Contraddizioni del Venezuela – 2

Riprendo un interessante intervento di Angelo Zaccaria (autore del libro "La Revolucìon Bonita", Colibrì edizioni) – apparso sul blog di Aldo Giannuli in risposta ad altro articolo di Giannuli sulla situazione in Venezuela. È apparso anche sul sito di Communia, da cui per comodità lo riprendo. A giorni inserirò anche un mio articolo sullo stesso tema, scritto circa un mese fa per una rivista on line, e che sto aggiornando. (a.m. 20/4/14)

Note sulla situazione venezuelana

di Angelo Zaccaria

Sin dal 2005, quando iniziai ad occuparmi di Venezuela, non ho condiviso l’impostazione acritica e propagandistica di una parte significativa delle realtà che in Italia appoggiano il “processo bolivariano”, le quali ritengono che per difendere meglio il Venezuela chavista dai non pochi detrattori, occorra descriverlo come una sorta di “paradiso socialista” del secolo XXI. Tutto quello che ho scritto sull’argomento sinora, a partire dal libro “La Revolucion Bonita”, è quindi percorso da un taglio di “solidarietà critica”, ovvero dal riconoscimento del valore sostanzialmente positivo del processo venezuelano, ma senza nasconderne le molte lacune e limiti.

Tralascio quindi gli aspetti dello scritto di Aldo che condivido, quando parla di alcuni di questi limiti, e mi concentrerò su altre cose importanti che Aldo scrive e che richiedono alcune precisazioni. Prima di entrare nel merito, una breve premessa.
Occuparsi a distanza del Venezuela accentua il problema della selezione ed affidabilità delle fonti. Questo accade a causa della estrema polarizzazione politica del paese, la quale rende opinabili e controversi non solo, come accade anche da noi, i dati sulla situazione economica e sociale, ma persino quelli sul numero di omicidi commessi annualmente. Che fare allora: io ho tentato di districarmi nel marasma cercando di acquisire più fonti possibili.

Un altro grosso nodo è quello, di fronte ad eventi socio-politici inevitabilmente complessi e contraddittori, da individuare e fissare la “tendenza principale”, e quelle secondarie.

Plaza Altamira come Piazza Taksim o Occupy Wall Street?
Di certo agli scontri di queste settimane hanno partecipato anche persone provenienti dai ceti popolari. Gli attivisti anarchici del collettivo caraqueño “El Libertario”, i quali propongono una interpretazione degli eventi per alcuni versi simile a quella di Aldo, affermano però che questo è stato vero soprattutto nelle città dell’interno del Venezuela. Qui le proteste sono iniziate il 4 Febbraio a partire dagli studenti, per poi allargarsi a settori di cittadini che oltre che chiedere la rinuncia di Maduro, esprimevano malcontento per la situazione economica, l’alta inflazione, la mancanza di vari generi di prima necessità, le interruzioni della erogazione di acqua ed elettricità. Del resto come viene ricordato, alle elezioni presidenziali di un anno fa, l’antichavismo ha raccolto quasi la metà dei voti, e quindi è ovvio che conti anche sulla simpatia di una parte dei ceti popolari.
Gli stessi anarchici però affermano che a Caracas le proteste son state più marcatamente caratterizzate dalla presenza, oltre che degli studenti, di antichavisti di classe media e di esponenti dei partiti e gruppi di opposizione di destra, anche estrema.

Aggiungo anche io qualcosa, sempre sulla realtà di Caracas, che conosco meglio avendoci soggiornato complessivamente per oltre sei mesi.
Tutte le metropoli sono in varia misura socialmente compartimentate, a Roma Tor Bella Monaca è diversa dai Parioli, ebbene questo in Venezuela, data la maggiore polarizzazione sociale è ancora più vero. A me risulta che la maggioranza degli scontri ed incidenti di rilievo a Cacacas, siano avvenuti tutti in zone di classe medio-bassa, media ed alta. Nulla di grosso è invece avvenuto nelle zone a maggior concentrazione popolare, come Petare ad est o buona parte del municipio Libertador ad ovest. La stessa Plaza Altamira si trova al centro del piccolo municipio Caraqueño di Chacao, che registra i livelli di reddito pro-capite più alti del Venezuela ed è un bastione storico dell’anti-chavismo.
La stessa Plaza Altamira, nel corso degli eventi che seguirono al golpe fallito contro Chávez dell’Aprile 2002, fu simbolicamente occupata per lunghi periodi da gruppi di civili e militari, che in vari modi avevano appoggiato il golpe.

Storicamente in Sudamerica le vere rivolte per il pane, banalmente iniziano con gli assalti e gli “espropri popolari” nei supermercati: così è stato in Argentina nel Dicembre 2001, ma anche nello stesso Venezuela durante la rivolta del “Caracazo” nel Febbraio del 1989. Gli scontri di queste settimane invece, al posto degli assalti ai supermercati han visto, oltre ai blocchi stradali, questi si certamente parte delle tradizionali forme di lotta in Venezuela, anche gli assalti ai centri di salute dove son presenti i medici cubani (undici assalti secondo recenti dichiarazioni del ministro competente), danneggiamenti a case popolari di recente costruzione, università statali, autobus pubblici e stazioni della metropolitana; addirittura si son registrati casi di assalti con incendio di camion carichi di derrate destinate ai progetti governativi in campo alimentare.

