisi sistemica” dei paesi dell’est spiega il crollo di questi regimi, non spiega perché le masse di lavoratori e lavoratrici non ebbero alcun ruolo politico in questo crollo.

Con una prospettiva storica Mandel affermava nel 1977 che “quel che sottende l’impostazione teorica di Trotsky, a prescindere dalle formulazioni e dalle oscillazioni congiunturali, è il fatto che, per lui, il destino dell’Unione sovietica dipende, in ultima analisi, dall’esito della lotta di classe su scala mondiale. Lo stalinismo risulta, allora, una variante imprevista del corso della storia, esattamente in funzione di quello che si potrebbe definire l’equilibrio instabile tra le principali forze sociali antagoniste su scala mondiale. Lo stalinismo è l’espressione di una sconfitta e di un riflusso serio della rivoluzione mondiale dopo il 1923, ma riflette altresì l’indebolimento strutturale, a lunga scadenza, del capitalismo mondiale… Dietro la formula: ‘fase di transizione’, di ‘società di transizione’, c’è in realtà questo aspetto non ancora definitivamente risolto della prova di forza tra il Capitale e il Lavoro su scala mondiale. Anche in questo senso, nonostante si sia sbagliato nei dettagli, il modo in cui Trotsky formulava il dilemma nel 1939-1940 rimane fondamentalmente corretto. Una sconfitta schiacciante del proletariato mondiale per un intero periodo storico non solo può, ma deve portare alla restaurazione del capitalismo in Urss. Una sconfitta schiacciante del Capitale, della borghesia mondiale, in alcuni paesi chiave del mondo capitalistico deve rimettere l’Urss sui binari della costruzione di una società senza classi”[11]. Emenderei la frase sulla restaurazione del capitalismo in Urss considerando anziché il “proletariato mondiale” solo quello europeo.

Che conseguenze avrebbe una “sconfitta schiacciante” per la classe dei lavoratori? Un crollo nella combattività, un arretramento nei suoi obiettivi e nei suoi metodi di lotta, un crollo nella fiducia in sé e una mentalità predominante per cui nessun avvenire socialista è possibile, un arretramento o un crollo delle sue organizzazioni. In sintesi un crollo della “coscienza di classe” dei lavoratori, della loro coscienza politica, e tutto ciò per un significativo periodo storico. Qualcosa del genere è avvenuto in Europa occidentale verso la metà degli anni ‘980, sia dal punto di vista del livello della conflittualità di classe, sia dal punto di vista soggettivo, di prospettiva del movimento dei lavoratori. La curva delle ore perse per scioperi è crollata in modo sincronizzato verso il 1985-1986, dimezzandosi in alcuni paesi, e in altri, come l’Italia, scendendo a un quarto del livello del quinquennio precedente (a livello di confronto storico la curva degli scioperi in Italia arrivò, tra il 1986 e il 1994, ad essere inferiore, sia pur di poco, a quella degli anni ‘950). L’elemento fondamentale fu il carattere internazionale e non ciclico di questo arretramento (considerazione fattibile ovviamente solo ex post): il livello del 1985-1986 perdurò immutato per un decennio, allorquando si dimezzò ulteriormente, arrivando al livello ottocentesco della conflittualità sociale. A metà degli anni ‘980 vi è stata quindi una cesura storica, che ha interrotto i “cicli della lotta di classe” che avevano caratterizzato l’Europa per un secolo[12]. È come se l’eccezione tedesca, in cui “l’accumulazione successiva di disfatte e di arretramenti catastrofici subiti dal proletariato tedesco, e che si riassumono nei nomi Noske-Hitler-Ulbricht-Bad Godesberg, ha comportato un indebolimento di coscienza politica unico rispetto a qualsiasi altro paese europeo”[13], anziché essere temporanea si fosse generalizzata a tutta l’Europa occidentale. Ma cosa ha comportato questa cesura storica?

