Cuba inquieta

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Cuba inquieta

Come avevo promesso nella breve introduzione all’intervista rilasciata dal cardinale Jaime Ortega alla rivista della sua arcidiocesi, “Palabra nueva” (La chiesa cubana si muove), ritorno a scrivere qualche riga sui problemi di Cuba oggi. Premetto intanto che la scelta di pubblicare quel testo sul sito non nasceva da una particolare simpatia per il cardinale, ma dalla necessità di segnalare un’attività della gerarchia cattolica sempre più spostata su temi politici (di seguito riporto la traduzione integrale).

In molti miei scritti, a partire dall’ultima edizione della Breve storia di Cuba, ho polemizzato con i “rassegnati fatalisti” che sono “convinti che ogni mutamento a Cuba potrebbe aprire le porte a Bush per la preponderanza dei mezzi di cui dispone”, sostenendo che la previsione mi sembrava infondata: la maggioranza dei cubani non sono stupidi e non si lascerebbero incantare da Bush, scrivevo, soprattutto perché non hanno nessuna voglia di tornare a essere una semicolonia. Ma aggiungevo: “Il pericolo è un altro: la chiesa cubana si è rafforzata molto in questi anni successivi alla visita del papa, per le debolezze e la corruzione del regime, ed ha cominciato ad andare all’attacco. Questo è un pericolo ben più concreto di un ipotetico trionfo di Bush…”.

Lo scrivevo nel 2006, ma oggi è ancor più evidente. Per questo ho rilanciato vari scritti miei o di cubani, per evidenziare le inquietudini sempre più diffuse a vari livelli. Per rintracciarli, rinvio a: Cuba: guida ai testi.

Le cose che scrive Jaime Ortega in sé non sono scandalose. Erano state anticipate tra l’altro da vari scritti politici di altri religiosi, tra cui mons Carlos Manuel de Céspedes García Menocal, che oltre ad essere un intellettuale prestigioso e fratello del vescovo di Matanzas, porta il nome del padre della patria, di cui è diretto discendente.

La novità è che si collocano su un terreno direttamente politico. Ad esempio Carlos Manuel de Céspedes in un saggio su “Cuba hoy: compatibilidad entre cambios reales y el panorama constitucional” apparso sul numero 3 del 2009 di “Espacio laical” si è pronunciato sulle voci di una riforma costituzionale, osservando che se si pensasse a realizzarla (e gli sembra che sia un’ipotesi piuttosto diffusa e forse maggioritaria nel gruppo dirigente) “richiederebbe però la previa celebrazione di elezioni per un’Assemblea costituente”. Carlos Manuel de Céspedes, che nella prima parte del lungo saggio aveva fatto una panoramica delle precedenti costituzioni, osserva che l’Assemblea costituente “sarebbe l’organismo responsabile della stesura, da sottoporre poi a plebiscito nazionale, con un processo in parte analogo a quello del 1939 e 1940”. Un richiamo insidioso, perché l’impresa di Fidel Castro iniziata il 26 luglio del 1953 con l’assalto alla caserma Moncada era proprio motivata con la difesa di quella costituzione calpestata da Batista…

Ma Carlos Manuel de Céspedes  si domanda come potrebbero essere eletti i candidati alla costituente. “Ecco un primo problema – dice – attualmente a Cuba i candidati per qualsiasi organismo eleggibile sono presentati dall’unico partito, il partito comunista di Cuba. Si discutono in assemblee di quartiere, ma sappiamo come queste di fatto funzionano”. Dato che scrive per Cuba, non ha bisogno di fornire dettagli, e non prende nemmeno in considerazione la favola ripetuta qui da noi da ogni zelante difensore dell’esistente: non sarebbe il partito a scegliere i candidati, ma le donne, i giovani, i veterani, i sindacati… Cioè i dirigenti dell’UJC (l’organizzazione giovanile), della federazione delle donne, dei sindacati, delle varie associazioni: tutti obbligatoriamente appartenenti e scelti dal partito unico.

