Obama e i salariati

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Vittoria per Obama, sconfitta per i salariati USA

 

Obama ha vinto le elezioni presidenziali. Ma il risultato, sebbene atteso, ha confermato una perdita di forza e prestigio del presidente uscente, in particolare rispetto alle grandi attese e speranze popolari che la sua elezioni, per certi versi «storica», aveva suscitato.

A questo passo indietro ha contribuito in modo determinante la politica condotta dallo stesso Obama che, giorno dopo giorno, ha dimostrato come nella sua logica gli interessi di classe (d’altronde ben simbolizzati dall’entourage dei suoi collaboratori e consiglieri) fossero superiori a qualsisi altra considerazione.

Per questo vale la pena, ed è quel che fa l’articolo che segue, di ritornare con un bilancio critico sui quattro anni di presidenza Obama. Proprio nelle pieghe di questo tutt’altro che positivo bilancio si trovano le ragioni di una vittoria, tutto sommato, deludente.

L’articolo, ripreso dal sito www.socialistWorker.org, che fa capo all’ISO (International Socialist Organisation) è stato pubblicato prima delle elezioni. La sua attualità politica ci pare intatta. (Redazione).

Votare Obama come «male minore»? Prendendo in considerazione il  bilancio dei quattro anni dell’amministrazione Obama – con il salvataggio di Wall Street  costato migliaia di miliardi di dollari, il proseguimento della “guerra al terrorismo”, la crescente restrizione delle libertà individuali, la moltiplicazione delle espulsioni d’immigrati, il deterioramento dell’insegnamento pubblico… – la risposta non può che essere “no”. La lista delle promesse non mantenute e delle speranze deluse si allunga di giorno in giorno e ha ragione di tutto quanto potrebbe essere considerato appartenente ad una ipotetica lista di “progressi”.

È chiaro, però, che la maggior parte dei liberals [negli Stati Uniti la parola ha il significato di “socialdemocratici”], e anche dei radicali [sinistra più marcata], non si fa tutti questi problemi. Loro pongono sempre lo stesso interrogativo: “Come fare a contrastare Romney e i repubblicani?”.  La rivista The Nation [organo liberal, che si situa a sinistra nel ventaglio politico degli Stati Uniti], da parte sua  non ha usato giri di parole raccomandando di rieleggere il Presidente uscente: “La vittoria in novembre di Mitt Romney o Paul Ryan darebbe una legittimità agli estremisti reazionari che hanno il sopravvento nel partito repubblicano… Senza contare che questo avrebbe un effetto devastante per i valori e i movimenti progressisti, poiché ci ritroveremmo isolati in lotte di retroguardia, in particolare per quanto riguarda i diritti delle donne, delle minoranze, dei migranti e delle persone LGBT, del mantenimento dei programmi di protezione sociale e del sistema d’imposizione progressivo”.

Sono milioni a temere che un Romney o un Ryan [candidato repubblicano alla vicepresidenza] possa vincere le elezioni. Basta ascoltare i loro discorsi qualche minuto (e in particolare quelli dei loro simpatizzanti, che nascondono ancora meno il fatto di essere dei reazionari) per capire che, in effetti, c’è di che avere paura.

Ma coloro che scelgono la peste per evitare il colera si fanno grandi illusioni: lo abbiamo visto a più riprese, purtroppo, già nel passato.

Alcune illusioni

Prima illusione: l’idea che votare democratico permetta di arginare l’ascesa del “peggio”. Quelli che hanno sostenuto Obama nel 2008, convinti che un professore di diritto avrebbe almeno messo fine alle violazioni della Costituzione dell’amministrazione Bush, avrebbero delle difficoltà, oggi, a spiegare in cosa la politica della Casa Bianca, che prosegue queste violazioni in nome della “sicurezza interna”, è “meno peggio” di quella condotta dalla precedente amministrazione.