Sempre Mandel, a partire dall’agosto 1989[14], ha ripetutamente sostenuto che esisteva a livello internazionale una “crisi del socialismo”, una “crisi della credibilità di un progetto socialista”, nel senso che a livello di massa si era persa la speranza che la società capitalista potesse essere sostituita da una società diversa, significativamente migliore. Semplicemente non lo si riteneva più possibile. Ha sostenuto che questa crisi sarebbe iniziata almeno dagli inizi degli anni ‘980, e non era affatto ascrivibile all’affondamento delle dittature burocratiche dell’est. In altri termini i lavoratori si sarebbero trovati politicamente disarmati, con conseguenze devastanti: la lotta di classe reale diventava discontinua, frammentata, drasticamente ridotta, più controllabile da parte degli apparati esistenti, senza strumenti di fronte ad ampie offensive politiche borghesi, e questo per un lungo periodo storico, senza quella ciclicità che aveva caratterizzato il secolo precedente. I lavoratori sarebbero “tornati alla casella di partenza”, e i socialisti si sarebbero trovati come i loro progenitori degli anni ’80 e ’90 del XIX secolo. Secondo Mandel questo era un dato di lungo periodo e si azzardava a dire nel 1993 che “ci vorranno diverse decine d’anni prima che venga ristabilita la credibilità del socialismo… Quello che conta è riguadagnare al progetto socialista le grandi masse, e questo prenderà tempo. Quindici, venti, trent’anni”[15]. Mi sembra un’analisi che ha resistito alla prova del tempo, e permette di comprendere il crollo nella conflittualità di classe alla metà degli anni ‘980. Ma cosa ha comportato questa crisi del socialismo?

La risposta allora fu un ampliamento della tesi già esposta e criticata: i lavoratori e le lavoratrici avrebbero preso coscienza, sia pure con considerevole ritardo, del fallimento sia del “socialismo reale”, sia del “socialismo di governo” (socialdemocrazia e in genere riformismo gradualista). Affermare che i lavoratori avrebbero impiegato generazioni per capire, nonostante prove su prove, che la socialdemocrazia al potere non trasformava in modo socialista la società, non rende particolare onore all’intelligenza dei lavoratori. A mio avviso la logica che fu all’opera fu un’altra: in ampie parti del continente europeo le organizzazioni socialdemocratiche furono al potere nella seconda metà degli anni ‘970 e nella prima metà degli anni ‘980, in un contesto di crisi economica internazionale, quella che è stata correttamente definita “l’onda lunga depressiva”. Queste organizzazioni ebbero il sostegno di larghissima parte dei lavoratori dei vari paesi, un sostegno finalizzato a risolvere i problemi creati da questa stessa crisi: disoccupazione, diminuizioni salariali, segmentazione del mercato del lavoro, ristrutturazioni aziendali finalizzate a un maggiore sfruttamento. Le aspettative e le azioni dei lavoratori erano derivanti dalla loro esperienza passata: così per quanto riguarda l’Italia “la classe operaia, sia con le sue organizzazioni economiche che con quelle politiche, ha affrontato molti, se non tutti, i dilemmi che si pongono alle classi lavoratrici occidentali: obiettivi a breve termine rispetto a obiettivi a lungo termine, sindacati bread-and-butter rispetto a sindacati di classe, la cooperazione rispetto all’opposizione, agire nel mercato del lavoro rispetto all’agire nell’arena politica, al governo o all’opposizione. Intrappolati nei dilemmi posti da queste scelte dolorose, la sinistra italiana non si è né completamente compromessa, né ha scelto completamente la via della battaglia. Quando ha scelto il compromesso, lo ha fatto con molti dubbi e lacerazioni interne e, soprattutto, senza il pieno consenso della sua base di classe. Quando ha deciso di battersi, non ha mai utilizzato la disponibilità dei militanti di base a impegnarsi in una radicale azione collettiva. Tenendo per scontata la posizione geopolitica dell’Italia nel blocco occidentale, la leadership del lavoro ha speso il potere di mobilitazione della sua base entro i limiti del gioco parlamentare e del quadro istituzionale di un sistema di relazioni industriali”[16]. L’esperienza di questi governi invece fu devastante, in quanto non solo non seppero frenare l’offensiva borghese, ma si fecero essi stessi interpreti di questa offensiva, contribuendo al peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. La socialdemocrazia si era “completamente compromessa”. Anche questo potrebbe essere etichettato come un “fallimento del socialismo di governo”, ma in un senso molto specifico, che si consumò non in decenni, ma nel giro di pochissimi anni, che non comportò illusioni di massa sul “socialismo di governo” poi rivelatesi tali, ma che comportò l’aspettativa che la socialdemocrazia facesse quello che aveva fatto in passato, migliorare in qualche modo e in una qualche misura le condizioni di vita dei lavoratori, o quantomeno non peggiorarli. Quelli che prima potevano essere considerati strumenti politici insufficienti e imperfetti, ma che si era obbligati a usare in mancanza di alternative, e con cui i lavoratori intrattenevano rapporti talvolta molto conflittuali, si erano rivelati totalmente inutilizzabili. Decenni e decenni di epiche lotte e di terribili sacrifici vanificati. Questo fu uno choc di massa che portò spoliticizzazione, demoralizzazione e perdita di prospettive, con gli stessi effetti di una “sconfitta schiacciante”.

