di Cristiano Dan
Le elezioni per il parlamento locale della Sassonia-Anhalt non fanno, di solito, notizia. Si tratta di uno dei Länder meno popolati della Repubblica federale tedesca (circa 2.200.000 di abitanti) e che tende a spopolarsi ancor più (dall’unificazione tedesca del 1990 a oggi ha perso circa un quarto dei suoi abitanti), di quello che probabilmente gode del più basso tasso di sentimento d’appartenenza regionale (è stato istituito già ai tempi della Repubblica democratica, cucendo tra loro ambiti territoriali eterogenei per storia, tradizioni, economia), nonché di quello dove il malcontento sociale e il diffuso sentimento di abbandono da parte del governo centrale (deindustrializzazione e conseguente disoccupazione) hanno in anni prodotto un fertile terreno di coltura nel quale è prosperata l’estrema destra.
Il campanello d’allarme, per quanto riguarda questa regione, suona infatti nel 2016, quando la da poco formata Alternativa per la Germania (AfD), con oltre il 24,3 % dei voti e 25 seggi, diventa il secondo partito, cacciando la Linke (La Sinistra) al terzo posto, e cominciando a minacciare il tradizionale predominio dell’Unione cristiano-democratica (CDU). All’epoca, il “cordone sanitario” per isolare l’AfD porta alla formazione di un governo di coalizione fra CDU e Partito socialdemocratico (SPD), allargato in seguito ai Verdi (Grünen).
L’avvicinarsi del rinnovo del Parlamento regionale (questo 6 giugno 2021), con le inchieste che dànno la AfD in forte ascesa, a pochi punti o decimali di distanza dalla CDU, facendo intravvedere il rischio reale di un “sorpasso”, creano un clima di isteria, con l’ala destra della CDU pronta a fare concessioni all’AfD e a chiudere per sempre l’era Merkel. Di qui l’attenzione concentrata su questo frammento d’Europa.
Previsioni sbagliate, sì, ma…
Il responso delle urne è stato sorprendente, per chi aveva preso sul serio le inchieste. La CDU, con il 37,4 %, compie un vero e proprio balzo del 7,3 %, conquistando 40 seggi (10 in più), ma non prevalentemente a spese dell’AfD. Questa infatti risulta sì ridimensionata (20,8 %, perdendo il 3,4 % e 2 seggi), sconfitta nelle sue ambizioni (e non è poco), ma mantiene una forza di tutto rispetto. Tanto più che a sinistra è stato un bagno di sangue.
Sembra evidente, infatti, come la CDU abbia sottratto non molto al serbatoio di voti dell’AfD, né abbia pescato nel politicamente a lei vicino elettorato del Partito liberaldemocratico (FPD), che anzi passa dal 4,9 % al 6,4 %, superando quindi la soglia del 5 % e rientrando così in parlamento con 7 seggi. Con ogni evidenza, i voti in più della CDU vengono in gran parte dai partiti schierati alla sua sinistra: Linke (ora all’11 % e 12 seggi, con una perdita del 5,3 % e 4 seggi) e socialdemocratici (ora all’8,4 % e 9 seggi, con una perdita del 2,2 % e di due seggi. Salvano i mobili solo i Verdi (ora al 5,9 %, con un incremento irrisorio di meno di 5000 voti e dello 0,7 %, ma con un seggio in più), che vedono comunque ridimensionate le loro aspettative (1).
Questo disastro della sinistra ha una duplice spiegazione, congiunturale e di lungo periodo. Congiunturalmente, è del tutto evidente come lo spauracchio di un possibile “sorpasso” della AfD abbia mobilitato i settori più sensibili a questo pericolo, che si collocano, ovviamente, a sinistra. La CDU ha giocato tutta la sua partita su questo pericolo, con un esplicito invito al “voto utile” (nonché con ripetuti attacchi alla Linke), argomento che del tutto evidentemente ha funzionato. Non è detto, però, che questo scenario si ripeta nella regione in occasione delle prossime elezioni legislative federali di settembre, in occasione delle quali è possibile che vi sia un parziale recupero a sinistra. Ma questa, forse, più che una possibilità è una speranza, perché nella Sassonia-Anhalt, come altrove, il declino della sinistra è in atto da anni. Senza contare i Verdi (la cui collocazione nella sinistra è quanto meno problematica, per non dire impropria), la somma di SPD e Linke è passata dal 38 % nelle prime elezioni del 1990 a ben oltre il 50 % nel 1994-1998, per poi attestarsi fra il 40-45 % nel 2002-2011 e calare drasticamente al 26,9 % nel 2016, fino all’attuale 19,4 %. Non occorre sottolineare come il calo del 2016 avvenga in contemporanea con la prima, forte affermazione della AfD, e come oggi i due partiti della sinistra abbiano, assieme, meno voti della formazione d’estrema destra.
