Fabbriche recuperate

Una recente assemblea nella “Casa Rossa occupata” di Massa sulle forme di autorganizzazione operaia, in cui si è parlato di esperienze vicine come la Maflow, o lontane nel tempo e nello spazio, come le Empresas recuperadas argentine o venezuelane, mi ha fatto riprendere in mano un bel libro che avrei voluto recensire da tempo: Elvira Corona, Lavorare senza padroni. Viaggio nelle imprese «recuperadas» d’Argentina, EMI, Bologna, 2011.

Lo faccio ora volentieri, sia perché è un libro utilissimo, sia perché sul sito ho parlato relativamente poco di Argentina, concentrandomi in genere soprattutto sulle sue vicende politiche e sul debito. Avevo scritto qualcosa su un’esperienza pilota del Venezuela, la Sidor, almeno per sottolineare la capacità dei lavoratori di far cambiare l’orientamento del governo, ottenendo l’appoggio di Chávez alla nazionalizzazione contro il parere del ministro del Lavoro, e per sottolineare successivamente che la nazionalizzazione era stata però costosissima, e quindi conveniente per i proprietari, gli italo argentini della Techint, che tra il 2008 e il 2009 avevano ottenuto dallo Stato quasi due miliardi di dollari come indennizzo. E l’esperienza era deludente, anche perché accanto al controllo operaio si delineavano i controlli e le ingerenze dei funzionari statali, e a quanto mi hanno detto dei compagni locali, erano apparse anche tendenze a gestire la fabbrica con metodi capitalistici, perfino nei criteri di assunzioni e licenziamenti.

Questo proprio perché l’atteggiamento del governo bolivariano era diverso da quello argentino: in Argentina praticamente la quasi totalità delle fabbriche recuperate, anche se resistono da dieci e più anni, non hanno mai avuto il riconoscimento della proprietà dell’azienda, e sono sempre appese a un filo, ma più indipendenti.

È interessante l’osservazione che fa uno dei lavoratori intervistati da Elvira Corona (il libro è strutturato in quindici interviste a protagonisti di aziende diverse in varie città argentine), che era stato più volte in Venezuela e vi aveva incontrato il presidente Chavez. Alla domanda dell’intervistatrice, che aveva avuto l’impressione che in Venezuela le imprese fossero molto più legate allo Stato, Eduardo Murúa, dell’IMPA (Industrias metalúrgicas y plasticas argentinas), risponde: “sì, in realtà noi abbiamo avuto una discussione molto intensa con lo Stato venezuelano e con i lavoratori, perché non è colpa solo dello Stato. Se oggi non c’è l’autogestione è perché anche i lavoratori accettano questa forma di cogestione. Noi abbiamo detto la nostra, facendo presente che questa condizione avrebbe creato dei problemi sia allo Stato che ai lavoratori, perché in definitiva si riduce a una gestione statale. Non solo per la forte presenza dello Stato che naturalmente vuole gestire le cose, ma anche per l’approccio dei lavoratori che dicono: «Ok, è andato via il padrone capitalista e adesso se ne fa carico lo Stato, e allora che ci pensi lo Stato ai salari, alla produzione, all’organizzazione».”

Ovviamente questo comporta l’indifferenza per i problemi di organizzazione dell’impresa, per gli acquisti e le vendite. “In pratica, l’autogestione non esiste. Fanno il loro lavoro come lo facevano prima, come sotto un padrone di un’impresa capitalista.”

È vero che, osserva lo stesso Murúa, anche in Argentina è stato necessario discutere con “i nostri compagni che poi hanno deciso di avvicinarsi allo Stato”, con una certa preoccupazione: “Che lo Stato appoggi, che sia presente, che compri la produzione, che partecipi con capitali di lavoro, ecc., va bene, va tutto bene; però l’autogestione per noi è la cosa più importante”.

In realtà da molte interviste risulta un quadro molto variegato, sia per la esistenza di diversi coordinamenti di fabbriche di fatto in concorrenza tra loro, sia per la diversità dei problemi: una delle più note, almeno col vecchio nome di Zanon (ora si chiama Fasinpat), è cresciuta a 420 lavoratori mentre ne aveva solo 200 quando iniziò il “recupero”, ma ha rapporti importanti con tutto il territorio del Neuquén, dai mapuches che procurano l’argilla, alle amministrazioni locali a cui forniscono mattonelle per costruire ambulatori e scuole. E il consenso dei cittadini si ottiene aprendo periodicamente la fabbrica per concerti e feste che interessano i giovani.

