L’intervento di Mosca in Siria e la crisi interna della Russia

 

di Andrea Ferrario

crisiglobale

 

Il recente avvio di operazioni di bombardamento sulla Siria da parte della Russia è stato accompagnato sulla stampa mondiale da una valanga di commenti, che però ne affrontano quasi esclusivamente le possibili conseguenze a livello geopolitico. In questo articolo evidenziamo invece gli evidenti nessi tra la situazione economica e politica interna della Russia e questo suo nuovo intervento militare, analizzando inoltre l’escalation dell’attività diplomatica di Mosca in Medio Oriente a partire dai primi mesi del 2015.

Un’economia in profonda recessione

Nel 2015 la Russia è entrata in un periodo di forte recessione, che si era profilato all’orizzonte già con la forte frenata dell’autunno 2013, quando è diventato chiaro che l’unico fattore in grado di porre un freno all’inevitabile recessione economica era la rendita generata dal petrolio e dal gas. Nel 2013 si erano già avviati anche altri sviluppi che avrebbero poi raggiunto il loro culmine l’anno successivo, come la svalutazione del rublo e la fuga di capitali. E’ da allora che la maggior parte degli esperti russi ha messo in luce l’inevitabilità dell’inizio a breve termine di una recessione e che lo stesso Cremlino ha dovuto prenderne atto, sebbene tacitamente. In particolare, fin da allora è diventato palese che il tentativo di Putin di creare un’economia più moderna e meno vincolata alla rendita energetica, integrando la Russia a pieno titolo nel capitalismo sviluppato mondiale (tentativo al quale avevano fatto da pendant in passato notevoli e bene accolte aperture verso l’occidente, in particolare ai tempi della “guerra contro il terrorismo”), era miseramente fallito. La guerra contro l’Ucraina, seppure certamente non motivata solo da fattori interni, ha soddisfatto tra le altre cose una necessità impellente del regime di Putin in tale contesto, cioè quella di serrare le fila nel paese e proiettare un’immagine forte e autorevole di , sviando l’attenzione dalla crisi in cui stava precipitando. I vantaggi che Putin e il suo sistema di capitalismo oligarchico ne hanno tratto sono stati notevoli, e senz’altro di gran lunga maggiori rispetto al prezzo pagato.

In particolare le sanzioni occidentali contro la Russia si rivelano, a più di un anno di distanza, un fattore che non ha colpito la Russia in modo rilevante. In “Crisi Globale” avevamo già formulato circa un anno fa il commento che la loro portata non era tale da costituire un problema essenziale per il Cremlino e gli sviluppi successivi ci hanno dato ragione. Le sanzioni alle banche sono infatti aggirabili e ne è una dimostrazione che nemmeno in una fase come quella nel novembre-dicembre 2014, in cui il sistema finanziario russo è stato scosso dalla caduta libera del rublo, si sono registrati fallimenti di banche o altri tipi di crack. In realtà il governo è riuscito a tappare la falla senza troppi problemi utilizzando proprio strumenti finanziari. Lo stesso vale per l’altra tipologia di sanzioni, quella che riguarda le tecnologie per la ricerca petrolifera e le alte tecnologie passibili di uso anche militare. Le prime avrebbero potuto avere qualche conseguenza a lungo termine in un contesto di economia mondiale in ascesa, ma in quello attuale di stagnazione o crisi l’applicazione di tali tecnologie ha registrato un crollo a livello mondiale a prescindere dalle sanzioni, che pertanto anche in questo caso sono pressoché ininfluenti. Le seconde sono rese scarsamente incisive dal fatto che la Russia persegue attualmente strategie militari diverse da quelle dell’occidente e che non si basano su un’incessante innovazione tecnologica, bensì su forme di guerra ibride, che sembrano tra l’altro rivelarsi più efficaci nei loro esiti di quelle occidentali. Il fattore che invece ha avuto un’enorme rilevanza per la Russia è stato quello del crollo dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime. Anche in questo caso si tratta di però di uno sviluppo che senz’altro al Cremlino avevano messo in conto, visto che prezzi sui 100 dollari al barile erano del tutto irreali in un contesto di crisi mondiale. A tale proposito le teorie cospirative secondo cui il prezzo del petrolio sarebbe stato abbassato ad arte l’inverno scorso allo scopo di mettere in ginocchio Mosca appaiono pretestuose visto il crollo sistematico registrato sui mercati mondiali da tutte le materie prime in conseguenza della crisi dei paesi emergenti, della stagnazione europea e del rallentamento cinese (le importazioni della Cina sono da lungo tempo in caduta libera e a fine settembre registravano un crollo di addirittura -24% anno su anno).