Quindi sarei più cauto prima di paragonare Plaza Altamira ad Occupy Wall Street, senza però negare che andrebbe meglio indagata, ma farlo da qui è difficile, la effettiva composizione sociale e le motivazioni di quanti partecipano alle manifestazioni o agli scontri. Sul loro segno politico e culturale prevalente non mi pare però che vi siano dubbi, ed il segno non conta meno della estrazione sociale di chi protesta. Forse è vero che sia le piazze mondiali citate da Aldo che Plaza Altamira sono prodotte dalla crisi, ma mentre il segno politico prevalente di Occupy WS è la protesta contro i guasti e gli orrori del capitalismo neoliberista, il segno prevalente di Plaza Altamira è la richiesta di piena restaurazione del modello liberale e “meritocratico”.
D’altronde se ci sta una cosa che ha permesso almeno per ora al governo di riprendere parzialmente il controllo della situazione, è proprio la mancata o assai parziale saldatura fra l’azione della militanza antichavista radicale, studentesca e non, ed il grosso del malcontento esistente in consistenti settori popolari di fronte ai grossi problemi economici e strutturali persistenti nel paese.

Sul fatto che anche nel 1968 si tiravano le molotov.
Anzitutto come ricorda lo stesso Aldo negli scontri di queste settimane è entrato in ballo molto più che le “innocenti” molotov. Certo, nella confusione degli eventi una significativa parte delle circa 40 vittime sono ascrivibili a sconosciuti cecchini che sparano dai tetti, o pistoleros in moto o cavi d’acciaio tesi in mezzo alla strada. Ma per meglio orientarsi anche dove sembra regnare la confusione, non si può non tenere conto del contesto Venezuelano.

Primo: Nicolas Maduro ha da poco vinto anche se con scarso margine le elezioni presidenziali, e con margine più cospicuo quelle comunali, e si preparava ad affrontare un periodo di quasi due anni senza ulteriori appuntamenti con le urne. Mi pare quindi evidente che se c’è qualcuno che non aveva alcun interesse a produrre escalation di violenza politica nel paese, questo qualcuno era ed è il governo chavista.
Secondo: nella vicenda politica venezuelana sotto il chavismo, i morti non sono cominciati adesso. Ricordiamo i 300 attivisti dei movimenti contadini assassinati dall’avvento di Chávez al potere ad ora, le vittime del fallito golpe del 2002, delle tensioni verificatesi dopo le presidenziali di Aprile 2013, le decine di omicidi mirati di attivisti operai, indigeni e di militanti delle “comuni socialiste”. Ci sono stati certo anche vari esponenti delle opposizioni assassinati. Ma posso dire con abbastanza certezza che il grosso di questo drammatico tributo di sangue è stato sinora offerto dalla militanza di base chavista, in particolare da quella giovanile.

Sottolineo questo non per accomodarmi a contemplare compiaciuto le nuove violenze di queste settimane, ma per aggiungere elementi forse utili ad interpretarne origini e segni.
L’amara verità è che oggi in Venezuela si sta gradualmente imponendo un modello di scontro politico interno un po’ “alla Colombiana”, dove cresce il ruolo del paramilitarismo. Una situazione che di fatto può condurre il paese ad una sorta di guerra civile strisciante o a a bassa intensità, anzi che forse lo ha già condotto.

In Venezuela la popolazione e’ ridotta alla fame?
Senza rimuovere i già citati gravi problemi socio-economici che ancora affliggono il Venezuela, sui quali anche Aldo scrive, ancora meno accettabili in una “rivoluzione” che ha goduto di un fiume di risorse finanziarie senza eguali nella storia, siamo sicuri che il Venezuela sia alla fame? La mia ultima permanenza di oltre un mese e mezzo in Venezuela, risale a meno di un anno fa, e pur avendo percepito e visto i gravi problemi della scarsità di beni e dell’alta inflazione, non ho però avuto l’impressione di un paese alla fame.

Citerei anche il premio concesso nel Giugno 2013 dalla FAO a 38 paesi, fra i quali il Venezuela, per i risultati ottenuti nella lotta alla denutrizione, o i dati di una agenzia ONU, la CEPAL, sulla riduzione della povertà estrema e relativa.
Anche il governo cita molto il premio della FAO, a sua volta però oggetto di alcuni distinguo fatti da alcuni esperti venezuelani.

