Dall’Ecuador una severa autocritica

 

 

Per varie ragioni la traduzione di questo lucido articolo è stata completata un mese dopo la sua pubblicazione, ma l’attualità delle riflessioni di Marc Saint-Upéry sulle contraddizioni degli esperimenti riformisti latinoamericani è rimasta immutata, anche dopo il sorprendente esito della votazione cilena (su cui rimandiamo all’ottimo articolo di Fabrizio Burattini https://anticapitalista.org/2021/05/18/elezioni-costituenti-in-cile-perde-la-destra-e-crescono-gli-indipendenti/ ).

Le elezioni equadoriane del 2021 e il crollo della narrativa correista.

di Marc Saint-Upéry.

 

Non capita molto spesso che l’Ecuador, un piccolo Paese andino di 17 milioni di abitanti, si trovi sotto i riflettori delle notizie internazionali. Tuttavia, sia l’inserimento della sua traiettoria politico-statale nella “marea rosa” dei governi progressisti latinoamericani sotto i mandati di Rafael Correa tra il 2007 e il 2017, sia il dinamismo ciclico delle sue lotte sociali, e in particolare delle mobilitazioni del potente movimento degli indios raggruppato nelle file della Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (Conaie), gli hanno permesso, anche se sporadicamente, di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica progressista al di fuori dei propri confini. In questo quadro di interesse intermittente limitato da una comprensibile ignoranza delle complessità della situazione locale, il processo elettorale in due turni che doveva decidere chi sarebbe stato il nuovo presidente di questa Repubblica equinoziale nei prossimi quattro anni ha destato nel mondo sia perplessità che aspettative.

 

Il possibile ritorno al potere dei paladini della “Rivoluzione Cittadina” di Rafael Correa – dopo l’elezione di Alberto Fernández in Argentina, il ritorno del MAS alla presidenza in Bolivia e le prospettive aperte dopo la liberazione e lo scagionamento di Lula in Brasile – avrebbe potuto segnare una pietra miliare nell’avvento di una seconda fase della cosiddetta “marea rosa”? Cosa significa l’emergere di una figura come quella del candidato indigeno e ambientalista Yaku Pérez, con il suo notevole risultato di quasi il 20% al primo turno? Perché apparentemente c’è così tanta ostilità tra le correnti alternative di sinistra, ambientaliste e femministe che si sono raggruppate attorno al candidato indigeno e al movimento dell’ex presidente Rafael Correa? Un fronte unito della sinistra era veramente impossibile contro il banchiere conservatore Guillermo Lasso? E come si spiega la sconfitta finale del candidato correista Andrés Arauz contro Lasso, mentre tutte le forze del centrosinistra e della sinistra insieme avevano raggiunto una forte maggioranza nell’Assemblea nazionale ecuadoriana di febbraio? E infine, come si concilia questa chiara sconfitta con l’assoluta certezza, fino all’ultimo, di Rafael Correa e dei suoi sostenitori (nonché dei suoi ammiratori e alleati all’estero) di poter riconquistare il potere marcando il contrasto tra il loro presunto bilancio di dieci anni di promozione del benessere sociale e della sovranità nazionale confrontato col “tradimento” dell’ex compagno di corsa e delfino politico del leader della “Rivoluzione Cittadina”, Lenín Moreno, e alla disastrosa mediocrità del suo governo in un contesto di grave recessione e disastrosa gestione della pandemia attuale?

 

In realtà è impossibile rispondere seriamente a queste domande senza smontare gran parte dei presupposti su cui si fondano, presupposti strettamente legati al monopolio di cui la narrativa correista sulla realtà ecuadoriana ha goduto a lungo nell’opinione progressista internazionale. È questa narrazione dominante, e lo straordinario tessuto di bugie e di mezze verità su cui poggiava, che è appena crollata con la doppia sorpresa dell’emergere di Yaku Pérez e di “un’altra sinistra” al primo turno e della sconfitta finale per mano di un banchiere dell’Opus Dei, che tuttavia è riuscito a catturare al secondo turno i voti di milioni di elettori di settori popolari e di ambienti storicamente identificati con la resistenza al neoliberismo – e molto spesso ex elettori dello stesso Rafael Correa e del suo movimento Alianza País.

 

Forse il modo migliore per sgombrare questo terreno da incomprensioni e razionalizzazioni propagandistiche è evidenziare uno dei più strani paradossi del processo elettorale che l’Ecuador ha appena vissuto. Nel quadro comparativo della storia della sinistra e dei movimenti progressisti del XX e XXI secolo, nel caso di un’elezione presidenziale in cui competono due candidati di sinistra, o che si dichiarano di sinistra, con forze più o meno comparabili (non dico uguali, ma molto comparabili, e potenzialmente alla pari se si considera ciò che i sondaggi prevedevano nel caso in cui Yaku Pérez passasse al secondo turno), non era mai accaduto che il potente e onnipresente padrino politico di uno dei contendenti, Rafael Correa, avesse mandato in prigione il suo concorrente, Yaku Pérez, quattro volte.

