Liberi fischi…

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Liberi fischi in libero Stato…

 

Non ricordavo questa battuta attribuita oggi a Sandro Pertini, ma la condivido. Confesso di aver partecipato a non poche contestazioni a burocrati sindacali, in cui volavano anche i bulloni…

Quello che è indecente è che per un petardo lanciato contro Bonanni alla Festa del PD di Torino da una sola persona, di cui sappiamo anche nome, cognome, età (22 anni), e di cui possiamo presumere che probabilmente non si rendeva neppure conto del favore che stava facendo a coloro che voleva contestare, non si è parlato dei fischi generalizzati anche da parte di anziani operai, e non si è parlato soprattutto della gravissima provocazione di Federmeccanica: la disdetta anticipata del contratto del 2008 (su questo rinvio alla Dichiarazione di Turigliatto sul sito di Sinistra critica).

Bonanni ha così trovato un altro pretesto per tentare di mettere definitivamente al bando la FIOM, considerata il nemico assoluto. ,Dal suo punto di vista di burocrate al servizio di padronato e governo, ha ragione: la FIOM ha ai suoi occhi la “colpa” di aver mantenuto vivo un discorso di classe, e di non aver accettato l’abbraccio permanente con i padroni, in un mondo in cui i capitalisti non hanno smesso per un solo istante di praticare la lotta di classe.

Tra l’altro anche dalla Stampa, giornale padronale ma intelligente, al di là dei commenti nel coro, si capisce che i contestatori erano molti di più dei 30 di Askatasuna, e che il lancio del petardo, ancorché sciocco, è stato fatto dopo che le guardie del corpo di Bonanni avevano lanciato una sedia. Su una cosa sola il PD ha ragione: la polizia è stata ad aspettare che scoppiasse l’incidente, grazie alla provocazione dei burocrati della CISL. Letta avrebbe invece voluto che intervenisse prima. E tutto il PD continua a chiedere un maggior impegno delle forze dell’ordine, e a evocare lo spettro della guerra civile.

Non spiegano però cosa dovevano fare i poliziotti. Tenere fuori tutti gli operai? Già sono in pochi alle feste del PD… Si direbbe che il PD si stia impegnando attivamente per avere una batosta ancora più grande alle prossime elezioni. Tanto più che, anche senza il petardo, sono bastati un po’ di fischi e lo slogan “Fuori la mafia dallo Stato” per scatenare Fassino anche contro i contestatori di Schifani. I nemici non sono i mafiosi, ma i “teppisti violenti” che li contestano! Anche se non sono violenti per niente, e si limitano a fischiare…

È passata in secondo piano un’altra contestazione, meno rumorosa, quella dei familiari di Dalla Chiesa, che non hanno voluto partecipare alle commemorazioni del generale assassinato dalla mafia (o da qualcun altro), per non trovarsi a fianco gli amici e gli avvocati degli assassini. Il PD c’è andato, naturalmente…

Colpisce tra l’altro che il PD (che se ci tiene tanto al pluralismo poteva invitare la FIOM invece di far "discutere" Bonanni con Letta, che oltre a tutto la pensano allo stesso modo) non sia neppure più capace di difendere la sua festa dai contestatori come faceva una volta (sia chiaro, non ne ho certo nostalgia, ovviamente), e deve implorare un più duro e preventivo intervento dei manganelli.

È mai possibile che il PRC, che magari si dissocia ogni tanto da qualche “eccesso” di Letta o Fassino, continui ad ambire a un’intesa con questo partito forcaiolo?

 

P.S. Qualcuno dei più vecchi compagni confluiti nel PD dal PCI si ricorda di Piazza Statuto? Quei contestatori allora furono definiti tutti “provocatori”. Quanto ha pesato nel progressivo scollamento tra PCI e lavoratori? Anche allora si parlava di isolamento della FIOM, e c’erano sindacati padronali che firmavano accordi separati…  Allora era soprattutto la UIL, e la FIM Cisl a Torino e nel nord era stata spinta a sinistra e lottava insieme alla FIOM. Oggi la CISL è un pezzo importante dell’offensiva padronale, ed è sacrosanto gridare in faccia a Bonanni: Venduto!

Penso sia utile riportare un brano su Piazza Statuto tratto dal terzo capitolo (di Diego Giachetti) del libro collettivo: Cento e uno anni di FIAT. Stava già sul sito, ma può essere utile rilanciarlo (oltre a tutto il libro è stato visitato meno di quanto meriterebbe…).