Ulteriore illusione: le idee progressiste avrebbero più possibilità di essere ascoltate con un democratico alla Casa Bianca. In realtà, i quattro anni di mandato di Obama hanno provato esattamente il contrario: non è cambiato niente per i lavoratori e le lavoratrici, che pure avevano riposto tante speranze nell’ultima elezione.

Complessivamente Obama e i democratici sono i candidati meno peggio di queste elezioni sulla maggior parte delle questioni in discussione, anche se questa valutazione non può essere estesa a tutti i candidati. Se ci si accontenta di questa constatazione, i democratici la passseranno liscia. Se la posta in gioco di questa elezione si riduce a scegliere  il meno peggio, ai democratici basterà considerare la sinistra guadagnata alla loro causa e virare sempre più a destra per cercare un sostegno al centro, o peggio ancora.

Come diceva molto bene Howard Zinn [1]: la cosa più importante non è sapere chi siede alla Casa Bianca, ma chi manifesterà davanti alla Casa Bianca. [2]. In altre parole, se  il movimento operaio e i movimenti sociali non sono mobilitati e non si battono per farsi sentire dal basso, allora i rappresentanti dei due campi principali non subiranno che una sola pressione: quella dall’alto… e sarà la classe dominante a dare il la.

Non sbagliare destinatario

Come si può leggere su The Nation, la politica del “male minore” si manifesta principalmente in due modi: da una parte, la rivista invita a focalizzarsi sulle “realizzazioni” dei democratici, poco importa quanto siano rare, timide o false; dall’altra invita a “pensare ai nostri movimenti” e a quanto sarà difficile ottenere soddisfazione con un repubblicano alla Casa Bianca.

Ma in cosa consistono esattamente  queste “realizzazioni”? Obama ha dato risposta ad alcune rivendicazioni storiche. Tra queste misure, si citerà in particolare: la firma del Lily Ledbetter Act per l’uguaglianza salariale uomo-donna; l’abbandono della politica antigay Don’t ask, don’t tell del Pentagono; il decreto che vuole realizzare, a titolo provvisorio, il progetto di legge DREAM Act, che ha permesso a una parte della giovane generazione di sans papier di beneficiare di un permesso di lavoro.

Sono, evidentemente, dei passi in avanti positivi. Non si tratta, per noi, di negarne l’importanza, ma semplicemente di criticarne qualche punto.

Prima di tutto, Obama aspira a un nuovo mandato facendo proprie questioni sulle quali non ha fatto assolutamente nulla, anzi, persino al contrario, ad esempio attaccando  i salariati  con ancora più forza.

Così, quando Nation dice che una vittoria di Romney isolerebbe la sinistra in lotte di “retroguardia” su questioni come “il mantenimento dei programmi di protezione sociale”, la posta in gioco si sposta sulla Social Security, il sistema pensionistico statunitense, e su Medicare, l’assicurazione malattia per gli over 65 anni.

Tuttavia, Obama è l’unico candidato ad aver proposto tagli al budget di portata storica nei programmi Social Security e Medicare durante il dibattito del 2011 sulla riduzione del debito. La sua posizione sulla Social Security, d’altronde, assomiglia molto al programma del candidato repubblicano, considerato però peggiore, che non pretende nemmeno di proporre qualcosa di diverso. Così, quando Obama è stato interrogato a questo riguardo durante il primo dibattito, si è difeso dichiarando: “Voi lo sapete, io credo che le nostre posizioni sulla Social Security non siano così distanti”.

Quanto alle questioni per le quali Obama può vantarsi di aver “realizzato” qualcosa, le cose non sono così evidenti. Per cominciare, Obama si è mosso con estrema lentezza sulla questione dei diritti LGBT. Quando la politica Don’t ask, don’t tell è stata finalmente abbandonata, la maggioranza dell’opinione pubblica, anche nel campo repubblicano, si era già espressa contro.

Inoltre, i risultati dovrebbero essere visti alla luce della mancanza d’azione o dei veri e propri tradimenti che possono essere imputati a Obama per queste questioni. The Nation attribuisce il merito di questo cambiamento ai giovani Dreamers, giovani migranti partigiani del DREAM Act, che avrebbero “convinto la Casa Bianca che una direttiva politica che mettesse termine alle espulsioni dei giovani sans papiers era al contempo una buona politica e una buona manovra politica”.