Fu la scomparsa politica dei lavoratori nell’Europa occidentale a determinare in ultima istanza[17] la mancanza di un ruolo politico da parte dei lavoratori a est. Non era più un’opzione disponibile. A livello internazionale esisteva un solo attore, la borghesia. La società ovunque scorreva lungo i binari della “normalità” borghese. La lotta di classe era ovunque un concetto e una pratica antiquata. I lavoratori dell’Europa orientale alzarono la testa e trovarono questa Europa. I “ruoli politici di classe” non sorgono dall’oggi al domani, e soprattutto dal nulla. Non c’erano alternative.

Vincente nella lotta di classe e nella guerra fredda la borghesia potè quindi finalmente tornare a sedersi, a rilassarsi, e a godersela? Non molto. In primo luogo, le classi lavoratrici si comportavano come se fossero state sconfitte, ma nessuna disfatta reale era avvenuta. L’offensiva contro di loro, a cavallo tra gli anni ‘980 e ‘990, era in larga parte un compito del futuro. E nessuno poteva allora esser sicuro che il “sonno operaio” sarebbe durato di fronte alla rimessa in discussione di diritti, livelli di vita, condizioni e ritmi di lavoro, gli stessi posti di lavoro. E soprattutto l’ “onda lunga depressiva” proseguiva inesorabile, scandita dal grande krach borsistico dell’ottobre 1987 e dalla tempesta valutaria del settembre 1992. Le soluzioni si rivelavano essere al contempo dei problemi: quella che oggi si definisce finanziarizzazione dell’economia, un’eredità della precedente fase espansiva, e la concentrazione e centralizzazione internazionale dei capitali. Soluzioni, perché l’espansione del credito permetteva di anticipare la domanda in tempi di ristrettezza e superare le strozzature congiunturali; problemi, perché la massa del credito era creata privatamente[18] ed era divenuta di una grandezza tale che più nessuna banca centrale la poteva controllare. Soluzioni, perché le grandi multinazionali rialzavano il tasso medio di profitto e potevano mettere in moto grandi investimenti; problemi, perché limitavano di fatto i poteri degli Stati rendendo caduche le classiche misure keynesiane anticrisi.