 

(a.m. 9/9/10)

 

 

Vizi antichi: i “provocatori” di Piazza Statuto…

 

In questo contesto lo sciopero del 6 febbraio 1962 indetto dalla FIOM torinese in tutto il gruppo Fiat per appoggiare una piattaforma rivendicativa che chiedeva le 40 ore settimanali, il sabato festivo, 70 lire di aumento salariale, contrattazione dei tempi e degli organici, rivalutazione delle qualifiche, si rivelava un insuccesso. Così pure lo sciopero nazionale del 13 giugno, indetto alla Fiat solo dalla FIOM e dalla FIM e ostacolato dagli altri due sindacati, UILM e SIDA, falliva nuovamente. Solo il 19 giugno si rompeva il ghiaccio. Durante lo sciopero nazionale restavano fuori dagli stabilimenti Fiat 2000 operai del primo turno che formavano dei picchetti per convincere quelli del secondo turno a non entrare in fabbrica. Alla fine della giornata si valutava in circa 7000 il numero dei partecipanti allo scioperi. Una cifra ancora esigua rispetto alle migliaia di lavoratori che non avevano scioperato, tuttavia espressione di un’avvenuta inversione di tendenza. Era un avvenimento eccezionale, scrisse il dirigente comunista Lorenzo Gianotti perché non si trattava più di avanguardie isolate, ma di una “minoranza di massa” composta non solo dal vecchio nucleo operaio che aveva resistito alla repressione, ma da “gruppi di giovani, non collegati in buona parte alle organizzazioni sindacali, riunitisi in forme spontanee tra di loro” [Lorenzo Gianotti, Trent’anni di lotte alla Fiat (1948-1978), Bari, De Donato, 1979, p. 134].

.A questo punto, finalmente, le adesioni allo sciopero successivo del 23 giugno furono numerose, circa 60 mila lavoratori, tra i quali alcuni impiegati non del tutto spontaneamente consenzienti. Esultavano i sindacati, in particolare FIOM e FIM, reagiva con rabbia la direzione aziendale condannando, sulle pagine de “La Stampa”, gli scioperi che danneggiavano la produzione, provocavano disordini, impedivano di rispettare il rispetto delle curve di produzione e la consegna della auto già prenotate dai vari committenti e criticando la polizia perché non era riuscita a tutelare, davanti ai cancelli, durante il picchettaggio, la “libertà di lavoro” dei dipendenti. Ma, accanto a questa reazione, la direzione e lo stesso Valletta premevano sulla Confindustria perché fosse meno intransigente nelle trattative in corso coi sindacati, si dichiaravano disposti a chiudere al più presto il contratto, facendo alcune concessioni e inserendo il loro operato all’interno dell’azione modernizzante e riformatrice del nascente centro sinistra che il padronato torinese targato Fiat appoggiava esplicitamente in contrasto coi settori più conservatori della borghesia industriale italiana.

Il 4 luglio, vista l’interruzione delle trattative tra Confindustria e sindacati, venivano proclamate una serie di agitazione per i giorni seguenti. Contemporaneamente la Fiat si diceva disposta ad aprire un confronto, per chiudere a livello aziendale la vicenda contrattuale, coi “liberi sindacati”, ovvero UIL, SIDA e CISL, con esclusione della CGIL. La CISL rifiutava, UIL e SIDA vi partecipavano e concludevano un accordo separato. Subito divampava la polemica tra i sindacati, “La Stampa” titolava UIL e SIDA si accordano con la Fiat e invitano gli operai a non scioperare, in fabbrica decine di aderenti ai due sindacati strappavano le tessere con rabbia, per protesta.

Lo sciopero del 6 luglio riusciva completamente nei vari stabilimenti Fiat. Spontaneamente alla SPA Stura un corteo di circa seicento operai lasciava la fabbrica e si dirigeva verso Piazza Statuto, collocata al centro della città, dove risiedeva la sede della UIL per protestare contro l’accordo appena firmato. Fra i partecipanti alla manifestazione molti erano gli iscritti a quel sindacato, sdegnati da un comportamento che non condividevano affatto. Giunti in piazza si radunavano sotto la sede della UIL, fischiavano e urlavano contro il “contratto bidone” e contro alcuni sindacalisti, tentavano di penetrare all’interno della sede, altri lanciavano pietre contro le finestre. Intanto una folla di curiosi, fatta anche di giovani meridionali che abitavano nelle vie limitrofe, si radunava per assistere allo spettacolo.