I problemi vengono per questa come per altre aziende dall’ambiguità del governo, che ha tollerato la riapertura della fabbrica sotto forma di cooperativa, ma ne ha lasciato nel vago lo stato giuridico. Eppure la Zanon, come la maggior parte delle fabbriche piccole o grandi che i padroni hanno chiuso unilateralmente dopo averle svuotate in parte, e indebitate in maniera truffaldina, “erano state create su terreni acquisiti dalloStato, con credito dallo Stato che i padroni non hanno mai restituito”. Per questo i lavoratori ritengono che “sia stata ingannata la comunità intera”.

Spesso lo Stato o l’amministrazione provinciale ha mostrato una certa disponibilità, ma sono intervenuti poi giudici reazionari su istanza del padrone bancarottiere e hanno ordinato il sequestro degli impianti.

Quando la fabbrica recuperata ha avuto successo, come la Pauny, ex Zanello, che produceva e produce ancora trattori, ed è riuscita a recuperare il livello iniziale di 500 lavoratori dopo una fase in cui è stata rimessa in piedi da poco più di un centinaio di operai, si trova con problemi nuovi: ad esempio una differenziazione tra i 120 lavoratori provenienti dalla vecchia Zanello, che sono riconosciuti come soci ed eleggono  i 12 rappresentanti nel consiglio di amministrazione, e gli altri assunti successivamente che non possono essere soci. Nel consiglio poi ci sono anche rappresentanti della vecchia direzione, e i rappresentanti dei concessionari che vendono il prodotto, oltre a un delegato del municipio.

Insomma le 200 imprese recuperate (alcune delle quali sono piccolissime, o in pratica solo cooperative di giornalisti) sono una realtà modesta che occupa poco più di 10.000 lavoratori, ma coinvolge vasti settori della popolazione, impegnati a difenderle quando sono minacciate da qualche iniziativa legale che vorrebbe fermarle. Finora hanno retto (anche se dieci anni fa erano parecchie di più), ma quasi tutte sono in una situazione di incertezza. Un lavoratore della cooperativa “La toma” di Rosario, organizzata in un ex supermercato, e che ha coinvolto molte associazioni di vario genere, tra cui una di donne vittime della violenza, sindacati, artigiani, e perfino per qualche tempo il consolato boliviano, ha dichiarato: “per noi e anche per molti altri, il problema più grande è quello degli sgomberi, perché se davvero vanno avanti al Bauern [un albergo occupato, più volte minacciato] o qui da noi, potrebbero farlo in qualunque momento. Ora non è successo solo per clemenza dei tribunali e dei giudici, ma non possiamo farci molto affidamento”.

Lo scrivevano meno di due anni fa. Possiamo immaginare cosa accadrà se le forze più reazionarie approfitteranno del clima creato dall’elezione del papa argentino “amico dei poveri”, ma anche dei dittatori… Per questo bisogna intensificare la solidarietà con queste piccole fiammelle di resistenza e autoorganizzazione operaia. E bisogna cercare di contrastare la campagna che vuole liquidare come calunnia ogni notizia sulle ambiguità di questo nuovo papa. Ne ho già parlato in vari miei articoli, ma segnalo questo altro di Davide Falcioni su Fanpage, ben documentato sui dati di wikileaks: http://www.fanpage.it/papa-francesco-nei-documenti-di-wikileaks/

 

Sulla Maflow, rinvio invece a questi due articoli: http://sinistracritica.org/2013/02/27/maflow-dal-presidio-alloccupazione-della-fabbrica/http://www.ilmegafonoquotidiano.it/news/maflow-la-fabbrica-salvata-dai-lavoratori.

Mentre su un’interessante esperienza greca segnalo:http://www.viome.org/p/italiano.html ; per altre notizie, soprattutto sul Venezuela, raccomando il sito di Dario Azzellini: http://www.azzellini.net/espanol

(a.m. 15/3/13)