 

Occorre comprendere bene il contesto di questa affermazione. Non si tratta di paesi in cui regnava o regna ancora una dittatura monopartitica, come nel caso dell’Unione Sovietica e della Cina, nei quali effettivamente i movimenti di sinistra autonomi o indipendenti che non si inchinano al partito-Stato sono stati o sono ferocemente repressi. Non si tratta nemmeno di un caso paragonabile alle vessazioni e alla repressione esercitate dai socialdemocratici tedeschi alla fine della prima guerra mondiale contro gli spartachisti di Rosa Luxemburg, poiché ciò avvenne nel quadro di una situazione insurrezionale. E ancora, nella guerra di Spagna, il Partito comunista spagnolo e gli agenti locali del regime di Stalin mandarono in prigione, torturarono e massacrarono migliaia di membri del POUM e di militanti anarchici, ma ciò non avvenne nel quadro di una democrazia liberale stabilizzata e in un processo elettorale “normale”. E di certo, fortunatamente, la repressione esercitata contro i movimenti sociali dai governi di Rafael Correa è stata molto meno feroce rispetto a questi tragici episodi storici ed essenzialmente è stata attuata attraverso il totale controllo e manipolazione del sistema giudiziario allo scopo di mettere a tacere avversari e manifestanti. Tuttavia, insisto sul fatto che, nel quadro di contesti politicamente e storicamente comparabili, la traduzione propagandistica e la perpetuazione in una campagna elettorale presidenziale dell’accanimento pluriennale di Rafael Correa e dei suoi sostenitori contro un combattente sociale come Yaku Pérez (e contro centinaia di altri attivisti indigeni, ambientalisti, femministe o sindacalisti) è un caso unico nel mondo della sinistra.

 

Molte cose accadute in questi ultimi tredici o quattordici anni in Ecuador, e le caratteristiche stesse del processo elettorale del 2021, possono essere spiegate solo in relazione a questo evento emblematico che è il riflesso concentrato di una realtà molto più ampia: nella storia della Democrazia ecuadoriana dal suo ristabilimento nel 1979, il correísmo è stato il potere politico più repressivo dai tempi della presidenza della destra dell’amico di Ronald Reagan, León Febres Cordero (1984-1988). Addirittura, in termini di processi giudiziari, è stato probabilmente più repressivo. Chi non capisce ciò non può capire cosa sia appena successo in queste elezioni, né può dissipare molti dei preconcetti errati che stanno dietro l’ingenua formulazione della serie di domande comuni che ho cercato di articolare all’inizio di questo testo.

 

Chiaramente, il sorprendente paradosso che ho appena evidenziato porta a interrogarci sulla natura del movimento correista e sulla presunta “rivoluzione” politica e sociale che ha condotto in Ecuador. La complessità di questo problema non mi consentirà di dilungarmi molto sulle caratteristiche distintive del movimento indigeno ecuadoriano e della campagna di Yaku Pérez, che non intendo idealizzare. Per fortuna nelle scorse settimane sono state pubblicate ottime analisi sull’argomento in diverse testate disponibili online, e invito i miei lettori a fare riferimento ad esse così come agli altri contributi presenti in questo dossier della Revista Rosa. Dirò solo qualcosa su questo tema proprio per evitare visioni eccessivamente idealizzate o romantiche della questione.

 

Chi è Yaku Pérez e cosa esprime la sua avanzata elettorale?

In primo luogo, il lettore non ecuadoriano deve capire che, nonostante le sue radici etniche e la sua carriera di combattente sociale, Yaku Pérez non è una figura tipo Evo Morales. E il motivo per cui Yaku non è Evo è che nel movimento indigeno ecuadoriano, storicamente e strutturalmente, non c’è mai stato un “capo degli indiani”, per dirla in modo un po’ fumettistico. Il movimento indigeno in Ecuador è alquanto decentralizzato, ha una forma praticamente confederale, con forti leadership regionali, e non è mai stato possibile individuare una figura che unisse tutti sotto la sua autorità esclusiva o perlomeno egemonica. Certo, Yaku Pérez ha appena accumulato un certo capitale politico, e come mi ha detto in una recente conversazione l’antropologo e storico Pablo Ospina, è evidente che al prossimo congresso della Conaie (all’inizio di maggio) tutti vorranno farsi scattare una foto accanto al candidato di successo. Tuttavia, ciò non significa che gestire o canalizzare le tensioni e le sensibilità a volte divergenti di questa imponente entità sociale che è Conaie e della sua complessa espressione politica che è Pachakutik sarà un compito molto facile per Yaku Pérez.

 

Infatti, la campagna di Yaku è stata lanciata pochi mesi prima dello scrutinio e in modo un po’ improvvisato, tra forti tensioni interne al movimento indigeno, successive alle sfide strategiche poste dalle mobilitazioni vittoriose dell’ottobre 2019 contro le misure di austerità del governo di Lenin Moreno, e anche in relazione all’atteggiamento da adottare nei confronti del correísmo. Dal mio punto di vista, ci sono stati errori tattici nella campagna di Yaku, debolezze nella compattezza della sua squadra e un certo personalismo del candidato stesso, oltre a carenze a volte evidenti nell’elaborazione della sua piattaforma programmatica e mancanza di consultazione con i settori sociali e professionali che avrebbero potuto contribuire con elementi di valore nel quadro di una costruzione più collettiva e deliberativa. C’è stata anche una discutibile gestione politica e comunicativa sulla questione della possibile frode elettorale che ha impedito a Yaku Pérez di passare al secondo turno. Detto questo, non c’è dubbio che, nella scena politica ecuadoriana, il Pachakutik e il suo candidato, oltre ad essere espressione della diversità etnoculturale dell’Ecuador, hanno costituito la forza più democratica, più progressista, più ambientalista e persino la più avanzata in termini di uguaglianza di genere, ecc.