Fischi, urla e pernacchie si levavano quando arrivava la polizia, applausi invece per gli operai raccolti sotto la sede della UIL. Nel primo pomeriggio avveniva la prima carica per disperdere i dimostranti e la folla che si era radunata per guardare. Era l’inizio di una serie ripetuta di scontri che si protrassero per tre giorni avendo come epicentro Piazza Statuto. I dimostranti si ritiravano nelle vie laterali, scappavano a piccoli gruppi in direzioni diverse; poi, quando la polizia ritornava al centro della piazza, ricomparivano.

A nulla valsero i tentativi fatti dai dirigenti della Camera del lavoro, tra cui Sergio Garavini, o del PCI, come Giancarlo Pajetta giunto appositamente da Roma, per convincere i manifestanti a sciogliersi e a ritirarsi dalle vie adiacenti la piazza. Gli scontri, che erano iniziati il sabato pomeriggio, si protrassero per altri due giorni e cessarono del tutto solo alle due di mattina di martedì 10 luglio. In tre giorni di scontri 1251 persone erano state fermate, 90 erano state arrestate e processate per direttissima, un centinaio denunciate a piede libero, 169 gli agenti feriti.

Comprendere ciò che era accaduto in quei giorni non era facile. Sindacati e partiti di sinistra, dopo un abbozzo di analisi, cedettero facilmente al ricorso a vecchie categorie da Sant’Uffizio attribuendo la causa di tutto ai “facinorosi”, ai “provocatori” agli elementi “che nulla avevano a che fare con la classe operaia”, ai “gruppuscoli estremisti” e via di seguito fino a giungere a sostenere che la manifestazione, da un certo punto in poi, era stata alimentata da elementi fascisti. Quanto era accaduto rifletteva la situazione nuova che si era venuta a creare dentro la fabbrica, con la massiccia immissione di nuovi lavoratori dequalificati, e nella città. Una città la cui composizione popolare e di classe risultava profondamente mutata a causa della massiccia immigrazione meridionale che aveva occupato quartieri fatiscenti del centro storico, dove centinaia di famiglie e di giovani meridionali vivevano in condizioni simili a quelle del proletariato londinese raccontate da Engels nel saggio sulla Questione delle abitazioni e denunciate all’epoca in un importante libro inchiesta pubblicato da Feltrinelli, L’immigrazione meridionale a Torino, scritto da Goffredo Fofi. Un nuovo proletariato, separato anche linguisticamente da quello tradizionale della città che parlava piemontese anche nelle sue istituzioni sindacali (Camera del lavoro) e partitiche, si accumulava nei quartieri portandosi dietro una rabbia e una tensione incapace di orientarsi e incanalarsi verso le tradizionali forme organizzative del movimento operaio. Va anche detto che l’atteggiamento di sufficienza e di condanna verso questi strati sociali, considerati alla stregua di sottoproletari, selvaggi, incolti, marginali, manifestato dalle organizzazioni sindacali e della sinistra torinese nei confronti di quella rivolta di piazza non facilitava certamente l’incontro e la presa di contatto. Averli etichettati come provocatori fascisti, come elementi facilmente preda dei loro istinti violenti e aggressivi non contribuiva certo a favorire la loro presa di coscienza, così scriveva un comunista torinese, Renzo Gambino, purtroppo una voce isolata.1

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[1] Cfr. Renzo Gambino, Le esperienze della lotta dei metalmeccanici torinesi, “L’unità”, 10 novembre 1962. Su questo episodio e sul giudizio dato a caldo dai sindacati e dalla sinistra torinese Vittorio Foa, ad esempio, fece in seguito autocritica riconoscendo che la posizione del sindacato allora fu “netta e sbagliata” e che Piazza Statuto fu in qualche modo “il preannuncio della protesta del 1968” (Il Cavallo e la torre, Einaudi, Torino, 1991, p. 260). Giorgio Benvenuto nel 1971 arriverà a dire che “la rivincita dei lavoratori italiani inizia a Piazza Statuto a Torino” (Le tappe di sviluppo del processo unitario fra i metallurgici, in “Quaderni di rassegna sindacale”, n. 29, 1971. Su Piazza Statuto vedi il libro di Dario Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto, Feltrinelli, Milano, 1979.