Oggi la Russia si trova in una situazione di  crisi economica gravissima. Secondo i dati ufficiali pubblicati a fine agosto, il Pil russo è in calo del 4,6% rispetto all’anno scorso, un vero e proprio tracollo. La produzione industriale è scesa di oltre il 3% anno su anno, quella del settore della lavorazione supera addirittura il -7%. Gli investimenti in beni capitali sono in calo di oltre il 6% e il saldo commerciale con l’estero è ancora positivo (+8,5 miliardi di dollari), ma si è quasi dimezzato (-47,5%) rispetto all’anno scorso. Gli stipendi reali sono calati del 9% nel giro di un solo anno, a causa anche dell’inflazione che viaggia oltre il 10% ed è prevista in ulteriore ascesa. In questa situazione non c’è da meravigliarsi quindi che il commercio al dettaglio abbia registrato una flessione superiore all’8% rispetto all’anno scorso. I russi, per riassumere, stanno molto peggio rispetto a solo un anno fa.

 

L’escalation mediorientale di Mosca e il suo intrecciarsi con gli sviluppi interni

Secondo svariate fonti (per esla Reuters) la Russia avrebbe avviato i propri piani di intervento militare in Siria all’inizio dello scorso mese di luglio, immediatamente dopo la firma dell’accordo per la cancellazione delle sanzioni contro l’Iran. E’ probabile che in termini di preparativi tecnici strettamente militari sia così. Tuttavia una forte attivizzazione di Mosca sullo scacchiere mediorientale la si era registrata già all’inizio del 2015 e questo fa pensare che i preparativi politici risalgano quindi a quel periodo. Questa forte intensificazione delle attività diplomatiche di Mosca in Medio Oriente ha seguito tre direzioni principali: Iran, Egitto e Arabia Saudita.

Per tutto il periodo che va dall’inverno scorso fino a luglio la Russia ha svolto un ruolo fondamentale nella mediazione per un accordo mirato alla cancellazione delle sanzioni all’Iran. L’asse amichevole tra Russia e Iran assumeva però tratti direttamente militari quando a fine gennaio il ministro della difesa russo Sergey Shoygu  si recava a Teheran, dove firmava un accordo di assistenza militare con il suo omologo iraniano. Solo alcuni giorni dopo la visita di Shoygu a Tehran la stampa russa annunciava un’imminente importante  visita del presidente Vladimir Putin in Egitto, visita poi concretizzatasi il 10 febbraio in un  clima di calorosa amicizia  e con la firma di svariati accordi economici, tra i quali uno per l’integrazione dell’Egitto in una zona di libero scambio con l’Unione Eurasiatica. Sisi (che aveva visitato Mosca già nell’estate 2014), si è incontrato nuovamente con Putin a Mosca il 9 maggio in occasione delle celebrazioni per la fine della Seconda guerra mondiale, e ancora una volta il 25 agosto scorso con una visita alla quale i media russi hanno dato grande visibilitàper discutere di “lotta al terrorismo” e Siria.