Ciononostante, questa stessa amministrazione ha realizzato più espulsioni di sans papiers  di quelle precedenti repubblicane;  ciò significa  che i genitori dei Dreamers hanno avuto una vita ancora più dura e ansiogena sotto Obama.

Infine, val la pena ricordare che se Obama ha mantenuto alcune  promesse, è perché vi è stato spinto a ogni tappa del suo percorso. L’”evoluzione” di Obama sulla questione dei matrimoni omosessuali, per esempio, mostra bene come i movimenti d’opposizione, a forza di manifestazioni e stimolati dall’adozione della Proposition 8 in California, quattro anni fa [nel 2008, con una maggioranza del 52, 4% è stato introdotto nella Costituzione della California un emendamento, sotto forma di referendum, che indicava che solo il matrimonio tra un uomo e una donna è riconosciuto; l’emendamento è stato riconosciuto non conforme alla Costituzione federale nel 2010] hanno fatto pressione su un democratico che non aveva, d’altronde, mostrato alcuna intenzione di andare in questa direzione al momento della sua investitura.

Ecco perché, quando i suoi difensori liberali mettono in evidenza “quello che Obama ha fatto”, inviano le loro lodi al destinatario sbagliato.

Il silenzio dei “liberali”

Un buon numero di liberali e di progressisti, tra i quali gli editorialisti di The Nation, riconoscono che Obama ha deluso su un certo numero di punti, ma questo non impedisce loro di sostenere che bisogna votare per lui, perché i nostri movimenti saranno in una posizione migliore per farsi ascoltare se ci saranno dei Democratici alla Casa Bianca e al Congresso.

Un tale ragionamento mostra di nuovo che la loro memoria è fortemente selettiva. Su certe questioni, Obama non si è mosso affatto. Pensiamo in particolare all’Employee Free Choice Act [3] che avrebbe facilitato la sindacalizzazione dei lavoratori – un progetto abbandonato ancora prima di essere votato.

Obama e i democratici sono arrivati al potere nel 2009, con il controllo della Casa Bianca e con ampie maggioranze nelle due camere del Congresso e, malgrado questo, non hanno fatto niente sulla più grande priorità legislativa per il movimento operaio. Ci chiediamo alllora: quali sarebbero i vantaggi per i nostri movimenti  con un democratico alla Casa Bianca?

Il problema è che numerose voci liberali e progressiste sono rimaste silenziose di fronte ad atteggiamenti scandalosi da parte dei democratici.

Se George W. Bush avesse proceduto all’assassinio extragiudiziario di un cittadino degli Stati Uniti (come Anwar al-Awlaki, ucciso da un drone per ordine di Obama) o avesse ratificato leggi che autorizzano la detenzione, senza processo e per una durata illimitata, di cittadini americani (come prevede il National Defense Authorization Act), si sarebbe senza dubbio scontrato con un’opposizione feroce. Quando però Obama ha ridotto in frantumi le libertà personali, i rappresentanti liberali non hanno detto nulla.

È un atteggiamento classico dei “liberali” quando i democratici sono al potere. In un articolo del 2003, Elizabeth Schulte tornava sul caso di Bill Clinton: “Dopo dodici anni di Ronald Reagan e di George Bush Sr., l’eventualità che un democratico entrasse alla Casa Bianca aveva suscitato grandi attese tra i militanti. Clinton ha promesso una riforma del sistema sanitario, la protezione del diritto all’aborto e maggiori diritti per gay e lesbiche. Ma, invece di creare un clima più propizio all’espressione dei militanti toccati da questi temi , l’attività militante è stata bellamente sospesa sotto l’amministrazione Clinton – sempre con il pretesto che i democratici alla Casa Bianca avevano bisogno di tempo per poter mantenere le loro promesse… Clinton ne ha approfittato per operare una svolta a destra. Ha abbandonato la legge per il diritto all’aborto (Freedom of Choice Act), ha accettato il vergognoso compromesso del “don’t ask, don’t tell” riguardante i G.I. gay e lesbiche e ha approvato la legge puritana di difesa del matrimonio (Defense of Marriage Act). Se Clinton ha iniziato una tale svolta, è perché sapeva che poteva contare sul sostegno della sinistra…