 

Un aspetto interessante della campagna di Yaku Pérez è che, nonostante il fatto che il candidato presidenziale indigeno rappresentasse un movimento politico che esiste da 25 anni e una realtà sociale con 500 anni di storia, la sua capacità attrattiva verso settori che si collocano ben oltre il mondo indigeno (che rappresenta circa il 7% della popolazione dell’Ecuador, sebbene il significato preciso di questa cifra debba essere preso con una certa cautela in una società meticcia con confini etnoculturali e forme fluide e complesse di autoidentificazione), quali il mondo giovanile e settori del ceto medio urbano, ha espresso il fatto di essere percepito come un outsider, una persona nuova. Possedeva sia un patrimonio di lotte sul territorio sia una reputazione di onestà personale che sembrava svincolarlo completamente dalla “vecchia” politica. Questo fatto è un po ‘paradossale, perché in realtà la sua proposta non era veramente “nuova”, nel senso di una cosa del tutto insolita in Ecuador o emersa dal nulla, ma in un certo senso era vista come tale. Va notato che in parte la stessa cosa si è verificata anche per un altro candidato, l’uomo d’affari Xavier Hervas, un personaggio totalmente sconosciuto e forse discutibile ma che miracolosamente ha fatto rivivere una morente socialdemocrazia ecuadoriana con un sostanziale 16% dei voti. Possiamo giudicare relativamente incoraggiante il fatto che, nell’America Latina di oggi, emergano nuove figure che non erano state molto presenti nella scena politica precedente e che per una volta queste figure, questi outsider, non sono demagoghi reazionari o fascisti come Bolsonaro e altri politici “nuovi” nel continente.

 

Un grande merito del candidato Yaku Pérez è di aver percepito intuitivamente, ed espresso in vari aspetti della sua campagna tinte di una certa freschezza “ludica”, dato che l’elettorato ecuadoriano era alla ricerca di nuove figure non segnate dal carattere reazionario della destra tradizionale rappresentata da Guillermo Lasso, ma anche che non evocassero il passato repressivo del correismo e le sue false promesse.

 

 

Anatomia del correismo.

Concentriamoci ora proprio sulla natura del movimento legato alla figura travolgente di Rafael Correa. Forse la miglior “introduzione” a questo fenomeno consiste nel riprendere uno degli elementi più centrali della narrativa del correista dal 2017. Ci viene detto quanto segue: c’è stato in Ecuador tra il 2007 e il 2017 un importante governo progressista che ha rappresentato la maggior parte o la quasi totalità delle forze progressiste – il che, come abbiamo appena visto, è abbastanza lontano dalla verità. Ma sfortunatamente, ci spiegano, è successo che nel 2016 e nel 2017 il loro leader indiscusso ha nominato “per errore” un candidato presidenziale, Lenín Moreno, che era stato il suo primo vicepresidente, ma che senza scrupoli ha “tradito” l’eredità della “Rivoluzione Cittadina”. Si tratta di una narrazione totalmente falsa per il seguente semplice motivo: quando Moreno iniziò a prendere le distanze da Correa per vari motivi – essenzialmente per ragioni di sostenibilità politica ed erosione strutturale del progetto correista -, i due terzi dei legislatori di Alianza País (alla fine 51 su 74) si sono uniti al “traditore”. La stessa proporzione ha prevalso più o meno in varie aree di attività del personale politico correista (istituzioni locali, ecc.). Ciò che questo presunto “tradimento” riflette non è la perversità idiosincratica di un “Giuda”, di un individuo isolato, ma piuttosto l’assoluta mancanza di organicità politica, programmatica e ideologica del movimento correista. L’unica cosa che univa i suoi membri era il carisma e l’autorità del caudillo personalista ed i mieli del potere, e una volta che questo carisma e questa autorità si indebolirono, anche con un lento ma costante declino elettorale che Arauz non fu in grado di contrastare quattro anni dopo, e dopo che Lenín Moreno prese le redini del governo, allora centinaia di quadri lasciarono l’ovile del correista senza pena né gloria.

Non sto dicendo che il progetto politico di Rafael Correa di per sé fosse totalmente privo di coerenza ideologica e programmatica. Sto dicendo che, oltre alle sue carenze e contraddizioni ideologico-programmatiche e ai suoi gravi errori di esecuzione, il personale politico su cui si basava aveva per lo più un carattere “fisiologico”, per riprendere un’espressione del portoghese-brasiliano estremamente utile in questo caso. Prima di approfondire questo aspetto, va notato che, in primo luogo, è impossibile entrare qui nei dettagli del bilancio economico e sociale della “Rivoluzione Cittadina”, che è piuttosto controverso nello stesso Ecuador. I confronti internazionali mostrano, ad esempio, che la riduzione della povertà e della disuguaglianza di cui si vantano i difensori di Correa durante il periodo 2007-2017 è stata maggiore o equivalente in diversi vicini sudamericani dell’Ecuador con presunti governi “neoliberali”, come Perù e Colombia. Nonostante una serie di lodevoli ma piuttosto modeste iniziative redistributive, sembrerebbe che il miglioramento di breve durata della situazione sociale degli ecuadoriani durante la prima metà del decennio di Correa sia stato principalmente un riflesso del boom delle esportazioni di materie prime.