Le borghesie hanno sempre avuto bisogno dello Stato, per gestire le crisi e disciplinare i lavoratori. Ne hanno sempre avuto bisogno anche per trovare, nella molteplicità dei loro interessi concorrenti, una mediazione che le unifichi. Ma quando una fetta significativa di borghesie opera a livello internazionale, senza talvolta nessun paese base di riferimento, come può risolvere questi problemi? Del tutto astrattamente dovrebbe esistere uno Stato mondiale, e a cavallo degli anni ‘990 e 2000, sospinti dall’entusiasmo per la cosiddetta globalizzazione, alcuni naïf credettero veramente fosse possibile. Il problema fondamentale è che il mercato mondiale, lungi dall’essere limitato al solo interscambio commerciale tra paesi, include il complesso dei vari mercati nazionali, ed è strutturato come complesso di Stati, è mediato dalle entità statali; cioè non è possibile separare “il capitale” con una logica “economica” e “lo Stato” con una dimensione “politica”[19]. In altri termini: senza una molteplicità di Stati il sistema sociale basato sul capitale non potrebbe esistere. Al di là delle fantasie sullo Stato mondiale la risposta concreta ed empirica che le borghesie adottarono fu quella di creare ampie zone di libero scambio, e nel caso dell’Europa di avviare un processo di unificazione monetaria, con gli accordi di Maastricht del 1991, e tendenzialmente di unificazione politica. Non era certo “la” soluzione del problema dell’internazionalizzazione del capitale, che in assoluto è irresolubile, ma almeno sarebbe stato un passo avanti rispetto alla situazione preesistente. E non fu un gentlemen’s agreement, ma fu una scelta drammatica presa a fronte di una crisi di regime politico, una crisi storica dello Stato borghese nazionale, senza precedenti nei cinquant’anni precedenti, e il cui sintomo più eclatante fu il crollo del sistema politico italiano[20]. La misura del fallimento di questo processo di unificazione europea è esemplificata dal suo approdo finale, il Trattato di Lisbona del 2007, che risuscita Kardelj riprendendo quasi alla lettera la Costituzione jugoslava del 1974, proprio quella che non solo non impedì la disgregazione jugoslava quindici anni dopo, ma che fu una tappa importante di questo stesso processo di disgregazione[21]. Tra fantasie, crisi e fallimenti le borghesie non hanno avuto molto da rallegrarsi.

Il “sistema di stati” nato a Yalta escludeva buona parte del mondo dal mercato mondiale, e un’altra quota importante ne venne poi esclusa per decenni con la rivoluzione cinese, ed eleggeva Washington alla naturale direzione del blocco “occidentale”. Direzione naturale alla fine della seconda guerra mondiale, per l’incontestato e incontestabile dominio economico e politico che gli Usa avevano a livello mondiale, meno naturale quando iniziò il suo declino economico; ma anche così la guerra fredda mantenne Washington nel suo ruolo grazie al dispositivo militare di cui disponeva, l’unico a poter rivaleggiare con quello del “blocco orientale”. Questa situazione di “congelamento” nella gerarchia internazionale occidentale venne a cadere con la caduta del Patto di Varsavia. Al tempo ci si illudeva che la vittoria nella guerra fredda avrebbe ridato lustro agli Usa, e in parecchi ci credettero dopo il breve e sanguinoso “canto del cigno” della prima guerra irachena del 1991. Che invece non tutto andasse per il meglio sarebbe dovuto esser chiaro considerando che dopo il crollo dei paesi dell’est non vi fu nessuna ondata di investimenti occidentali per trarre profitto dei nuovi mercati: vi fu certo l’incorporazione della Repubblica democratica tedesca nella capitalista Repubblica federale tedesca, una incorporazione che risultò costosissima (e non certo finalizzata al benessere dei tedeschi orientali), un afflusso di investimenti in Ungheria, che in realtà era iniziato già dagli anni ‘980, e la cancellazione del debito estero della Polonia. Praticamente nulla di più. La fine della guerra fredda tolse dal piedistallo Washington, che non aveva le risorse né per sfruttare i nuovi mercati, né per riguadagnare una preminenza economica persa da tempo. Come se non bastasse gli Stati Uniti decisero di far propria la dottrina militare dei loro ex avversari sovietici, riuscendo a trasformare in catastrofi le loro successive avventure militari in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003 – ma già vi era stata una avvisaglia con l’inglorioso ritiro dalla Somalia nel 1994[22]. Gli Stati Uniti riuscirono nella non facile impresa di neutralizzare l’unico reale fattore di supremazia che restava loro, quella militare. Si può ben riferire al ruolo e all’attività internazionale statunitense dagli anni ‘980 a oggi il dilemma che Roberto Franzosi attribuiva al movimento operaio italiano: “La storia è piena di opportunità perse, altre sfortunatamente colte, e occasionali successi. Che fare?”[23].