Carlos Manuel de Céspedes osserva che si parla di cambiare il sistema elettorale, ma sempre mantenendo l’opzione per il monopartitismo. E commenta abilmente che “in linea di principio, il monopartitismo può non essere in conflitto con la democrazia”, e che d’altra parte “anche il pluripartitismo non dà la garanzia di un buon esercizio della democrazia”. Vero, noi potremmo aggiungere che ne abbiamo parecchi esempi in Italia, e non solo da quando c’è Berlusconi…

L’intervento si conclude con un’osservazione importante: ammettiamo che sia necessario mantenere il monopartitismo, ma perché possa essere compatibile con una democrazia reale “dovrebbe funzionare con criteri di trasparenza e di libero dibattito di tutte le questioni”. E comunque, quale che sia la strada costituzionale che si scelga, bisognerebbe tornare all’articolazione e separazione (anche fisica, in edifici diversi) dei tre poteri, il Legislativo, l’Esecutivo, il Giudiziario.

Contrariamente a quanto ha ripetuto per anni Fidel, presentando sempre come originalissimi tanto il sistema elettorale che la costituzione cubana, il prelato dice apertamente la semplice verità che il modello per Cuba è stato quello sovietico, che accosta ironicamente a quello di altri paesi, come quelli islamici, di cui dice di non sapere molto.

Nel numero di gennaio 2010 della rivista dell’arcivescovato un altro sacerdote, Boris Moreno (Presbítero y Máster en Ciencias Económicas) aveva affrontato con decisione i problemi economici con un articolo che si domandava: “dove va la barca cubana” (¿Hacia dónde va la barca cubana? Una mirada al entorno económico).

La situazione economica viene presentata come “abbastanza complicata, al punto che rischia  di “cadere in picchiata” con giravolte sconvolgenti (“rizos estremecedores”) analoghe a quelle degli anni 1990 e 1994. Ma padre Moreno osserva che la politica  del governo “è stata segnata da una mancanza di definizione sia della prospettiva sia degli strumenti, sequestrata dalla riaccentramento ideologico che vuole mantenere o qualsiasi costo un ordine di cose che soffoca il paese, e che ora, confrontato con la severa crisi mondiale, sembra fare acqua da tutte le parti, e come unico arsenale per rispondere ha le affermazioni utopiche e l’adeguamento (reajuste) attraverso una forte riduzione delle spese, che può portare a un collasso socioeconomico”.

Moreno osserva che il fragile recupero del PIL iniziato nel 1994, ha avuto un percorso instabile, con oscillazioni e rallentamenti, e si è basato prevalentemente sul turismo, il nichel e l’offerta di servizi, tentando di porre un limite al peso di importazioni non compensate dalle esportazioni. Anche le rimesse da cubani all’estero sono cresciute fino a collocarsi tra le prime due fonti di entrate, ma sono in flessione come conseguenza della crisi economica che colpisce gli Stati Uniti e altri paesi con forti comunità cubane. Moreno dice brutalmente che “la decisione di mantenere un sistema economico che si ritiene imprescindibile (…) nonostante la sua evidente inefficienza, l’isolamento del mercato interno rispetto al cosiddetto “mercato emergente” (cioè in valute forti), (…) la prostrazione dell’agricoltura e i bassi livelli di efficienza dell’industria, il rifiuto di incoraggiare le capacità imprenditoriali con riforme sostenibili, hanno fatto sì che il “periodo speciale”, iniziato nel nostro paese nel 1990, diventasse il “periodo normale” delle nostre vite.

L’accenno alle “capacità imprenditoriali” non va letto come un auspicio di un ritorno al capitalismo: è in sintonia con il senso comune dei cubani di fronte a quell’immobilismo, che fa apparire come una riforma straordinaria (esaltata pochi giorni fa da tutti i quotidiani italiani, senza eccezione)  l’autorizzazione all’esercizio privato della professione di barbiere. Una concessione ridicola, anche perché chi ha vissuto a Cuba fuori dei circuiti dei grandi alberghi per turisti sa bene che era pratica diffusa il taglio dei capelli a domicilio: al massimo oggi è stato “autorizzato” per poterlo tassare…