Recentemente l’Egitto ha firmato contratti con la Russia relativi a forniture di armamenti per 3,5 miliardi di dollari (contro gli 1,3 miliardi di forniture Usa), somma il cui pagamento è stato garantito con finanziamenti dell’Arabia Saudita. Il caso del riavvicinamento tra Mosca e Ryadh è ancora più interessante, e ci porta a tornare ancora una volta ai primissimi mesi del 2015. A inizio febbraio il “New York Times” pubblicava un articolo in cui si asseriva che Russia e Arabia Saudita stavano trattando segretamente uno scambio di favori, cioè un taglio della produzione di petrolio da parte di Ryadh in modo da farne aumentare i prezzi in cambio di un abbandono di Assad da parte di Mosca. Il sito russo “Politcom”, una fonte di solito bene informatavalutava negli stessi giorni  come irreale che Russia e Arabia Saudita stessero trattando una soluzione di tale portata, ma asseriva che i due paesi avevano comunque aperto canali di comunicazione per cominciare a sondare l’eventuale individuazione di punti passibili di un compromesso, in particolare riguardo alla Siria (si veda anche l’articolo di Aleksey Makarkin in Ezhednevny Zhurnal). Queste voci sono state confermate successivamente da due eventi. A metà giugno il ministro della difesa saudita Mohammed bin Salman al-Saud visitava San Pietroburgo accompagnato da una nutrita delegazione e si faceva ritrarre mentre stringeva la mano a Putin. La sua visita era stata preparata da un viaggio a Riyadh dell’inviato di Putin per il Medio Oriente, Mikhail Bogdanov. A inizio luglio la stretta di mano tra Putin e il ministro della difesa saudita si è concretizzata con una serie di accordi senza precedenti relativiinvestimenti sauditi in Russia per 10 miliardi di dollari. Infine, è di questi giorni (l’11 ottobre, più precisamente) una  nuova visita a Mosca del ministro della difesa saudita, durante la quale si è discusso ufficialmente di Siria, di lotta al terrorismo e di collaborazione in campo militare nell’ambito di colloqui definiti amichevoli, in vista di una possibile visita a breve termine del re saudita a Moca.

Se Mosca disponeva già precedentemente in Medio Oriente di una pedina come il regime di Assad e intratteneva buoni rapporti con l’Iran, è evidente che a partire da inizio 2015 si è verificato un salto di qualità in quelli con Tehran e un’improvvisa escalation dei rapporti diplomatici con l’Egitto e l’Arabia Saudita. Per completare il quadro va infine menzionato il caso del progetto del gasdotto “Turkish Stream”, annunciato in grande pompa da Russia e Turchia nell’autunno 2014 come sostitutivo dell’ormai abbandonato progetto “South Stream”, ma che a inizio 2015 appariva già un ferro vecchio, sia per lo scarso interesse di Mosca sia perché già covavano sotterraneamente fratture tra la dirigenza turca e quella russa. Anche l’attuale difficile situazione tra Ankara e Mosca ha probabilmente radici che risalgono all’inizio del 2015.

E’ quindi evidente che già a partire da gennaio-febbraio Mosca ha cominciato a seguire una sua pista mediorientale che aveva indirettamente al suo centro la Siria, dopo che per l’intero 2014 aveva invece sbandierato come propria priorità la Cina. In realtà la serie di accordi siglati con quest’ultima l’anno scorso si sono rivelati alla fine scarsamente consistenti, come già allora avevamo previsto. La Reuters per esempio  riferisce che attualmente rimangono bloccati accordi tra i due paesi per ben 113 miliardi di dollari, senza che alcun progresso sia in vista. La profonda crisi economica in Russia, da una parte, e il momento di profonda difficoltà che sta attraversando il regime cinese, dall’altra, hanno evidentemente portato a una brusca frenata.