Declino strutturale della sinistra in Europa?
Le elezioni della Sassonia-Anhalt non avrebbero soverchia importanza se non si inserissero, buone ultime, in un quadro desolante di sconfitte nel corso di questi primi sei mesi del 2021. Per limitarci ai Paesi dell’Unione europea, pesante sconfitta delle sinistre nelle elezioni legislative nei Paesi Bassi (marzo), in Bulgaria (aprile) e, in modo più attenuato, a Cipro (maggio), alle quali vanno aggiunte la débâcle nelle regionali di Madrid (maggio) e la batosta subita dai laburisti nelle municipali britanniche (maggio). Male sono uscite le sinistre anche dalle elezioni per i Länder tedeschi nel Baden-Wûrttemberg e in Renania-Palatinato (marzo), anche se qui l’affermazione dei Verdi ha fatto sprecare fiumi d’inchiostro alla stampa “progressista”, che vede in loro i possibili sostituti di una socialdemocrazia in stato preagonico. All’interno dell’Unione, l’unica, piccola, buona notizia viene dalla Croazia, dove una coalizione rosso-verde ha avuto una strepitosa affermazione nelle municipali di Zagabria (maggio) (2). Alla quale piccola, buona notizia se ne possono aggiungere, fuori dall’Unione, alcune poche altre, come l’affermazione (maggioranza assoluta) di un movimento nazionalista di sinistra in Kosovo (febbraio [3]) e il primo affacciarsi sulla scena politica albanese di una autentica organizzazione anticapitalista (l’Organizzazione politica, OP), con un risultato insignificante a livello nazionale, ma per nulla disprezzabile a livello locale (con la presentazione come indipendente di un minatore protagonista di una aspra lotta). Quanto appena detto scritto non serve certo ad attenuare la desolazione del quadro europeo: ma forse è utile come invito a prestare più attenzione a ciò che sta muovendosi, faticosamente e fra mille difficoltà, all’interno di molti Paesi dell’ex “socialismo reale”.
Declino strutturale delle sinistre in Europa, si diceva. Che è innegabile se guardiamo alla socialdemocrazia. I dati elettorali, anche se sono solo un aspetto del problema, sono impietosi. E la tendenza appare irreversibile, sul medio-lungo periodo, anche se non si possono naturalmente escludere sporadici ritorni di fiamma. Il fatto è che la socialdemocrazia, da quando s’è separata dalla sua ala sinistra, comunista, aveva una sola e unica funzione (e giustificazione): quella di modificare in meglio, mediante pressioni e compromessi, e con gradualità, la condizione materiale e culturale dei lavoratori, contrapponendo alla forza del capitalismo organizzazioni di massa in grado di paralizzare un Paese in caso di disaccordo. Tutto ciò ha funzionato, bene o male, per molti decenni, e in particolare nel trentennio successivo al secondo conflitto mondiale, sino a che l’evoluzione del capitalismo (neoliberismo, globalizzazione) e la scomparsa del sistema sovietico ha reso superflua, agli occhi dei capitalisti, la collaborazione di classe. Ogni margine per una politica riformista è scomparso, e la stessa parola “riforma”, che inizialmente indicava provvedimenti, per quanto limitati, a favore dei lavoratori, ha assunto un significato contrario a quello originale. Ora le “riforme” tanto spesso richieste a gran voce dal Fondo monetario internazionale, da governi, partiti eccetera, sono in realtà delle controriforme, tese a smantellare gran parte delle conquiste parziali ottenute nei decenni precedenti. Di fronte a questa intensificazione della lotta di classe da parte del capitalismo, la socialdemocrazia come ha reagito? Dapprima con la “Terza via” di Blair e dei suoi epigoni, poi con la resa completa. Abbandonando il compito di essere espressione, sia pure moderata, del mondo del lavoro, per trasformarsi, di fatto, in un partito liberale (vagamente) di sinistra, che si occupa dei diritti dei “cittadini”, sì, ma che non intende più mettere il naso all’interno dei luoghi di produzione, dove il sistema capitalista fa ormai da tempo il bello e cattivo tempo, con il solo parziale e spesso insufficiente ostacolo del sindacato.