Il mercato mondiale è gerarchico, e gli attori che hanno strumenti economici, politici e militari per tentare di modificare questa gerarchia sono gli Stati; ma cosa succede quando chi sta in cima decade e nessun altro prende il suo posto? La conflittualità economica, politica e militare si incrementa, nella misura in cui si incrementano le opportunità e i rischi; all’ordine del giorno vi sono difficili scelte strategiche, e ciascuno si azzarda a dare la propria risposta. Gli Stati lottano per mantenere il proprio relativo predominio o per difendere la propria posizione subordinata dagli attacchi altrui o per ampliare il proprio peso specifico nel mercato mondiale; cercano di perseguire i propri interessi sostanziali, relativi a fini che intendono massimizzare, ma più spesso si ritrovano a dover perseguire interessi prudenziali, volti alla autopreservazione. E tra le misure prudenziali devono essere incluse le avventure all’estero intraprese per uscire da uno stallo interno, per smobilitare forze sociali e politiche che vengono percepite come delle minacce – si è visto che questo fu uno degli aspetti all’opera nelle guerre jugoslave. Dopo il 1989-1991 non vi è alcun “sistema di Stati” stabile. Ogni Stato risponde alla struttura sociale di cui è l’espressione, l’ “escrescenza”, e ogni Stato si differenzia dagli altri per la sua storia, per la sua relativa stabilità o instabilità interna, per il peso specifico di particolari frazioni borghesi e per quello di classi di origine non borghese; la moltiplicazione di Stati in ultima analisi capitalisti ma non per questo meno ibridi e “mostruosi” aggiunge varietà alla varietà. Ha ragione Benner quando afferma che “le propensioni antagoniste nel sistema interstatale sono relative alle loro specifiche strutture sociali, e non alla pluralità degli Stati”[24]. Le propensioni antagoniste nel sistema interstatale successivo al 1989 si sono incrementate. La “crisi di direzione borghese” altrettanto.

Negli anni convulsi tra il 1989 e il 1991 tutte le borghesie internazionali erano terrorizzate per quello che sarebbe potuto accadere in Europa orientale, considerando tra l’altro i rischi derivanti dall’arsenale nucleare sovietico, il cui destino non era predeterminato. La loro unica parola d’ordine era “stabilità”. Su questo altare avrebbero sacrificato qualsiasi cosa, e avrebbero preferito uomini forti anche se “comunisti” ovunque, in Urss, in Polonia, in Cecoslovacchia, in Ungheria, in Jugoslavia[25]. Ma non erano loro a governare i processi che si stavano svolgendo, con conseguenze inattese – per cui il loro supporto incondizionato a Slobodan Milošević, in nome della stabilità e del mantenimento della Federazione jugoslava, ebbe esattamente l’effetto opposto a quello desiderato[26]. Con l’inizio della guerra bosniaca la politica internazionale si frammentò, con crisi, divergenze, risposte ad hoc contraddittorie con quelle precedenti, che portavano a conseguenze inattese e conseguenti nuove risposte ad hoc incongruenti con quelle passate, dichiarazioni senza rapporto con quello che si era disposti a fare, e azioni che andavano in direzione opposta alle parole appena pronunciate. Vi fu chi optò per l’inazione: Peter Tarnoff, sottosegretario di Stato di Clinton, disse all’inizio del 1993 che gli Stati Uniti non avevano né l’influenza, né l’inclinazione, né il denaro per intraprendere una qualsiasi azione militare in Bosnia; e Warren Christopher, segretario di Stato, disse poco dopo che la Bosnia era “una palude” e un “problema infernale”, da cui rimanere ben distanti. L’ironia è che queste alte personalità statunitensi facevano queste dichiarazioni dopo che Clinton era stato eletto con un programma di intervento militare in Bosnia per fermare le atrocità commesse dall’esercito serbo, programma confermato a parole anche dopo la sua elezione[27]. Gli inglesi proseguivano imperterriti nella loro politica di sostegno a Belgrado, pur esibendo una facciata di totale imparzialità[28], mentre i francesi riuscivano a dire, e fare, di tutto un po’, facendo proprie le infiammate parole antiserbe di Clinton e operando nei corridoi diplomatici al seguito della Gran Bretagna. I tedeschi si erano ritirati e lasciavano fare agli altri. Gli italiani erano formalmente fuori dai giochi, cercavano inutilmente di rientrarvi, ma nel frattempo giocavano la carta di una intelligence nella regione balcanica tra le migliori in Occidente e coltivavano buoni rapporti con Sarajevo[29]. I problemi posti dal conflitto bosniaco erano obiettivamente difficili, tutti avevano una propria soluzione, ma tutti avevano anche difficoltà insormontabili a implementarla. Il groviglio di interessi sostanziali e prudenziali, a livello nazionale e internazionale, portò a una situazione che è stata definita “kafkiana”. Il risultato finale fu che coloro che avrebbero voluto una Bosnia indivisa, non sapevano come fare o se lo sapevano non potevano farlo; e chi non voleva una Bosnia indivisa si scontrava con le molteplici opzioni che questa divisione comportava. Bosnia divisa dunque, naturalmente secondo il “principio etnico”, ma quale e come? I vari piani seguirono i mutevoli rapporti di forza sul terreno, e così nel corso dei mesi e degli anni si succedettero quelli di José Cutileiro, di Vance-Owen, di Owen-Stoltenberg e del Gruppo di contatto.