La vittoria della “riforma” della protezione sociale è l’esempio più eloquente: la legge punitiva di Clinton sulla protezione sociale (1996) era di gran lunga peggiore di tutte le misure avviate dai suoi predecessori repubblicani: condurre milioni di beneficiari della protezione sociale in una impasse obbligandoli ad accettare dei lavori sottopagati, in nome del loro diritto a prendere in mano le proprie vite”…“È l’amministrazione Clinton, e non il campo repubblicano, che ha fatto cadere l’idea secondo cui il governo doveva assumersi la responsabilità della protezione sociale dei più poveri. E non una sola organizzazione di sinistra ha alzato un dito…. “Se questa riforma fosse stata iniziata da Ronald Reagan, la sinistra avrebbe fatto sfilare bambini poveri in sedia a rotelle davanti alla Casa Bianca per protestare contro questa politica”,ha dichiarato, sotto anonimato, un collaboratore di Clinton nel 1994”. 

Doug Henwood: “Un partito che difende gli interessi del padronato”

The Nation e gli altri partigiani della politica del male minore non hanno ancora capito che il loro sostegno – nella speranza di una sconfitta della destra – permette ai democratici di schierarsi sempre più a destra, essendo ormai considerati acquisiti i voti della sinistra.

Quelli a cui piacerebbe che fosse altrimenti non sono ascoltati dal “partito del popolo”. Al contrario, i democratici riservano in generale i loro attacchi più perfidi non ai repubblicani, bensì a chiunque li critichi a sinistra. Rahm Emanuel, l’ex capo dell’Ufficio presidenziale di Obama, diventato il sindaco che dirige Chicago col pugno di ferro, sembra particolarmente contento di poter denunciare i progressisti che criticano i democratici. Nella sua ultima dichiarazione pubblica, ha sostenuto che Obama è sempre stato un “presidente guerriero” e che tutti quelli che hanno creduto il contrario, pensando che Obama avrebbe messo fine agli interventi dell’esercito americano, chiuso Guantanamo e protetto le libertà individuali, non hanno che da prendersela con sé stessi, se Obama li ha delusi. 

La maggior parte dei militanti democratici della base disprezzano Emanuel, o lo disprezzerebbero se sapessero chi è in realtà [non solo per i suoi legami con la grande finanza, ma per l’oltranzismo in difesa di Israele, di cui ha conservato la cittadinanza a fianco di quella statunitense, e nel cui esercito ha combattuto come volontario. NdR]. Gli attacchi calcolati di Rahm Emanuel rivelano però la logica perversa della politica del “meno peggio”, troppo a lungo difesa. Essendo considerati i candidati repubblicani e democratici le uniche scelte accettabili, chiunque esca dal cerchio considerevolmente ristretto è subito stigmatizzato.

Noi dobbiamo ricordarci che i democratici non sono dalla nostra parte, che nel sistema elettorale degli Stati Uniti, i democratici come i repubblicani fanno il gioco del grande capitale.

Il problema non è tanto il fatto che i democratici siano troppo molli per battersi – come spiega bene il giornalista di sinistra Dough Henwood, in risposta a qualche analisi sulle elezioni di The Nation: “Altra costante della retorica [della politica del male minore]: l’idea che i democratici manchino di spina dorsale, un male spesso presentato come curabile. Tuttavia, l’appartenenza del partito democratico alla categoria degli invertebrati è il sintomo stesso della sua contraddizione originale: è un partito che difende gli interessi del padronato, ma pretende il contrario a semplici  fini elettoralistici. Le convinzioni fondamentali di questo partito sono dunque sempre più difficili da definire. I repubblicani hanno una visione coerente – folle e spaventosa, certamente, ma coerente – di cui si servono per infiammare un elettorato fanatico. I democratici, dal canto loro, si guardano bene dall’infiammare il loro elettorato: per paura di far fuggire quelli che li finanziano”.