Ma c’è di peggio. In questi anni la socialdemocrazia ha fatto sua una pratica staliniana, quella del pas d’ennemi à gauche, nessun nemico a sinistra, dedicando molte energie e sforzi a far fuori (o a tentare di far fuori) qualunque movimento o partito cercasse di organizzare, alla sua sinistra o partendo dal suo interno, pezzi di società. Non esitando, in certi casi, a adottare pratiche banditesche. Un solo esempio: nel Labour, la “liquidazione” di Corbyn a base di calunnie su un suo presunto “antisemitismo”, con un killeraggio che ha trovato molti complici in gran parte della stampa mainstream (da noi, «La Repubblica», per esempio). Liquidato Corbyn, il “nuovo” Labour spostato a destra ha raccolto i suoi frutti: la pesante sconfitta alle municipali, sulla quale la stampa mainstream così ciarliera prima ha praticamente steso un velo di silenzio.
Resta una domanda in sospeso. Perché le forze alla sinistra della socialdemocrazia non hanno ricavato alcun vantaggio significativo dalla sua crisi? Qui il discorso diventerebbe troppo lungo e complesso, e si può solo abbozzare.
Si dice, vero o falso che sia, che quando i Turchi erano alle porte di Costantinopoli le élite politico-religiose dell’impero bizantino fossero del tutto prese da una discussione di carattere teologico: gli angeli avevano o no un sesso?
Bene, molti settori della sinistra sono immersi in discussioni di questo tipo, il che spiega, per esempio, come mai l’emergere e il rafforzarsi dell’estrema destra li abbia colti di sorpresa (è il caso di Vox in Spagna, ma non è il solo). Altri settori non hanno imparato nulla dalla storia, e perseguono ostinatamente il sogno di rimettere in piedi un “movimento comunista internazionale” andato in frantumi con l’Unione sovietica, e sono alla disperata ricerca di un nuovo “Paese guida” (Nord Corea? Cina? Venezuela? Eccetera). Altri ancora, e non sono pochi, vivono in simbiosi con la socialdemocrazia, della quale si accontentano di rappresentare l’ala sinistra” (Articolo 1 in Italia), seguendola in tutte le sue evoluzioni, governative o meno. In molti di tutti questi, infine, o c’è una presunta strategia, sprovvista di qualunque articolazione tattica (per cui predicano, si scomunicano l’un l’altro, si scindono, ma non fanno mai politica), o c’è una sfrenata propensione alla tattica, meglio se parlamentare, sprovvista di qualunque orizzonte strategico.
Poche le eccezioni, pochi i tentativi riusciti di dar vita a organizzazioni con i piedi per terra, molti i propositi, generosi, senza mezzi adeguati, di passare da uno stadio ancora gruppuscolare a strutture più solide ed efficaci, in grado di incidere nel tessuto sociale.
Note
[1] Il conto perdite-guadagni in seggi apparentemente non torna, ma la spiegazione sta nel fatto che la composizione del Parlamento della Sassonia-Anhalt è passata da 87 a 97 seggi.[
2] Sulla sinistra croata si veda l’articolo, vecchio però di un anno: Croazia. Spunta una consistente macchia rosso-verde… : https://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=3164:croazia–spunta-una-consistente-macchia-rosso-verde-in-un-desolante-panorama-elettorale&catid=28:allordine-del-giorno-i-commenti-a-caldo&Itemid=39
[3] La caratterizzazione di questo partito, Autodeterminazione, presenta non pochi problemi. Si veda comunque l’articolo di Catherine Samary, Kosovo: un tournant historique: http://inprecor.fr/article-Un-tournant-historique?id=2428
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