Il 1989-1991 non è stato l’inizio di una marcia trionfale borghese, ma l’approfondimento di una crisi non solo economica, ma sociale, ideologica, morale. Nella borghesia si ebbe l’estensione incontrollabile della corruzione, la diffusione di sistemi ideologici irrazionali, il rinascere del razzismo biologico, l’emergere di personalità talvolta solo mediocri, tal’altra semplicemente squallide. Ma questa crisi ideologica e morale colpì anche la classe dei lavoratori: già dagli anni a cavallo tre il ‘980 e il ‘990 tra lo strato più povero dei lavoratori iniziò a far presa il razzismo, e talvolta anche il fascismo; progressivamente iniziò a erodersi in alcuni settori una mentalità di massa affermatasi nei decenni di ascesa del movimento operaio, una mentalità che rifiutava di considerare le gerarchie sociali come “naturali”. In questo quadro di progressiva disgregazione sociale, e di timori da parte borghese di un improvviso risveglio operaio, in tutta Europa si fece strada l’opzione verso degli Stati autoritari, ma è in Italia dove la pressione perché si voltasse radicalmente pagina fu più clamorosa. Tra il 1992 e il 1994 l’Italia conobbe il totale collasso del suo sistema politico, e la mafia avviò una stagione stragista senza precedenti […]

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[1] Si v. C. Samary, East Europe: Revisiting 1989’s Ambiguous Revolutions, in: Vicken Cheterian (ed), From Perestroika to Rainbow Revolution, London, Hurst Publ., 2013.

[2] Si v. Intervista a Mandel sulla natura dell’URSS, Critica comunista 1981 (10) [il testo è datato 1977]; Mandel, Once again on the Trotskyist definition of the social nature of the Soviet Union, Critique 1979/80 (12); Samary, Les conceptions d’Ernest Mandel sur la question de la transition au socialisme, in: Gilbert Achcar (sous la direction de), Le marxisme d’Ernest Mandel, Paris, PUF, 1999 [i contributi al volume sono datati 1996].

[3] Marx, Critica al programma di Gotha; mi permetto di rinviare al mio saggio “Marx, Engels e la Germania guglielmina” (di prossima pubblicazione).