 

In secondo luogo, senza alcun dubbio, si deve riconoscere che una tale dimensione ideologico-programmatica esisteva nella cupola tecnocratica del correismo, con elementi di una visione keynesiana e di teorie dello sviluppo (desarrollismo) e certe velleità redistributive, nonché una curiosa miscela di fascinazione verso l’innovativo dinamismo delle economie dell’Asia orientale, di una nostalgia più decorativa che reale per l’epica e la simbologia della sinistra continentale dei tempi “eroici” (rivoluzione cubana, Che, ecc.) e, soprattutto, di attaccamento a un discorso più “creolo” che non definirei populista – perché non mi piace la parola e non mi sembra un concetto politico molto euristico -, ma che fa parte di una matrice ideologica che gli argentini chiamano solitamente “nazional-popolare” ( e che naturalmente ha nel peronismo storico una delle sue espressioni continentali più emblematiche). Tuttavia, il correismo era il meno organico di tutti i movimenti nazional-popolari, il meno radicato in strutture organizzative e territoriali durature con un forte livello di adesione da parte delle grandi masse, il più “attaccato con la saliva”, come si dice volgarmente in spagnolo, e, più precisamente, attaccato alla saliva del caudillo che parlava e parlava letteralmente tutto il tempo e il cui verbo intemperante e a volte del tutto strampalato o apertamente reazionario ha colonizzato lo spazio pubblico per dieci anni. A tal punto da perdere la sua seduzione iniziale e produrre nella stragrande maggioranza della popolazione un insormontabile esaurimento (indigestione, disgusto) che si è chiaramente manifestato nuovamente nel corso della campagna 2021 e nel risultato delle elezioni.

 

Il carattere fortemente ambiguo, incoerente e talvolta puramente retorico di questo profilo ideologico-programmatico ci rimanda quindi alla dimensione “fisiologica” di cui parlavo prima. Si può stimare approssimativamente (non pretendo di offrire una certezza scientifica) che almeno la metà del personale politico del correismo provenisse dal riciclaggio di membri della classe politica-imprenditoriale tradizionale, nonché da un gruppo sociale di arrivisti che non erano né di sinistra né di destra, ma che stavano lì per trarne profitto o per avere accesso al sistema di potere, con qualche contaminazione anche di elementi mafiosi e criminali. Stimerei la proporzione di questo personale politico “fisiologico” tra il 50% e il 60%. Il resto consisteva in una parte di quadri della vecchia sinistra intrisi di concezioni molto antiquate, autoritarie, centraliste, verticiste e persino cripto-staliniste e, d’altra parte, da uno strato di tecnocrati che aderivano al progetto correista per ragioni molto varie di natura ideologica, programmatica, ma anche sentimentale o addirittura per legami familiari (Andrés Arauz è un tipico rappresentante di quest’ultimo gruppo).

 

Con queste caratteristiche, non c’era da sorprendersi che i governi e l’entourage di Rafael Correa, oltre alle loro pratiche repressive, fossero anche estremamente corrotti. Certo, Rafael Correa non ha inventato la corruzione in Ecuador, e in nessun modo ha cessato di esistere da quando ha lasciato l’incarico. Ma il suo mandato è stato caratterizzato da un volume senza precedenti di malversazione di fondi pubblici. Questa orgia predatoria legata a un volume di entrate petrolifere senza precedenti nella storia del paese è stata accompagnata da una strategia di feroce intimidazione e spietata repressione giudiziaria contro chiunque avesse osato mettere in dubbio la correttezza dei circoli di potere del regime. Nei governi precedenti (prima del 2007), spesso fondati su coalizioni fragili e circostanziali, le rivalità tra clan e fazioni rendevano sempre possibile la denuncia di casi di corruzione, la loro esposizione pubblica e la loro possibile sanzione giudiziaria, sebbene con risultati concreti variabili. Ma criticare o denunciare la corruzione di questo o quel ministro o funzionario di Correa significava mettere in dubbio la “rivoluzione” stessa. La strategia del presidente consisteva quindi non solo nel negare aggressivamente i fatti, ma anche nell’attaccare brutalmente i suoi detrattori con tutti i media e le risorse legali a sua disposizione, in una logica di violazione sistematica della separazione dei poteri e di grossolana manipolazione dei tribunali. Spesso, i processi futuri venivano annunciati dallo stesso Rafael Correa nel suo programma televisivo del sabato “Enlace Ciudadano” (una specie di programma equivalente a quello di Hugo Chávez: Alo Presidente”) ancor prima che i magistrati applicassero coscienziosamente la “linea” suggerita dalle “indicazioni” del presidente.

 

Per concludere con questo argomento, forse è conveniente lasciare la parola a una delle figure più rispettate della sinistra ecuadoriana, Juan Cuvi, che è stato assistente parlamentare di Alianza País nell’Assemblea Costituente del 2008. Questo ex leader dell’organizzazione di guerriglia Alfaro Vive Carajo negli anni ’80, descrive i meccanismi di corruzione del regime correista come segue: “Personaggi oscuri e piccole gang avide che si trinceravano dietro un discorso di sinistra, prepararono il terreno per l’enorme saccheggio di fondi pubblici avvenuto durante lo scorso decennio. […] La discrezionalità giuridica e l’autoritarismo sono state le armi più efficaci per facilitare la corruzione e sostenere l’impunità. Una volta concordata la strategia, fu istituito un sistema di opacità finanziaria che è venuto alla luce solo quando i suoi principali operatori hanno dovuto farsi da parte. E quando le casse pubbliche furono svuotate […] imbevuti di un rozzo messianismo, i funzionari del correismo che si credevano intoccabili, eterni, adesso non capiscono, e tanto meno accettano, che sia la società stessa a far pressione perché vengano cacciati dai loro incarichi. E non capiscono nemmeno perché gli venga chiesto di rendere conto del saccheggio”.