Anche Guillermo Rodríguez Rivera, presentando sul “Manifesto” l’ultimo disco del “trovador” Silvio Rodríguez, ha giustamente polemizzato con “El País” che aveva intepretato come un’allusione alla rivoluzione del 1959 il verso che denunciava “aquella ofensiva/ que hundió con un cuño impotente/ toda iniziativa”(quella offensiva / che ha affondato con un conio impotente / qualsiasi iniziativa). Il verso era invece riferito alla famosa “ofensiva revolucionaria” voluta da Fidel Castro nel marzo 1968, e che consisteva nella soppressione di qualsiasi attività produttiva, artigianale o commerciale, con effetti disastrosi. Quella misura era stata presentata come ispirata al pensiero del Che, che invece l’aveva esplicitamente rifiutata (capiva di economia assai più del líder máximo…), ed è stata parzialmente corretta a partire dal 1993-1994, ma con oscillazioni, retromarcie, imposizioni periodiche di tasse sproporzionate che hanno riportato nella clandestinità molte attività utili. Ho fatto questo esempio per far capire quanto la tematica della legalizzazione delle attività produttive individuali sia largamente condivisa a Cuba.

 

Non è difficile capire l’efficacia del messaggio lanciato da padre Boris Moreno, tanto più perché nella seconda parte dell’articolo fornisce quei dati sulla situazione economica che invano si cercherebbero nelle relazioni ufficiali del governo. Senza faziosità, e riconducendo il recente aggravamento della situazione soprattutto alle ripercussioni della crisi economica mondiale, che hanno accresciuto il divario tra spesa per le importazioni e ricavato dalle esportazioni.

Anche le proposte sono calibrate con prudenza: ad esempio, chiede che venga assicurata protezione giuridica alle attività “por cuenta propia” per “ridurre l’incertezza e la sfiducia che si sono diffuse tra questi operatori economici”.

Altre proposte sono ragionevoli e condivise, e formulate in modo prudente, ma la frase più significativa riguarda le misure che definisce di “anestesia generale”: la prima sarebbe “l’impegno formale del governo a riconoscere la capacità di pensare di tutti i cittadini, senza che questo implichi rappresaglie di qualsiasi genere. Dovremmo eliminare dal nostro ambiente le definizioni che restringono lo scambio di idee e di opinioni”. Detto con garbo, smettiamo di bollare come controrivoluzionario e mercenario al soldo della CIA chiunque proponga qualcosa di diverso.

Anche più esplicito dell’altro cantautore a cui ho accennato, è stato Pablo Milanés, che durante una tournée in Spagna ha detto che molti “hanno paura di parlare perché c’è un sistema occulto di censura” da mettere in discussione radicalmente. Ha aggiunto, in un’altra intervista a La Voz de Galizia, di non avere personalmente paura di niente: “sono molti anni che sto criticando apertamente quello che a mio parere viene fatto male, e non ho mai percepito una rappresaglia nei miei confronti, per cui sono sicuro di tornare a Cuba con lo stesso atteggiamento, e di poter criticare quel che è mal fatto, ed elogiare quel che è ben fatto”. Ma, ha aggiunto, “ci sono effettivamente casi a Cuba di persone qualunque che hanno il mio atteggiamento e non se la cavano bene di fronte alle autorità, medie, intermedie e anche superiori; questo l’ho denunciato in diverse interviste e questa è una delle ragioni per cui lotto nel mio paese”.

 

Chi non vuole sapere nulla dei problemi di Cuba, che vuole immaginare monolitica e entusiasta come nelle foto propagandistiche, obietterà: ma questi sono solo preti e intellettuali, anzi artisti. Cosa contano? Intanto ricordiamo che se possiamo sentire solo loro, è perché, come ha spiegato Milanés, possono parlare più di altri. Inoltre va detto che a sostenere queste aspirazioni ai cambiamenti sono in molti, non solo scrittori, ma anche diplomatici, a partire dall’ex rappresentante di Cuba all’UNESCO Soledad Cruz, o da quel gruppo di militanti raccolti intorno a Pedro Campos (anche lui ex diplomatico) che hanno firmato un documento destinato al VI Congresso del PCC. Un congresso sempre rinviato da anni: vorrà dire qualcosa?