Per interpretare l’attuale intervento della Russia in Siria è importante non solo tenere presente che nel periodo gennaio-febbraio 2015 Mosca ha operato in politica estera una “svolta mediorientale”, ma anche mettere in relazione quest’ultima con gli altri sviluppi in cui era coinvolta la Russia in quel momento. Una rapida verifica porta subito a concludere che si trattava di un momento topico per Mosca. Il paese era appena uscito dalla crisi del rublo, che aveva rischiato un avvitamento in grado di destabilizzarlo fortemente con esiti imprevedibili, tanto più che in contemporanea c’era stato il crollo dei prezzi del petrolio dovuto allo sgonfiarsi della bolla delle materie prime. Il conflitto in Ucraina si era riacutizzato in vista del vertice di Minsk di febbraio, che però alla fine si era concluso con un compromesso positivo per Mosca, soprattutto perché aveva costituito un’occasione per il ritorno a un dialogo diretto con un occidente che ha dimostrato in quell’occasione di essere in linea di massima disponibile a importanti aperture nei confronti della Russia (Merkel era giunta addirittura a prospettare un accordo tra Unione Europea e Unione Eurasiatica per dare vita a una Europa dall’Atlantico a Vladivostok). Inoltre Mosca poteva constatare con soddisfazione di avere raggiunto tutti i propri obiettivi essenziali nella guerra contro l’Ucraina avviata nel marzo 2014: fermare il processo rivoluzionario di Maidan e i suoi potenziali effetti di contagio, porre un’ipoteca sul futuro dell’Ucraina grazie alla creazione delle “repubbliche popolari” del Donbass e aumentare il proprio peso sulla scena mondiale. I due unici prezzi importanti che Putin aveva dovuto pagare erano stati da una parte un freno al progetto di Unione Eurasiatica, poiché Bielorussia e Kazakistan hanno temuto seriamente che Mosca avesse in serbo anche per loro uno scenario ucraino, e dall’altra l’aprirsi di una frattura interna tra l’ala dei siloviki (apparati militari e di sicurezza) e quella definita come l’ala dei “liberali”, per quanto sia eufemistico in questo caso l’uso di tale termine. Questa frattura, prodottasi lontano dai riflettori e in modo non trasparente, come è tradizione al Cremlino, era stata evidenziata da due eventi: la misteriosa quanto clamorosa uccisione di Boris Nemtsov a fine febbraio e la successiva scomparsa di Putin dalla scena pubblica senza spiegazioni per dieci giorni a inizio marzo. Alla luce di quanto sopra ci sembra evidente che l’odierno intervento in Siria abbia radici che risalgono al febbraio del 2015 e affondano in larga parte anche in fattori interni alla Russia.

 