 

Le contraddizioni della comunicazione correista.

Mentre tutto ciò che ho appena esposto era sempre stato sistematicamente e aggressivamente negato dai difensori della narrativa correista, il 22 febbraio 2021, nel Notiziario 24 Horas del canale ecuadoriano Teleamazonas, Andrés Arauz rilasciò sorprendenti dichiarazioni autocritiche: “Abbiamo preso atto dei molti errori commessi durante il governo di Rafael Correa, e speriamo che anche Pachakutik possa vederci come un’opzione per una possibile cooperazione futura … Tra questi “errori”, ha citato “la criminalizzazione della protesta sociale” e “la questione dei progetti estrattivi nel nostro Paese”. Ha anche ammesso che nei confronti dei mezzi di informazione, nel governo di Alianza País, “anche qui ci sono stati degli eccessi, credo che la sfera amministrativa non fosse necessaria per regolamentare i contenuti della stampa”, alludendo eufemisticamente ai numerosi dispositivi di intimidazione, di censura e di sanzione del giornalismo indipendente messa in atto dall’apparato di controllo correista. Non ha parlato di corruzione, ma nella sua piattaforma programmatica ha avanzato proposte anti-corruzione che sembravano involontariamente (o no?) alludere a pratiche passate ben note dei membri del suo gruppo politico.

 

La questione di sapere se le dichiarazioni di Arauz fossero “sincere”, ovviamente, non ha senso. Quello che conta è il suo carattere sintomatico e “performativo”: una volta che il candidato del correismo lo ha affermato, ciò ha legittimato a posteriori tutti i discorsi sullo stesso tema degli oppositori del regime di Rafael Correa. Ma sotto il mandato del leader della “Rivoluzione Cittadina”, ogni volta che un attivista sociale o un giornalista esprimeva esattamente queste stesse innegabili verità, veniva denunciato, attaccato e calunniato dal gigantesco apparato di propaganda correista e, a volte, perseguitato dai tribunali al servizio del regime. Nel settembre 2015, io stesso sono stato attaccato e minacciato – fortunatamente senza grandi conseguenze – dal presidente ecuadoriano nel suo programma televisivo del sabato Enlace Ciudadano (un programma equivalente a “Alo Presidente!” di Hugo Chávez) per aver scritto insieme all’antropologo francese Didier Fassin e pubblicato sul quotidiano Le Monde una tribuna critica sulla repressione della protesta sociale e sullo stato delle libertà civili in Ecuador.

 

Il discorso conciliante di Arauz si è accentuato alla vigilia del secondo turno, poiché sapeva che in caso di vittoria non avrebbe avuto la maggioranza parlamentare e aveva bisogno dei voti di Pachakutik per far prosperare molte delle sue iniziative legislative. Tuttavia, allo stesso tempo, i guerrieri digitali e le fabbriche di troll correisti – che funzionano con le stesse identiche modalità dei dispositivi equivalenti gestiti dai servizi di Vladimir Putin in Russia o dagli uffici di Carlos Bolsonaro in Brasile -, hanno continuato con la loro valanga di “fake news“, di calunnie deliranti contro Yaku Pérez e la sua compagna Manuela Picq, e di messaggi di insulti e intimidazioni ad attivisti sociali e giornalisti critici nei confronti del correismo: “Il tuo tempo sta per finire”, “Meglio che fai le valigie e trovi un altro posto dove andare a vivere “,” Non appena Correa tornerà, dovrete scappare come topi “, ecc., ecc.

 

Ma nel 2021, a differenza di quanto accaduto dieci anni fa, quando la società civile ecuadoriana era terrorizzata dall’aggressività dell’apparato di comunicazione correista e di guerra digitale, dalle sue operazioni di assassinio simbolico e dalla sua funzione di aiuto e preparazione alla persecuzione giudiziaria dei suoi avversari indios, sindacalisti, ambientalisti, femministe, giornalisti investigativi, ecc., l’eccesso di propaganda correista ha avuto l’effetto inverso di minare il discorso apparentemente conciliante e rinnovatore di Andrés Arauz e di resuscitare lo spettro dello straripante autoritarismo e l’arbitrio del suo padrino politico. In queste condizioni, per i settori più avanzati del movimento sociale e della sinistra democratica, è diventata impossibile una convergenza progressiva con Arauz nel secondo turno elettorale, il che spiega l’indicazione di voto nullo di Pachakutik e Conaie.

 

Una indicazione che non è apparsa sufficiente alla maggioranza della base indigena e urbana degli elettori di Yaku Pérez, dal momento che, a quanto pare, molti di loro hanno preferito votare per il candidato di destra Guillermo Lasso, che avrebbe offerto maggiori garanzie di rispetto del processo democratico e dei diritti delle organizzazioni sociali. Da ciò è derivato, analogamente al primo turno, il naufragio elettorale delle truppe di Correa / Arauz nella Sierra ecuadoriana, una regione che ha il tessuto più denso di movimenti sociali e organizzazioni progressiste della società civile. Nel frattempo, Arauz vinceva solo sulla costa, territorio di capiclan trasformisti – ex rappresentanti della destra o del populismo di Abdalá Bucaram opportunisticamente convertiti al correismo – e di una certa anomia popolare.