Sulla repressione del governo, gli arresti e le torture.
Di certo questo è l’aspetto più delicato. Aldo scrive di oltre 2000 studenti arrestati e tenuti in condizioni inumane, e di denunce di torture. Partiamo dai numeri. Fonti del governo del 31 Marzo parlano di un totale di 2194 fermati o arrestati dal 12 febbraio in poi, dei quali 164 finiti in carcere, e di 25 funzionari di polizia arrestati per abusi, dei quali 17 in carcere. Queste cifre son grosso modo confermate anche da fonti non governative come il quotidiano Ultimas Noticias.
Vladimir Acosta invece, un commentatore politico della sinistra chavista, lunedi 24 Marzo parlava via web-radio su www.aporrea.org, di oltre 1500 arrestati, dei quali solo 21 rimasti in carcere. Sembra che sul totale degli arrestati gli studenti siano circa un terzo.

Inutile dire che su questo spinoso aspetto degli abusi polizieschi esistono anche fonti più o meno neutrali o vicine all’opposizione, che propongono versioni sia sui numeri che sulle modalità dei fatti, in forte dissonanza con quelle del governo.
Di certo il governo, e non da ora ma già con Chávez vivente, riconosce l’esistenza di problemi di adeguamento dei corpi repressivi e del sistema carcerario a criteri minimi di rispetto dei diritti delle persone. Non a caso fu Chávez a sciogliere la Policia Metropolitana di Caracas, violenta e corrotta, a fondare la nuova Policia Nacional Bolivariana, ed addirittura una nuova Università dedicata a formarne i nuovi quadri, la UNES. Così come sotto Chávez furono lanciati i primi programmi di “umanizzazione” delle carceri.

E’ ovviamente molto probabile che i casi di abusi repressivi in strada o nelle carceri siano maggiori di quelli sui quali si sta ufficialmente indagando. Ma questo vuol dire che siamo tornati ai tempi della feroce repressione massificata ed omicida dei decenni precedenti l’avvento del chavismo, o che Maduro stia per imboccare “la strada fascistoide del socialismo da caserma”?
Cito un altro dato: la pagina del sito della “sinistra bolivariana” www.aporrea.org, contiene decine di commenti dove il governo viene ferocemente criticato, soprattutto nelle prime settimane di scontri, per essere stato troppo morbido e tollerante, nella capitale più che altrove. Del resto il governo è del tutto consapevole che il terreno del rispetto dei diritti umani, è uno dei fronti di attacco più insidiosi non solo da parte dell’opposizione venezuelana, ma ancora più da parte dei suoi molti sponsor internazionali, USA in primis, per quanto questi ultimi siano assai poco legittimati a farlo, sia moralmente che storicamente.

Tentando di esser più chiaro, non mi pare ci siano dati sufficienti per concludere che il sentiero verso il lugubre “socialismo da caserma” sia stato già imboccato. Ma non me la sento nemmeno di escludere al mille per mille che questo accada in futuro. In ogni caso mi pare corretto mantenere desta l’attenzione su questi temi cruciali.

Ultimi sviluppi e prospettive.
Nelle ultime settimane il governo di Maduro pare avere, non senza fatica, ripreso il controllo della situazione, ma non è detto che duri. La vera mina vagante è rappresentata dagli irrisolti nodi dell’economia: inflazione elevata soprattutto nel settore alimentare; dipendenza dalle importazioni pagate con le rendite petrolifere, scarsità di alcuni beni, corruzione, contrabbando.
La logica interna delle rivoluzioni spesso ha portato esse a sacrificare diritti e libertà alla difesa di se stesse e della propria sopravvivenza. Nel caso Venezuelano a favorire eventuali tentazioni autoritarie si aggiungerebbe la enormità degli interessi economici e finanziari in gioco. Meglio non pensare invece alle tentazioni autoritarie in cui cadrebbe la destra venezuelana, che non ha proprio uno stile scandinavo, se dovesse tornare al potere dovendosi confrontare con una forte opposizione chavista.

Ma la “deriva autoritaria” del chavismo, non è l’unica strada aperta. L’altra sarebbe, da parte del governo, l’apertura e l’ascolto non tanto verso Plaza Altamira, o verso i settori “patriottici” dell’imprenditoria e dell’opposizione, ma verso quella vasta rete di movimenti popolari, realtà sindacali, movimenti contadini ed indigeni, attivisti/e di base oneste e generose, che da anni tengono in vita il processo bolivariano, ma chiedono anche di affrontare alla radice i nodi irrisolti e le zone d’ombra della “Revolucion Bonita”.
Di certo c’è un consenso in parte da ricostruire, perché tenere in piedi una rivoluzione, tantopiù se “bonita”, contro quasi metà della popolazione, non sarà certo facile. Mi auguro che questo ascolto e questa apertura ci siano, cioè che il Venezuela bolivariano continui a mantenere quella unicità, quel valore aggiunto che sinora lo ha distinto da tutti quegli altri stati o governi “canaglia”, che gli USA si sono accuratamente scelti come nemico ideale in tutti questi anni. Dall’Irak di Saddam, all’Afghanistan talebano, all’Iran komeinista.

Il valore di incarnare una esperienza nella quale, almeno in parte, potersi riconoscere ed identificare. Una esperienza la quale se aggredita dall’esterno, meriti ancora e sempre di essere difesa andando a manifestare davanti ad un consolato USA.

Angelo Zaccaria – Milano, 7 Aprile 2014