La flessibilità militare della Russia

Il regime di Putin sta ricorrendo sempre più di frequente alla guerra come strumento della propria politica internazionale. Dopo l’intervento in Georgia nel 2008, nell’ultimo anno e mezzo ha fatto ricorso all’intervento militare ben tre volte (Crimea, Ucraina orientale e Siria), in ciascun caso applicando metodi e strategie diverse. Nel caso dell’intervento militare in Crimea ha messo in atto un piano chiaramente prepianificato consistente in un blitz armato estremamente rapido e nel complesso indolore, accompagnato da mosse politiche decise e spiazzanti (occupazione militare, referendum e annessione in tre settimane, quasi un record mondiale). Il successo è stato completo: la maggioranza della popolazione locale, pure avendo subito passivamente le mosse russe, le ha alla fine accettate con favore; l’annessione ha fatto schizzare alle stelle la popolarità di Putin in Russia e ha prodotto un consolidamento della sua dirigenza; l’occidente ha di fatto avallato la mossa. Molto più travagliato è stato invece l’intervento nell’Ucraina orientale, comunque strettamente collegato a quello in Crimea. Mosca in questo caso ha prima imbastito azioni di piccoli gruppi formati da neofascisti del posto ed esponenti del sottobosco oligarchico locale, guidati da suoi agenti segreti: le occupazioni delle amministrazioni nelle grandi città, seguita dopo una settimana da attacchi di paramilitari nelle città di medie dimensioni. Visto che queste operazioni non hanno generato pressoché alcun seguito attivo tra la popolazione, ha inviato nutriti contingenti di “volontari” dalla Russia, cosa che però ha creato tra fine maggio e fine giugno una situazione molto caotica e poco controllabile, aggravata dall’avvio di operazioni militari a tutto campo da parte del governo di Kiev. Mosca ha allora messo a punto un piano militare molto abile, intervenendo direttamente in modo massiccio, anche se non ufficiale, e attirando l’esercito ucraino in una trappola mortale causandone la disfatta completa a fine agosto. Prima ancora della vittoria militare, la Russia aveva cominciato a mandare in pensione la prima dirigenza delle repubbliche fantoccio, costituita in maggioranza da suoi agenti, sostituendola con elementi locali più presentabili: segno del fatto che mentre ancora combatteva la sua guerra stava preparando il terreno per un piano di pace. Ne è una conferma che a settembre i suoi uomini (militari e non) non hanno proseguito l’offensiva fino a conquistare Mariupol e altre ampie aree, come avrebbero potuto comodamente fare. Non era la conquista di territori ampi che interessava a Mosca, ma detenere a lungo termine un’arma che mettesse sotto ipoteca l’Ucraina e rendesse il regime un interlocutore irrinunciabile dell’occidente. Si è trattato insomma di una guerra ibrida, con la quale la Russia ha usato un mix di operazioni di agenti segreti, di utilizzo di volontari irregolari, di intervento militare diretto e di mosse diplomatiche. Come abbiamo già spiegato sopra, alla fine il successo è stato ampio, e il prezzo pagato in raffronto molto basso.

Dopo questi due interventi militari reciprocamente collegati, ma di tipo differente, Mosca ha applicato un nuovo e completamente diverso tipo di intervento militare, quello dei bombardamenti aerei a sostegno dell’esercito siriano suo alleato, in uno scenario che non è più quello del “cortile di casa”, bensì quello complesso e sovraffollato del Medio Oriente. Si tratta di un intervento militare evidentemente preparato da mesi con un’intensa attività diplomatica, come abbiamo visto, e per il quale è stata effettuata una scelta dei tempi molto abile ed efficace. La reazione occidentale è stata alquanto trattenuta rispetto alla portata politica dell’evento e fin da subito si sono profilati all’orizzonte possibili compromessi sia con gli Usa che con i paesi Ue. Possibili però non vuole dire sicuri: l’estrema instabilità del contesto mediorientale attuale, così come il numero molto alto di attori coinvolti, renderanno lento e complicato ogni eventuale processo di avvicinamento. La Russia, per riassumere, non solo sta ricorrendo con frequenza allo strumento della guerra, ma si dimostra capace in questo momento di utilizzarlo con molta efficacia sia dal punto di vista militare che come strumento della propria politica interna e internazionale. Paradossalmente si può dire che Mosca lo sta usando nell’ultimo biennio con maggiore flessibilità ed efficacia rispetto ai paesi occidentali.

Le motivazioni della Russia e lo sconsiderato entusiasmo per la “multipolarità”

