Confusione sulla Libia

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Confusione sulla Libia

Il dibattito italiano sull’ennesima aggressione imperialista mi sembra pessimo. Era scontato che fosse penoso quello nella maggioranza, con lo spazio lasciato alla Lega che può abbinare il suo razzismo antiemigrati a qualche perplessità sull’impresa umanitaria, o ai berlusconiani doc che recalcitrano rispetto al protagonismo bellicista dei La Russa; scontato anche il disgusto per l’ipocrisia di D’Alema e soprattutto di Napolitano, e prevedibile la pena per un Bersani che non sa concepire altra critica al governo se non quella che sarebbe arrivato in ritardo…

Tuttavia anche la sinistra non scherza: non mi sorprende che Vendola arrivi tardissimo a prendere posizione, dopo giorni di frasi che non dicevano chiaramente se era a favore o contro l’intervento in preparazione, mi preoccupa invece di aver trovato il computer pieno di appelli che sono giustamente contro l’intervento, ma ricalcano poi sostanzialmente la posizione del PSUV venezuelano, che si era sbilanciato molto in difesa della “Libia socialista”, senza mai dire che Gheddafi da anni era un ottimo interlocutore dell’imperialismo europeo, e anzi anche associato ad esso con i suoi investimenti. Più difficile contrastare la guerra se non si chiarisce che rifiutarla non vuol dire difendere Gheddafi…

In Venezuela moltissimi compagni erano stupiti di sentirmi parlare negativamente di Gheddafi, che la stampa vicina al PSUV presentava invece sempre come un rivoluzionario coerente vittima di un piano per impossessarsi del suo petrolio, preludio di un piano simile contro il Venezuela. In alcuni incontri ho dovuto parlare quasi solo di questo perché me lo chiedevano espressamente. Quando c’è stata la risoluzione del Consiglio di sicurezza, molti compagni erano sorpresi e indignati per l’astensione di Cina e Russia, come se fosse la prima volta che questi due paesi evitano di avvalersi del diritto di veto… La reticenza nel presentare questi discutibili amici sui mass media bolivariani rendeva inimmaginabile che fin dalla lontana guerra di Corea l’URSS aveva trovato un pretesto per non esercitare il diritto di veto, e che altrettanto ha fatto la Cina appena è stata riammessa all’ONU e nel Consiglio di sicurezza.

La stessa ingenuità ho riscontrato peraltro in un intervento di Immanuel Wallerstein pubblicato sul “manifesto” del 18 marzo, che dichiarava impossibile una risoluzione del Consiglio di sicurezza “perché Russia e Cina non ci staranno”. Se si capisce che l’intervento ha solo come pretesto Gheddafi, ed è invece rivolto a porre le basi per fronteggiare una rivoluzione araba che tende ad allargarsi arrivando a toccare la Siria, e che potrebbe riaccendersi anche in Algeria, diventa logico e comprensibile l’atteggiamento dei dirigenti di Mosca e di Pechino: possono anche avanzare qualche ipocrita riserva verbale per salvare la faccia, ma sono non meno interessati dei paesi occidentali a stroncare sul nascere una dinamica rivoluzionaria che potrebbe ripercuotersi prima o poi sulle rispettive minoranze islamiche. Tanto più se raggiungesse l’Iran, che potrebbe diventare un nemico dell’imperialismo molto più pericoloso se si desse una direzione meno controproducente e respingente di quella del rodomonte Ahmadinejad.

Quando si tratta di capire quali sono le motivazioni reali di questa guerra, una volta scartata facilmente la motivazione umanitaria, si sente parlare solo della conquista del petrolio libico, ma è una spiegazione insufficiente. Il petrolio libico è sempre stato a disposizione, come era quello di Saddam Hussein. Nessuno rifiutava di venderlo a un prezzo di mercato, e mai è stato negato. La verifica più interessante viene dall’Iraq: erano gli Stati Uniti che imponevano l’embargo al petrolio iracheno, e dopo l’inizio della guerra l’instabilità politica e gli attentati agli impianti di estrazione e agli oleodotti hanno perfino ridotto la quantità esportabile.