Ma altre obiezioni possono essere di segno diverso: in fondo quello che dicono questi preti, vescovi e cardinali è abbastanza sensato. Perché preoccuparsi?

La ragione è semplice: il cardinale, Carlos Manuel De Céspedes e Boris Moreno hanno potuto dire molte cose che altri non possono dire. Ma a differenza di Pablo Milanés e Silvio Rodríguez, che sono molto amati ma non sono in grado né vogliono trasformarsi in catalizzatori di un dissenso diffuso, dietro queste persone indubbiamente intelligenti ed accorte c’è la gerarchia cattolica, che ha ambizioni di potere, e non è certo portatrice di ideali di democrazia diretta. Sottolineando l’esigenza che “si facciano i cambiamenti necessari con rapidità”, per poter affrontare “una situazione molto difficile, sicuramente la più difficile vissuta in questo XXI secolo”, e presentando come aperto a ogni soluzione il dibattito su un “socialismo riformato che si lasci alle spalle il vecchio Stato burocratico di tipo stalinista”, Jaime Ortega è sicuro di interpretare “una specie di consenso nazionale”. Rinviare la soluzione “produce impazienza e malessere nel popolo”, assicura. La polemica con cinquanta anni di “bloqueo” di cui non sottovaluta il peso, anche se ripete che i suoi effetti si sommano “alle perenni difficoltà di Cuba provenienti dai limiti del tipo di socialismo praticato qui, configurando un panorama a volte oscuro”, gli dà la credibilità per presentarsi come interprete della coscienza nazionale, in un paese in cui – come era avvenuto in Polonia – ogni possibile alternativa laica è stata impedita. Francamente, non vorrei passare da un líder máximo a un altro… (a.m. 23/4/10))

 

 

Cuba

Intervista al cardinale arcivescovo dell’Avana Jaime Ortega

di Orlando Marquez di «Palabra Nueva»

 

 

Palabra Nueva – Signor cardinale, recentemente i media nazionali hanno ampiamente diffuso la notizia di una riunione di praticamente tutti i pastori e capi di tutte le confessioni religiose presenti a Cuba con il presidente Raúl Castro, la signora Caridad Diego, capo dell’Ufficio per gli Affari religiosi, altri alti funzionari cubani nonché il domenicano brasiliano frei Betto. A quell’incontro, tuttavia, non erano presenti vescovi o esponenti della Chiesa cattolica a Cuba. La cosa ha suscitato in molti alcune perplessità o interrogativi sulla posizione della Chiesa nei confronti del governo cubano. A che cosa si deve l’assenza della Chiesa cattolica in quell’occasione?

Jaime Ortega In quel caso siamo stati invitati sia i vescovi ausiliari sia io ed altri membri del clero e alcuni/e religiosi/e, ma abbiamo rinunciato a partecipare poiché si trattava della commemorazione di due eventi non in diretto rapporto con la Chiesa cattolica. Uno è l’anniversario di una riunione effettuata venti anni fa dal presidente Fidel Castro con il Consiglio delle Chiese di Cuba, di cui la Chiesa cattolica non fa parte; l’altro fatto commemorato contemporaneamente è stata la pubblicazione a Cuba del libro di frei Betto, Fidel e la religione, che pure non ci riguarda direttamente come Chiesa, per quanto contenga varie risposte di Fidel tuttora valide, relative ad argomenti pendenti sui rapporti Chiesa-Stato, quali ad esempio diversi aspetti dell’istruzione cattolica. Non pensiamo, però, che la commemorazione potesse giustificare una convocazione così larga di varie confessioni religiose, esponenti di culti sincretisti, spiritisti, come pure dirigenti della massoneria, che non rappresenta una religione.

Ritengo che la sola cosa che abbiano in comune quelle espressioni religiose, animiste od associative, sia il fatto che siano tutte seguite dallo stesso Ufficio per gli Affari religiosi del Comitato centrale del Partito comunista cubano. Questo ufficio, che presta servizi ai diversi settori religiosi, parareligiosi od associativi di Cuba, non costituisce tuttavia una sorta di massimo organismo che riunisca, in un unico intento, i vari gruppi che ne dipenderebbero.