[4] Su tutto questo periodo e sull’importanza di una opzione di un “potere democratico plebeo dal basso” si v. Darko Suvin, Splendour, misery, and possibilities: an X-ray of socialist Yugoslavia, Leiden, Brill, 2016 [una prima versione in serbocroato era stata pubblicata nel 2014 a Belgrado].

[5] Si v. Susan L. Woodward, Socialist Unemployment. The Political Economy of Yugoslavia, 1945-1990, Princeton, Princeton University Press, 1995.

[6] Questi scioperi erano talmente popolari che dal 1988 la burocrazia serba sotto la direzione di Slobodan Milošević ne usò ai propri fini una parodia: fu la cosiddetta “Rivoluzione antiburocratica”, che consisteva di manifestazioni finalizzate a far dimettere le frazioni burocratiche ostili a Milošević. Inutile dire che non sollevarono solidarietà, ma solo timori. Ufficialmente si trattava di lavoratori in sciopero, in realtà venivano regolarmente pagati come fossero al lavoro e ottenevano un extra in sovrappiù per i servigi resi. Uno dei leader della “Rivoluzione antiburocratica” fu successivamente a capo di una formazione militare serba che si distinse nelle operazioni di pulizia etnica.

[7] Si v. Branka Magaš, The Destruction of Yugoslavia. Tracking the Break-up 1980-1992, London, Verso, 1993. La burocrazia serba sotto la direzione di Slobodan Milošević aveva lanciato dal 1987 una isterica campagna antialbanese, denunciando un preteso “genocidio” dei serbi ad opera degli albanesi. Questa campagna includeva una ossessiva denuncia di pretesi stupri commessi da uomini albanesi ai danni di donne serbe, allorquando l’incidenza dei reati di stupro in Kosovo era la metà di quella in Jugoslavia (e meno della metà di quella in Serbia), e i casi in cui il violentatore era albanese e la vittima era serba o montenegrina costituiva il 9,6% del totale; tra il 1987 e il 1989 non se ne registrò neppure un solo caso.

[8] Si v. Valère Philip Gagnon, The myth of ethnic war: Serbia and Croatia in the 1990s, Cornell, Cornell University Press, 2004.

[9] Darko Suvin, op. cit.

[10] [Ernest Mandel], Socialisme ou barbarie au seuil du XXIème siècle, Supplément à Inprecor n. 371, juillet 1993 [testo datato 1992].

[11] Intervista a Mandel sulla natura dell’URSS, Critica comunista, 1981 (10) [testo datato 1977].

[12] Sulle curve storiche degli scioperi e sui dibattiti sui cicli della lotta di classe mi permetto di rinviare al mio saggio “Un secolo di scioperi. Note di lettura” (2008).

[13] Ernest Mandel, Croissance économique et lutte de classe, Critique communiste: revue théorique, 1979 (29).

[14] Ernest Mandel, Situazione e futuro del socialismo, Il socialismo del futuro: rivista di dibattito politico, 1.1990 (1).

[15] Ernest Mandel et Abraham Serfaty, Débattre du projet socialiste, Bruxelles, Fondation Léon Lesoil, 1993.

[16] Roberto Franzosi, The Puzzle of Strikes. Class and State Strategies in Postwar Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1995.

[17] Aggiungo la classica formula “in ultima istanza” a fini prudenziali. Nella mia analisi mi limito alla parabola del movimento operaio nell’Europa occidentale, mentre non considero quella della società dell’Europa orientale. Questo pone problemi difficili nell’analisi, in quanto se la “crisi del socialismo” in Europa occidentale era facile da misurare, considerando l’attività autonoma della classe dei lavoratori, i percorsi delle loro organizzazioni sindacali e politiche, la possibilità di percepire aspirazioni, umori, sentimenti di massa in una situazione di totale libertà d’espressione, questo a est si scontrava con l’assenza di vere organizzazioni di classe e con l’assenza della libertà di riunione, di stampa, ecc., in una situazione di “vita operaia” ben diversa da quella dei paesi capitalisti (assenza del mercato del lavoro, assenza della pressione nella produzione ai fini del profitto). Secondo alcuni studiosi, profondi conoscitori dell’Europa orientale (e penso che anche Mandel avrebbe sottoscritto), una “crisi del socialismo” a est sarebbe iniziata dopo la “primavera di Praga”, dall’inizio degli anni ‘970, e l’esplosione polacca del 1980-1981 sarebbe stata un’eccezione strettamente nazionale. In questa visione vi sarebbe stata una sorta di interscambio tra est e ovest. Personalmente ho la sensazione che comunque il fattore decisivo fu quello della dinamica operaia a ovest della cortina di ferro, ma sono anche convinto della necessità di un approfondimento collettivo di questo aspetto.