Risultato, come scrive Glenn Greenwald nelle colonne del Guardian: il dibattito politico è estremamente limitato: “La maggior parte delle questioni importanti della vita politica americana sono assenti dal dibattito nazionale… A forza di sottolineare i pochi punti in cui c’è un vero disaccordo tra i due partiti, la campagna finisce per dare l’impressione che ci siano molte più differenze tra i due partiti, e molta più scelta per gli elettori, di quante ce ne sia in realtà nel sistema politico americano”.

Anche se ci sono reali differenze tra Obama e Romney, quelli che si battono per un  cambiamento di società devono rendersi conto che questi due candidati e i loro partiti, su molti punti, si intendono più di quanto si oppongano. La politica del male minore, invocata dai dirigenti liberali, accetta che il dibattito politico si sposti a destra, perché difendere il male minore implica che siano messe a tacere le critiche dei militanti e della sinistra; i nostri movimenti e le nostre lotte finiscono così per essere tagliate “su misura” per servire gli interessi dei democratici, mentre noi dobbiamo esigere dai democratici che mantengano le promesse fatte al momento delle elezioni o che siano pronti a subire le conseguenze dei loro tradimenti.

Come ha scritto il socialista americano Hal Draper in un articolo sull’elezione presidenziale del 1964: “Il peggio, non è la risposta, ma la domanda. Quando si deve scegliere tra un capitalista e un altro capitalista, si è già perso proprio perché si è accettata una scelta tanto ristretta”.    

 

La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di “Solidarietà” del Canton Ticino.

 

1. Storico americano (1922-2012) di cui sono state tradotte in italiano parecchie opere, a partire dalla Storia del popolo americano. Dal 1492 ai nostri giorni, Non in nostro nome – Gli Stati Uniti e la guerra; e Disobbedienza e democrazia, tutti pubblicati da il Saggiatore.

2. “What matters most isn’t who is sitting in the White House, but who is sitting in“.

3.  L’attuale diritto del lavoro negli Stati Uniti non è favorevole ai salariati/e. Il National Labor Relations Act (NLRA), che regola la costituzione di sindacati e le pratiche di negoziazione collettiva nella maggior parte dei rami di attività del settore privato del paese, esige che una maggioranza di lavoratori (almeno il 50 per cento più uno) dello stabilimento a cui si riferiscono I negoziati autorizzi il sindacato a rappresentarli perché abbia legalmente il diritto di negoziare un contratto collettivo con l’azienda. Altrimenti, il sindacato non può per legge partecipare alle negoziazioni collettive. Anche se 50 per cento più uno firmano liberamente le carte di autorizzazione, non vuol ancora dire niente. L’azienda può riconoscere che le carte aprono legalmente la porta alla partecipazione del sindacato alle negoziazioni collettive, ma può anche, altrettanto legalmente, rifiutare di riconoscerli e di condurre negoziazioni collettive e costringere a procedere a un’elezione di rappresentanti sotto l’egida del National Labor Relations Board (NLRB). Le aziende ricorrono ai seguenti mezzi per impedire ai salariati di decidere liberamente della presenza di un sindacato al loro interno:

     – nel 25 per cento delle campagne di sindacalizzazione, gli impiegati sono licenziati a causa delle loro simpatie e delle loro attività sindacali:

        il 78 per cento delle aziende esige dai propri quadri che emettano messaggi ostili ai sindacati durante le campagne di sindacalizzazione e anche se i salariati riescono a creare un sindacato, la negoziazione collettiva fallisce nel 44 per cento dei casi a causa di ritardi, di tattiche di tergiversazione e di argomenti in mala fede. (Cfr. Documento del 2009 della Confederazione sindacale internazionale – CSI).

dal sito www.socialistWorker.org,