 

P. N. – In quell’incontro si richiamavano parole pronunciate dall’ex presidente Fidel Castro nell’intervista concessa a frei Betto venti anni fa e raccolta nel libro da lei citato, in concreto: l’appello a una “alleanza strategica” tra cristiani e marxisti per affrontare i mali dell’America Latina. Ora, però, questa “alleanza strategica” sarebbe l’alleanza stabile tra cristiani cubani e le autorità di Cuba per lavorare – si è detto – per il bene della società. Poiché la Chiesa non ha partecipato all’incontro, che cosa risponde all’invito ad instaurare un’alleanza strategica stabile con il governo per il bene della società?

Jaime Ortega – Effettivamente, in quell’occasione si è parlato di un’alleanza strategica, con lo Stato cubano e in vista del bene del popolo, da parte dei diversi gruppi lì riuniti. Non ho mai accettato questi termini in riferimento allo specifico intervento della Chiesa all’interno della società e ai suoi rapporti con i poteri dello Stato, perché presentano echi militari e politici per nulla adeguati a sviluppare i rapporti della Chiesa con lo Stato, dal momento che la possibilità di operare nella società, di servire gli uomini e le donne che vivono nel nostro paese, non dipende da un esplicito o tacito patto sociale della Chiesa con lo Stato.

L’azione della Chiesa nella società rientra nell’ordine dei diritti e il diritto alla libertà religiosa è chiaramente riconosciuto nella Costituzione vigente a Cuba. È dentro questo preciso quadro costituzionale, secondo la sua stessa identità e il suo proprio modo di procedere, che la Chiesa cattolica dispiega la propria missione a Cuba in favore del bene comune. Nella ricerca del bene comune la Chiesa può concordare con istituzioni ufficiali o private, con organismi internazionali di sostegno, ecc., che collaborano al bene generale della nazione cubana; ma l’operato della Chiesa non si basa, né verticalmente né orizzontalmente, su alcuna alleanza, e sgorga invece dal diritto del corpo ecclesiastico di far presente l’amore di Gesù Cristo nel mondo odierno secondo la sua specifica missione.

 

P. N. – Quando la Chiesa parla di bene comune, parla anche di una serie di condizioni favorevoli che consentano il pieno sviluppo della persona che vive in società. Nelle difficili condizioni che attraversa attualmente il paese, che aiuto può fornire la Chiesa alla ricerca del bene comune per l’intera società?

Jaime Ortega – Il nostro paese si trova in una situazione molto difficile, sicuramente la più difficile che abbiamo vissuto in questo XXI secolo. Sulla stampa di Cuba si manifestano opinioni di ogni genere sulla maniera di trovare vie di uscita per le difficoltà economiche e sociali del momento.

Molti parlano del socialismo e dei suoi limiti, alcuni propongono un socialismo riformato, altri si riferiscono a cambiamenti concreti che bisogna realizzare, all’abbandono del vecchio Stato burocratico di tipo stalinista, altri ancora parlano dell’indolenza dei lavoratori, della scarsa produttività, ecc. Esiste però un comun denominatore fra tutti quelli che si esprimono: si effettuino subito a Cuba gli indispensabili cambiamenti per porre rimedio a questa situazione. Io penso che questa opinione ottenga a Cuba una sorta di consenso nazionale ed il rinvio provoca nel popolo impazienza e malessere.

Le difficoltà della crisi economico-finanziaria internazionale sono emerse proprio nel momento in cui Cuba era colpita da tre uragani che hanno prodotto numerose perdite. Sia queste nuove realtà, sia il blocco ormai semicentenario da parte degli Stati Unti si aggiungono alle perenni difficoltà di Cuba derivanti dai limiti del tipo di socialismo praticato qui, configurando un panorama a volte cupo.

 

P. N. – Mi scusi… Crede davvero che il conflitto con gli Stati Uniti segni in modo determinante la vita dei cubani?

Jaime Ortega – Credo che un dialogo Cuba-Stati Uniti sarebbe un primo passo indispensabile per rompere il circolo critico in cui ci troviamo.