 

Nelle zone indigene della Sierra centrale, così come in molte città della regione, il voto è stato di 2 a 1 a favore di Lasso. Questo significa che sia gli indigeni ecuadoriani che gli abitanti delle città andine sono stati sedotti e convinti dal rappresentante guayaquilegno del capitale finanziario ? No, ma il ricordo del caudillismo, della repressione, della corruzione e delle false promesse del correismo ha prevalso sulla nostalgia per il breve periodo di “gocciolamento” o “trickle down” redistributivo – in realtà relativamente scarso e altamente sovrastimato dalla narrativa correista – dovuto all’eccezionale boom petrolifero che l’Ecuador aveva sperimentato fino al 2013. E nella classe media urbana progressista, oltre allo stesso rifiuto dell’autoritarismo, un’ulteriore avversione fu provocata dal già citato “trogloditismo di genere” di Rafael Correa.

 

Ciò che il pubblico internazionale spesso fatica a comprendere è che da più di quindici anni gli ecuadoriani si sono assuefatti a questo tipo di insulti surreali da parte del presunto ex presidente “progressista” : contro le donne, contro i gay, contro gli indios, contro gli ambientalisti, contro i sindacalisti, contro ”la sinistra infantile”, contro i “giornalisti corrotti”, in un torrente di epiteti offensivi più o meno creativi che non ha molto da invidiare allo stile di Donald Trump. E a differenza di Trump, Correa è stato in grado, in misura molto maggiore, di ignorare la separazione dei poteri e di mobilitare le risorse istituzionali e giudiziarie per tradurre in pratiche punitive alcune delle sue minacce.

 

La sinistra latinoamericana nel suo labirinto.

Uno dei paradossi della situazione ecuadoriana è che, nonostante il fatto che le conseguenze del regime di Rafael Correa siano state relativamente meno repressive e molto meno catastrofiche della traiettoria di molti dei suoi partner della moribonda ALBA (Alleanza Bolivariana dei Popoli della Nostra America) – in particolare Venezuela e Nicaragua ovviamente -, il consolidamento in questo piccolo Paese andino di una sinistra alternativa rispetto ai classici “progressivismi” emersi all’inizio del XXI secolo lo rende un caso emblematico. Il voto a sorpresa di Yaku Pérez e la scoperta da parte di osservatori internazionali di contraddizioni tra “due sinistre” di cui spesso non si sospettava l’esistenza o la si sottovalutava hanno conferito al “caso ecuadoriano” una dimensione paradigmatica che mette in discussione non solo la narrativa della “rivoluzione cittadina” di Rafael Correa, ma tutto il discorso della sinistra continentale.

 

Per la prima volta, chi di noi ha voluto da tempo mettere il dito sulla piaga delle gravi carenze – e anche, in alcuni casi, dei crimini – dei governi “progressisti”, adesso non si sente più completamente isolato e vittimizzato, trattato da “agente della Cia” o da “mercenario dell’Impero” e con altri epiteti pittoreschi da parte dei piccoli commissari politici di una sinistra cavernicola la cui egemonia si mantiene ancora nel continente. Ora possiamo fare affidamento sui progressi e sul discorso di un movimento politico alternativo fortemente ancorato nei settori popolari più combattivi e più legittimi di una nazione latinoamericana con una storia di lotte degna di interesse. Inoltre, nonostante le sue dimensioni e il suo carattere apparentemente periferico, l’Ecuador di Yaku Pérez e di Andrés Arauz si confronta in modo particolarmente acuto ed esemplare con alcuni dei problemi emergenti più importanti del Sud del mondo, come la crisi dei modelli di sviluppo estrattivisti, le sfide del colonialismo interno, le tentazioni del neo-autoritarismo e il potere crescente della Cina.

 

Negli ultimi anni, la concomitanza della infinita crisi venezuelana, le disavventure della “Rivoluzione Cittadina” in Ecuador e le battute d’arresto del Partito dei Lavoratori brasiliani (PT) non hanno purtroppo aiutato a generare risposte creative al declino dei governi progressisti da parte della sinistra latinoamericana. La povertà dei dibattiti e delle risoluzioni della 24a e 25a Assemblea del Forum di San Paolo (2018 e 2019), e il fatto stesso che questi incontri si siano tenuti a L’Avana e a Caracas, hanno contribuito a questa ritirata ideologica, che ha lasciato poco spazio ad una valutazione riflessiva sulle esperienze degli ultimi quindici o vent’anni e delle loro battute d’arresto. La difesa incondizionata dei regimi di Nicolás Maduro e Daniel Ortega espressa in queste occasioni e in tante altre non è altro che una logica conseguenza di questa deriva.