La motivazione più apparente, e sicuramente reale, dell’avvio dei bombardamenti russi in Siria è data dal fatto che Mosca non si può permettere una sconfitta militare di Assad nel paese che rappresenta da tempo la sua principale pedina in Medio Oriente. Ma a parte questa motivazione più immediata, cosa cerca di ottenere la dirigenza russa con un gesto così clamoroso? Mosca di sicuro non è interessata al petrolio, di cui è uno dei maggiori produttori mondiali e che tra l’altro oggi ha perso molto del suo valore in denaro. Sicuramente cerca però di garantirsi un proprio spazio e di creare alleanze politiche, monetizzabili poi anche a livello economico, con paesi mediorientali che sono molto simili per natura alla Russia: sono anch’essi stati rentier che si richiamano a ideologie reazionarie, che sono governati da ristrette oligarchie burocratico-capitalistiche e basano il loro potere su un ampio ricorso alle repressioni interne, ricorrendo inoltre frequentemente alla guerra come strumento politico. Si tratta di un contesto in cui la dirigenza russa si trova particolarmente a proprio agio ed è in possesso del know-how necessario. C’è poi la motivazione della guerra come strumento per una consolidazione interna in un momento di forte crisi economica. Se sarà capace di utilizzarlo abilmente, Putin potrà trarne dei vantaggi notevoli, ma i rischi sono enormi visto che, come spesso accade in guerra e in particolare in Medio Oriente, gli eventi possono prendere un andamento imprevisto. Il presidente russo comunque non può attendersi da questo intervento effetti di popolarità tra la propria popolazione della stessa portata di quelli ottenuti con l’annessione della Crimea. Se però riuscirà a salvare in qualche modo il regime di Assad (senza necessariamente tenere Bashar al suo posto) e allo stesso tempo a essere nuovamente accolto, in una forma o nell’altra, nel club delle potenze imperialiste mondiali, riuscirà sicuramente a consolidare il proprio potere a livello interno in un momento in cui ne ha estremamente bisogno, data la crisi economica senza prospettive di soluzione. Vista però la complessità del teatro mediorientale non vi sono garanzie che questo scenario si concretizzi, considerazione alla quale va aggiunto che la disperata necessità del regime di Putin di “proiettarsi all’estero” con azioni militari è un segno di forte fragilità interna.

Il sempre maggiore ricorso agli interventi militari da parte di Mosca potrebbe infine fare pensare che internamente la fazione dei siloviki stia prendendo nettamente il sopravvento. Non è però necessariamente così. In un suo recente interessante articolo Catherine Samary giunge alla conclusione che l’obiettivo ultimo della dirigenza russa è quello di rientrare nel “club dei grandi” con gli Usa e l’Ue, non contro di loro. Concordiamo con lei, anche se va aggiunto che in questo “club” ognuno ci vuole stare alle proprie condizioni e ciò inevitabilmente provoca scontri. Ma se è questo l’obiettivo principale, come appare evidente sia in Ucraina sia in Siria, è naturale che esso venga condiviso anche dalla fazione “liberale” e quindi si confermerebbe che Putin punta anche a un consolidamento interno tale da sanare le fratture tra le diverse lobby politiche. Rimane il fatto che il ricorso sempre più frequente a interventi militari dà forza all’apparato militare-industriale russo, quello per intenderci che nell’ambito della politica del Cremlino cura i più che amichevoli rapporti con l’estrema destra neofascista europea. Putin, indipendentemente dalle strategie che sta perseguendo, sta aumentando la sua dipendenza di fatto da questo apparato.

Con l’avvio dei bombardamenti russi sulla Siria abbiamo assistito ancora una volta a cori entusiasti di voci di settori della sinistra e della destra, sempre più ideologicamente vicini e sempre più promotori di posizioni politiche difficilmente distinguibili. La loro idea è evidentemente che si stia andando verso un mondo geopoliticamente multipolare e quindi a un mondo migliore. Si tratta di un’idea che non esitiamo a definire folle. Una multipolarità di stati guerrafondai, sfruttatori e criminali non rappresenta affatto un passo avanti, ma solo un ulteriore sprofondamento verso il rischio di una guerra generalizzata e di altri disastri. Per rendersene conto basta ritornare con la mente al mondo “multipolare” sfociato in tragedie epocali come la Prima e la Seconda guerra mondiale. E basta anche semplicemente immedesimarsi nella situazione di chi questa multipolarità oggi la sta vivendo sulla propria pelle, i siriani, sempre più oggetto di massacri, ridotti in miseria e costretti a una fuga disperata dal proprio paese.

15 OTTOBRE 2015