All’avvio della sua gestione il presidente Raúl Castro ha proposto agli Stati Uniti questo dialogo senza condizioni e soprattutto i temi, inclusi i diritti umani, ed ha ripetuto in varie occasioni la sua proposta.

Nella sua campagna politica presidenziale, anche Barack Obama ha indicato che avrebbe cambiato stile all’uopo e avrebbe soprattutto cercato di parlare direttamente con Cuba.

In quei momenti sono cresciute le attese del possibile incontro tra i due paesi. Tuttavia, dopo l’avvento al potere, il nuovo presidente nordamericano ha ripetuto il vecchio schema dei precedenti governi. Se Cuba effettuerà cambiamenti per quanto riguarda i diritti umani allora gli Stati Uniti toglieranno il blocco e si aprirebbero spazi per un ulteriore dialogo.

Pur essendosi compiuti importanti passi che hanno cambiato alcune misure imposte dal governo precedente, con l’andar del tempo la proposta pre-elettorale si è andata alterando. È tornata a prevalere la vecchia politica: cominciare dalla fine. Sono convinto che la prima cosa debba essere incontrarsi, parlare, e con il procedere del dialogo si compirebbero passi che potrebbero modificare le situazioni difficili o far superare i punti più critici. È questo il modo civile per affrontare qualsiasi conflitto.

 

P. N. – Nelle ultime settimane questa situazione di scontro si è fatta più acuta, soprattutto a partire dalla morte del prigioniero Orlando Zapata Tamayo in seguito allo sciopero della fame. Almeno un atro cittadino cubano ha ripreso la medesima protesta, le moglie e le madri dei detenuti politici manifestano per i loro cari, e a questo il governo cubano risponde con fermezza… Tutto questo rarefa ulteriormente l’atmosfera. Si può dialogare in queste condizioni?

Jaime Ortega – Il fatto tragico del decesso di un prigioniero per sciopero della fame ha alimentato una guerra verbale dei mezzi di comunicazione di massa degli Stati Uniti, della Spagna,ecc. La forte campagna mediatica contribuisce a inasprire ancora di più la crisi. Si tratta di una forma di violenza mediatica alla quale il governo cubano reagisce a suo modo.

In mezzo a tutto questo, che cosa può fare la Chiesa per il bene comune? Certamente, la sua missione le impedisce di schierarsi semplicemente da una delle due parti che si scontrano, con intenti politici di destabilizzazione, da un lato, con l’arroccamento difensivo, dall’altro lato. Quello che ci spetta come Chiesa è invitare tutti alla prudenza e al buon senso perché si plachino gli animi.

Sappiamo che l’appello alla Pace è, storicamente, inutile in mezzo al fragore della guerra. Ma è l’appello che ha sempre ripetuto la Chiesa, in ogni epoca e di fronte ad ogni conflitto. Il papa Paolo VI ha coniato una frase che conserva in questo caso tutta la sua validità: «Dialogo è il nuovo nome della Pace». In mezzo a questo fuoco incrociato di parole e argomenti, infatti, ad essere colpito è il popolo, stanco e desideroso di un presente e di un futuro più sereno e prospero. Se la nostra voce fosse ascoltata, avrebbe come contenuto un appello al dialogo.

Questo appello lo abbiamo fatto, noi vescovi di Cuba, nella nota che lamentava la tragica morte di Orlando Zapata, nella quale chiedevamo «alle autorità, nelle cui mani sta la vita e la salute dei prigionieri, di prendere adeguate misure perché situazioni come queste non si ripetano e, al tempo stesso, si creino le condizioni di dialogo e di intesa atte a evitare che si arrivi a situazioni così dolorose, che non giovano a nessuno e che fanno soffrire molti». Questo atteggiamento di conciliazione, anche se può apparire infruttuoso, è lo stesso che riproponiamo nel caso di Guillermo Fariñas, l’altro cittadino cubano che ha assunto la stessa forma di protesta: gli chiediamo di interrompere lo sciopero della fame.