Più ragionevole, ma solo in apparenza, la spiegazione che attribuisce l’intervento a un regolamento interno agli stati imperialisti; infatti non spiega perché l’Italia, che fin ora faceva la parte del leone in Libia, avrebbe dovuto collaborare a un’impresa destinata a scalzarla a beneficio di altri paesi, a partire dalla Francia. In realtà, quale che sia il vincitore nello scontro libico, è l’Italia il più naturale e ineliminabile partner, indipendentemente dal colore del suo governo.

Questa guerra, come quella dell’Iraq, o dell’Afghanistan, o dei Balcani o della Somalia, non ha una sola spiegazione, e soprattutto non ha quella di un immediato tornaconto economico. Uno storico statunitense, grande conoscitore dell’Asia orientale, ma anche della politica internazionale del suo paese, Chalmers Johnson, ha osservato qualche anno fa che “l’accesso al petrolio del Golfo Persico impegna circa 50 miliardi di dollari del budget annuale americano per la difesa”. Ma, aggiungeva, “il petrolio che importiamo da quell’area costa solo un quinto di quella  cifra, circa 11 miliardi di dollari l’anno”. Eppure, osservava, il petrolio mediorientale rappresenta solo il 10 % del consumo americano, il 25 % di quello europeo e il 50 % di quello giapponese. Per essere sicuri dell’approvvigionamento costante di petrolio da quell’area, sarebbe stato sufficiente pagare qualche dollaro a barile in più anziché mantenere quell’enorme e costosissimo apparato militare. Casomai, secondo Chalmers Johnson, nel suo libro dal titolo che mi auguro sia profetico (Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, 2001), uno degli obiettivi di questa politica statunitense è la vendita di armi ad altri paesi, che “trasforma il Pentagono in un ente economico di cruciale importanza per il governo americano”.

Certo, l’esibizione delle armi in un conflitto è sempre la migliore vetrina per chi le vende, ma questa vale anche per la Francia, la Gran Bretagna e, perché no, l’Italia (si pensi alla parata umanitaria della Cavour spedita ad Haiti per portare un aiuto ridicolmente simbolico e inadeguato, ma utile per reclamizzare la nostra industria bellica). In realtà, ogni spiegazione monocausale è insufficiente, perché a determinare l’intervento (della Francia) o viceversa la non partecipazione (della Germania) possono esserci anche meschini calcoli di politica interna, come le imminenti scadenze elettorali dall’esito incerto. Unica cosa certa è il cinismo e la menzogna sistematica, a cui ricorrono tutti i governanti, da Washington a Pechino.

Per combattere questa impresa criminale e pericolosa per le ripercussioni in tutta l’area non basta quindi rifiutare le motivazioni dichiarate, bisogna denunciare l’ennesima sistematica responsabilità dell’ONU, a cui alcuni settori “pacifisti” continuano invece ad attribuire un possibile ruolo positivo nei conflitti. Bisogna ricollegarla a tutte le imprese umanitarie precedenti a cui ha partecipato l’Italia, dal Libano alla Somalia, al Golfo Persico, ai Balcani, all’Afghanistan, tutte sostenute sempre in parlamento da un consenso bipartisan, oggi coperto per giunta, col pretesto di rispondere alle buffonate leghiste, dall’indecente retorica dei 150 anni, ammantata di bandiere tricolori. E bisognerebbe rilanciare invece una ben diversa “celebrazione”, quella dei molti crimini che hanno caratterizzato la politica coloniale italiana già prima del fascismo, sconosciuta alla quasi totalità dei giovani, perché sistematicamente occultata nello studio della storia. Su questo rinvio a quanto avevo ricordato in risposta a polemiche giornalistiche scatenate dalle visite di Gheddafi in Italia: Italia e Libia, un rapporto pericoloso e Gli errori di Gheddafi e i crimini dell’Italia.

Per un’analisi politica molto puntuale sulle cause di questa guerra rinvio all’articolo di Salvatore Cannavò,  Le ragioni del no alla guerra in Il megafonoquotidiano 

(a.m. 21/3/2011)