[18] “La re-privatizzazione del denaro è una cosa inaudita nella storia del capitalismo. Bisogna tornare al XVII secolo per trovare qualcosa di simile” [Ernest Mandel, Chaos as Capital Runs out of Control, Socialist Outlook, 1992 (32)].

[19] È desolante vedere quanti marxisti, tra i più rinomati a livello internazionale, voltino le spalle a Marx ignorando queste semplici verità. Mi permetto di rinviare al mio saggio “Mercato mondiale e sistema di Stati. Note in margine a un dibattito” (di prossima pubblicazione).

[20] Si v. [Claude Jacquin], Rapport sur la situation politique en Europe impérialiste, Inprecor, février 1996, hors série.

[21] Si v. Robert M. Hayden, From Euphoria to EU-Goslavia, in: Robert M. Hayden, From Yugoslavia to the western Balkans: studies of a European disunion, 1991–2011, Leiden, Brill, 2013.

[22] Si v. Jacques Sapir, Le nouveau XXIe siècle et la question militaire, in: Jacques Sapir, Le nouveau XXIe siècle. Du siècle « américain » au retour des nations, Paris, Seuil, 2008.

[23] Roberto Franzosi, op. cit.

[24] Erica Benner, Really Existing Nationalisms. A Post-Communist View from Marx and Engels, Oxford, Clarendon Press, 1995.

[25] Una tesi risibile, anche solo dal punto di vista logico, è quella per cui la disgregazione della Jugoslavia sarebbe stata in larga parte una conseguenza degli “affrettati riconoscimenti”, da parte della Germania, delle secessioni di Croazia e Slovenia dalla Federazione jugoslava, ma per la sua semplicità disarmante continua ad avere i suoi accoliti. La falsità storica di questa tesi è stata più volte esposta: si v. ad es. Andrea Ferrario, La Germania, la Gran Bretagna e la disgregazione della Jugoslavia (1999) e, da ultimo, Josip Glaurdić, Yugoslavia’s Dissolution: Between the Scylla of Facts and the Charybdis of Interpretation, in: Florian Bieber, Armina Galijaš & Rory Archer (eds), Debating the end of Yugoslavia, Farnham, Ashgate, 2014.

[26] Si v. Josip Glaurdić, The Hour of Europe: Western Powers and the Breakup of Yugoslavia, New Haven, Yale University Press, 2011.

[27] Si v. Wayne Bert, The reluctant superpower: United States’ policy in Bosnia, 1991-95, London, Macmillan, 1997.

[28] Si v. Carole Hodge, Britain and the Balkans: 1991 until the present, New York, Routledge, 2006.

[29] Alcuni rivelatori accenni al ruolo dell’intelligence italiana si ritrovano in Cees Wiebes, Intelligence and the war in Bosnia 1992 – 1995. The role of the intelligence and security services, Appendix II to: NIOD (Dutch Institute for War Documentation), Srebrenica, a ‘safe area’, Amsterdam, 2002. Un quadro generale della politica estera italiana verso l’ex Jugoslavia è rintracciabile in Massimo Bucarelli, L’Italia e le crisi jugoslave di fine secolo (1991-1999), in: F. Botta F. & I. Garzia (a cura di), Europa adriatica. Storia, relazioni, economia, Bari, Laterza, 2004, poi rifuso in Massimo Bucarelli, La «questione jugoslava» nella politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1999), Roma, Aracne, 2008.