 

P. N. – In questo clima di azione-reazione, abbiamo visto crescere fra noi le risposte con qualche forma di violenza contro chi esprime a Cuba il proprio dissenso o la propria protesta, soprattutto nel tanto commentato caso delle “Damas de Blanco”. Che cosa ne pensa?

Jaime Ortega – Non è il momento di attizzare le passioni. Per questo sono penosi gli atti di ripudio verso le madri e le mogli dei vari prigionieri, cui ora si unisce un altro gruppo di donne, tutte note come Damas de Blanco.

Dopo gli atti dolorosi di ripudio avvenuti al momento dell’esodo da Mariel nel 1980, credevo che tutto questo non si riproponesse mai più nella nostra storia nazionale. In quell’occasione, noi vescovi ci siamo incontrati con un alto funzionario del governo che, dopo avere ascoltato le nostra considerazioni su quegli atti, ci disse: “potete stare tranquilli, sono atti destinati a finire, e finiranno molto presto”. Infatti, poco dopo gli atti di ripudio sparirono. Con sorpresa, però, ci accorgemmo che a poco tempo di distanza queste azioni avevano cominciato a ripresentarsi sulla scena nazionale, come pure tra cubani del sud della Florida di fronte ad altri cubani di pensiero diverso, o ad artisti provenienti da Cuba, ecc. Non deve restare nella nostra storia come popolo questo tipo di intolleranza verbale, e anche fisica, come tratto tipicamente cubano. In realtà sono sempre pochi quelli che mettono in scena questi atti, che non esprimono il modo di sentire della maggioranza.

 

P. N. – Tornando ai prigionieri politici, ricordo che per le detenzioni e i processi sommari del 2003 sia la Santa Sede sia i vescovi cubani chiesero alle autorità significativi gesti di clemenza, gesti umanitari verso coloro che avevano avuto lunghe condanne e che erano spediti molto lontano dalle proprie case. La Chiesa continua a manifestare il proprio interessamento per queste persone? C’è qualcosa di nuovo al riguardo?

Jame Ortega – Nei confronti dei prigionieri per motivi politici la Chiesa ha fatto storicamente tutto il possibile perché venissero rimessi in libertà, non solo quelli malati ma anche altri.

Con la partecipazione della Conferenza dei vescovi degli Stati Uniti negli anni ’80, è uscito dal carcere un bel gruppo di prigionieri, che sono partiti insieme ai familiari più stretti per gli Stati Uniti. Considerati tutti insieme, prigionieri e familiari, sono state oltre mille le persone che, in vari voli a spese dei vescovi nordamericani hanno lasciato Cuba. Solo coloro che si erano macchiati di gravi delitti non hanno avuto visti per gli Stati Uniti o altri paesi. Su richiesta del pontefice Giovanni Paolo II durante la sua visita a Cuba, è stato rimesso in libertà un altro bel gruppo di detenuti e sono emigrati quanti hanno ottenuto visti di vari paesi, con la stessa riserva dei delitti ritenuti gravi dai paesi di accoglienza.

Questo è ciò che ha sempre fatto la chiesa con i prigionieri e con tutte le persone colpite in rapporto con loro, ad esempio i familiari. Lo stesso ha fatto per quanto riguarda i cinque cubani detenuti negli Stati Uniti su richiesta dei familiari, facendo pratiche, finora infruttuose, perché almeno due delle mogli che non vedono da quasi dieci anni i loro mariti possano fargli visita. Rispetto a chiunque si trovi in situazioni deplorevoli, indipendentemente dalle cause e dalle ragioni della sua condanna, la missione della Chiesa è sempre quella della comprensione e della misericordia, operando in modo discreto ma efficace perché la situazione delle persone colpite sia superata per molte di esse e per i loro cari, anche se non sempre si raggiungono i risultati sperati.

Insomma, in questo tempo così difficile, la Chiesa a Cuba richiede la preghiera e l’azione di tutti i credenti perché si facciano strada l’amore, la riconciliazione e il perdono tra tutti i cubani di qui e di altre latitudini.

 

[La traduzione è di Titti Pierini. Il testo originale è stato pubblicato ieri nell’articolo La chiesa cubana si muove].