 

Il pretesto ‘dell’imperialismo” come giustificazione per serrare le file con governi criminali o impresentabili mostra un’intelligenza analitica molto debole riguardo alle nuove dinamiche di detto “Impero”. Oltre all’incomprensione del livello di disorganizzazione strategica della presidenza Trump e alle tensioni che ha scatenato all’interno dell’establishment diplomatico del Nord Atlantico, una parte della sinistra latinoamericana rimane convinta che il suo “antimperialismo” in gran parte retorico (fino al 2019, il flusso di petrolio tra Venezuela e Stati Uniti non è stato mai interrotto, né con Chávez né con Maduro), non lasci dormire in pace i funzionari del Pentagono e del Dipartimento di Stato. In effetti, da quasi due decenni, c’è stato un relativo distacco di Washington dal suo “cortile di casa”. Con la parziale eccezione del Messico – a causa dei problemi della migrazione e del traffico di droga -, lo spazio latinoamericano è oggi per Washington una preoccupazione molto minore rispetto a quella verso le regioni dell’Asia-Pacifico e del Medio Oriente. Di fronte all’impressionante penetrazione economica della Cina, che ha sostituito gli Stati Uniti come principale investitore e partner commerciale nella maggior parte dei paesi della regione, c’è stato un vero e proprio declino della capacità di proiezione del potere di Washington, qualunque siano le opzioni ideologiche dei suoi vicini del Sud: di fatto, sono aumentati gli investimenti e la presenza cinese in Brasile e Argentina con Temer e Macri rispetto a quelli che erano con Lula/Dilma e i Kirchner, ed i tentativi di Bolsonaro di svincolarsi dall’ombra di Pechino non sembrano aver ottenuto un gran successo, né trovano molto entusiasmo tra i suoi colleghi militari.

 

Un’altra certezza autoappagante che gode di una certa aura di verosimiglianza nella sinistra regionale, ma che viene messa in discussione dagli eventi ecuadoriani, è l’idea di una cospirazione giudiziaria internazionale da parte della destra più reazionaria contro gli ex presidenti progressisti sudamericani. In un articolo molto illuminante pubblicato alla fine del 2018, il direttore dell’edizione del Cono Sud di Le Monde diplomatique (una pubblicazione chiaramente identificata con il campo progressista), José Natanson, ha smontato il discorso semplificatore che denuncia il “lawfare” come “uno strumento delle élite per attaccare i partiti e i leader popolari, un’arma esclusiva della destra contro la sinistra “. Per Natanson, i contorni del caso Lava Jato in Brasile mostrano, prima di tutto, che la realtà è, come minimo, complessa: da un lato, la condanna di Lula può essere giudicata estremamente selettiva e infondata (come ovviamente hanno dimostrato gli sviluppi più recenti) senza negare che molti leader del Partito dei Lavoratori brasiliani (PT) conoscessero le trame della corruzione vincolate al gigante dell’edilizia Odebrecht o alla compagnia petrolifera nazionale Petrobras.

 

Ma d’altra parte, come sottolinea anche Natanson, l’ondata di grandi processi per corruzione in America Latina negli ultimi anni ha colpito leader di destra come Pedro Pablo Kuczynski in Perù e Otto Pérez Molina in Guatemala, entrambi costretti a dimettersi; quest’ultimo ha addirittura denunciato con forza “un’applicazione selettiva della giustizia penale da parte … della sinistra”. E soprattutto, come sottolinea il direttore del Dipló di Buenos Aires, “se c’è un Paese dell’America Latina dove la giustizia funziona come uno strumento del governo, quel posto è il Venezuela”, poiché “le persecuzioni giudiziarie degli oppositori sono più frequenti [lì ] che in qualsiasi altro paese della regione ”.

 

Questa è, purtroppo, la triste verità. Durante l’ultimo decennio, è stata la “sinistra” (o almeno i governi correttamente o erroneamente identificati come “sinistra”) il campione della lawfare in America Latina. E da questo punto di vista, potremmo fare a Natanson un’obiezione minore, ma sicuramente molto significativa nell’ambito della nostra problematica. L’arsenale repressivo del Venezuela di Nicolás Maduro comprende anche un uso massiccio di violenza fisica, tortura ed esecuzioni giudiziarie. Al contrario, e nella misura in cui, fortunatamente (bisogna riconoscerlo), Correa non è mai caduto negli eccessi della repressione “fisica” dei suoi omologhi venezuelani e nicaraguensi, è invece l’Ecuador della” Rivoluzione Cittadina” che ha incarnato meglio in America Latina – qualitativamente e quantitativamente – la strumentalizzazione e l’abuso massiccio e sistematico del sistema penale per perseguire, come abbiamo visto, centinaia di oppositori politici, attivisti sociali e giornalisti investigativi.

 

Per questo motivo, i milioni di ecuadoriani che hanno respinto nelle urne il possibile ritorno di queste pratiche nefaste vedono come particolarmente osceno lo spettacolo degli sforzi di Rafael Correa di farsi passare per un martire innocente di una feroce persecuzione giudiziaria, quando quasi tutti in Ecuador (inclusa una parte sostanziale degli elettori correisti) sono perfettamente consapevoli della portata della corruzione della “Rivoluzione Cittadina”, come abbiamo già commentato. Quindi non sorprende che l’accordo parlamentare progressista che Pachakutik ha appena promosso a Quito con la Sinistra Democratica, oltre a difendere le conquiste sociali del popolo ecuadoriano e lottare contro le possibili tentazioni di privatizzazione del governo entrante di Lasso, abbia tra i suoi assi il rifiuto di ogni tentazione di minimizzare o scagionare i gravi atti di corruzione dei governi precedenti, sia che si tratti del periodo di Lenín Moreno o del decennio correista.

 

Il vicolo cieco della doppia morale.

Al di là di queste questioni geopolitiche o giudiziarie, si comprenderà allora che, visti dall’Ecuador di Yaku Pérez, del Pachakutik e dei movimenti sociali che hanno combattuto con tanto dolore e sacrifici, ma ottenendo il successo finale, contro l’autoritarismo di Correa, la quasi incrollabile solidarietà di gran parte della sinistra continentale con Caracas, con Managua e con la defunta “Rivoluzione Cittadina”, così come la rimozione del problema della corruzione nei ranghi progressisti, appare come una prospettiva miope che sottovaluta seriamente la crisi ideologica, strategica e morale del campo popolare latinoamericano. Contrassegnato dalla cecità ideologica di alcuni e dai calcoli opportunistici di altri, questa negazione della realtà evoca la reazione di incredulità e di stupore che provocò, nel 1989 e negli anni successivi, il crollo dei regimi “socialisti” dell’Europa orientale e di buona parte dei suoi clienti e alleati nel Sud del mondo. Salvo rare eccezioni, come quelle di alcuni quadri e intellettuali della Unidad Popular cilena che vivevano in esilio nella Germania dell’Est, questa serie di eventi provocò nella sinistra latinoamericana solo reazioni di giustificazione autocompiacente o piuttosto di modeste razionalizzazioni a posteriori. Per alcuni, “l’Unione Sovietica era stata vittima di una cospirazione imperialista”; per altri – a volte gli stessi -, “in realtà, qui, non abbiamo mai avuto a che fare con il modello sovietico” – una manovra di auto-discolpa troppo comoda e del tutto priva di credibilità.

Questa politica di nascondere la testa sotto la sabbia non può che approfondire la confusione etica e il deficit progettuale della sinistra continentale, erodendone la credibilità tra i settori popolari e le classi medie salariate, che ne sono la base naturale. Questa apparente negazione della realtà non è esente da una certa schizofrenia tra quanto si dice in privato e quanto si afferma in pubblico. In Ecuador, molti quadri correisti sono perfettamente disposti ad ammettere con discrezione tra conoscenti che Rafael Correa è un autocrate narcisista ed irascibile che ha coperto la corruzione di molti dei suoi collaboratori ed è diventato completamente disfunzionale per il possibile rinnovo dello stesso progetto della “Rivoluzione Cittadina”. E in molti paesi, vari esponenti della sinistra riconosceranno nelle conversazioni private che il Venezuela è un disastro di portata senza precedenti nella storia contemporanea dell’America Latina, e anche che l’idea che “la colpa è dell’Impero” è uno scherzo di cattivo gusto. Ma rifiuteranno categoricamente di fare la minima critica pubblica al governo di Nicolás Maduro e ancor meno alle tragiche e fatali distorsioni del processo democratico e della razionalità economica introdotte a suo tempo in Venezuela da Hugo Chávez.

 

Questo tipo di doppio discorso più o meno accettato è molto più diffuso oggi di quanto si creda. Sebbene i suoi difensori probabilmente lo vivano come un misto di fedeltà ai simboli storici e di necessità tattica, ci si potrebbe chiedere se questa schizofrenia morale e ideologica non avrà conseguenze terribilmente disastrose per un qualsiasi futuro progetto progressista o di sinistra in America Latina. Abbiamo già visto nell’Europa orientale cosa succede quando un’ortodossia politico-ideologica apparentemente incrollabile coincide con livelli abissali di cinismo e opportunismo, accompagnati da un silenzioso e massiccio crollo della fiducia popolare. Come ha sottolineato alcuni anni fa un ex ministro di Hugo Chávez:

 

“le persone che oggi subiscono i danni della penuria, della speculazione e dell’inflazione sono arrivate alla conclusione che “se questa calamità è il socialismo, allora è meglio vivere nel capitalismo”. Ci vorrà molto tempo prima che i settori popolari più umili tornino a credere nel socialismo come mezzo per realizzare una società libera dalla disoccupazione, dalla povertà e dall’esclusione sociale. Questo è già accaduto nei paesi del cosiddetto socialismo del XX secolo, ma l’avanguardia chavista non ha imparato quella lezione.”

Non è solo la stragrande maggioranza dei cittadini della Repubblica Bolivariana a trarre oggi queste conclusioni, ma una buona parte di quei “settori popolari più umili” che osservano la catastrofe dai paesi vicini – e possono anche contemplare nelle proprie strade il terribile spettacolo della miseria e della disperazione di milioni di venezuelani espulsi dalla loro patria martirizzata dalla fame, dalla violenza e dalla repressione. A maggior ragione hanno il diritto di indignarsi per lo scandaloso silenzio o per ‘”l’afasia” della sinistra che viveva sotto le menzogne di un governo complice e alleato del regime militar-mafioso di Caracas, come è accaduto nel caso dell’Ecuador di Rafael Correa.

 

In breve, ciò che ci suggeriscono le polemiche che hanno provocato l’emergere a sorpresa di Yaku Pérez nel processo elettorale ecuadoriano e il crollo della narrativa correista è che non possiamo più continuare a evitare e a tergiversare. Se la sinistra latinoamericana non affronta con un minimo di umiltà e onestà intellettuale il bilancio reale e contrastato delle esperienze degli ultimi due decenni per ricostruire un progetto credibile e mobilitante, è molto probabile che si troverà davanti alle sue società in una situazione di demoralizzazione e paralisi descritta in una forma inquietante da una barzelletta sovietica dei primi anni ’90. In questa vignetta che fa riflettere, due membri di base del Partito Comunista Sovietico, Ivan e Boris, si incontrano per strada, e Boris confessa così il suo sgomento al suo partner:” Ivan, siamo veramente fottuti, pensa che ho appena appreso che tutto quello che ci hanno detto sui benefici del socialismo era falso, e tutto quello che ci hanno detto sui mali del capitalismo era vero “.

Traduzione di Giona Di Giacomi