Guevara oggi

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Leggere Guevara oggi

Se il Che fosse vivo avrebbe compiuto ieri ottantatre anni. Per ricordarlo, a Cuba è stato presentato un volume che raccoglie i suoi appunti di diario stesi tra il dicembre 1956 e i primi giorni di gennaio 1959, con una interruzione di alcuni mesi dovuta allo smarrimento dei taccuini. Una pubblicazione importante per la ricostruzione filologica del lavoro di rielaborazione che Guevara fece per pubblicare i Pasajes de la guerra revolucionaria, un capolavoro di freschezza e di rigore nella ricostruzione delle difficoltà conosciute dalla lotta. Ma dà fastidio leggere i commenti sui nostri media provincialissimi. “La Stampa” ad esempio ha incaricato il suo corrispondente da San Paolo (!) di fare qualche telefonata all’Avana, da cui ha ricavato un bel po’ di banalità, illustrate da una famosa foto di Guevara che finge di giocare a golf con Fidel subito dopo aver aperto ai cittadini cubani i club riservati ai ricchi, foto riproposta oggi a Cuba per giustificare l’assurda decisione di costruire in un’isola con seri problemi di approvvigionamenti idrico molti campi di golf per attirare turisti danarosi. Altrettante banalità dice con spocchia John Lee Anderson, presentato come “biografo ufficiale” del Che sulla pagina web del “Sole 24 ore”; domani sicuramente ne troveremo molte altre su tutti i quotidiani.

Con John Lee Anderson ci eravamo conosciuti abbastanza bene negli anni Novanta all’Avana nel Centro Studi, di cui eravamo gli unici frequentatori, e quei quaderni li aveva certamente come me intravisti senza poterne fotocopiare neanche una pagina. Ma a differenza di Anderson, che non era un compagno ma un “esperto di guerriglie” su cui diversi cubani nutrivano qualche sospetto, e si interessava molto ai particolari scandalistici della vita privata del Che, io ero interessato non tanto a quei quaderni di appunti del giovane Guevara, che era umanamente ed eticamente già grande, ma molto inesperto politicamente, e che non potevano quindi riservare molte sorprese anche per l’onestà intellettuale con cui li aveva utilizzati per preparare i Pasajes, quanto a quelli in cui il Che annotava i commenti alle sue letture politiche e filosofiche; erano alcune decine, a testimonianza del suo studio intensissimo. O a quelli degli appunti di campagna da cui aveva ricavato l’allora ancora segretissimo dattiloscritto sulla sua esperienza congolese, che nel frattempo ero riuscito a leggere e a copiare nelle parti essenziali seguendo altre strade.

Ancora oggi ritengo che i quaderni sulla Sierra Maestra pubblicati come Diario de un combatiente, che ovviamente mi procurerò appena possibile, non possano portare molto alla conoscenza del Che. Anche perché Paco Ignacio Taibo II ne aveva pubblicato già diversi stralci, in un singolare collage con altri brani tratti dai diari di Raúl, in un libro tradotto anche in italiano da Marco Tropea nel 1996, col titolo: Ernesto Che Guevara, Raúl Castro, La conquista della speranza. Diari inediti 1956-1957. L’epopea della Sierra Maestra. Altre edizioni ancor meno complete erano apparse a Cuba già nel 1986 e nel 1991, nel quadro della “riscoperta del Che”, ma per la conoscenza del suo pensiero non mi era parsa essenziale neppure l’edizione ampliata di 300 pagine. Il vero problema da approfondire, utilissimo per tutti noi in questo tempo di riaffiorare delle rivoluzioni, riguarda le tappe della riflessione teorica di Guevara sulle sue esperienze e su quelle della rivoluzione mondiale, negli ultimi anni della sua breve vita. Ma non mi sembra che a Cuba si lavori su questo.

Vedremo se il famoso contratto milionario di esclusiva siglato dalla Ocean Press che rappresenta la famiglia con la Mondadori, che finora ha pubblicato in Italia solo innocui libri fotografici o riedizioni di scritti degli anni Sessanta, riuscirà a far pubblicare tempestivamente questo nuovo testo tanto reclamizzato. L’antologia dei veri inediti più preziosi, apparsa a Cuba in tiratura modesta nel 2006 al culmine della campagna contro la censura animata da Celia Hart Santamaria, non è stata ancora tradotta. Possibile che il contratto sia servito solo a bloccare un’edizione critica di scritti del Che presso la Feltrinelli?

 

Segnalo ai nuovi visitatori del sito due miei precedenti scritti sul Che, Giù le mani da Guevara e soprattutto la Rassegna bibliografica CHE, ma altri se ne possono trovare nella sezione dedicata a Guevara nei GRANDI NODI DEL NOVECENTO. Ma come omaggio al Che nell’anniversario della sua nascita voglio far conoscere uno stralcio del libro di uno dei maggiori conoscitori e interpreti del Che, l’argentino Néstor Kohan, dedicato proprio al lascito dei suoi ultimi scritti. (a.m. 15/6/11).

 

Guevara y la transición

al socialismo en clave política

Stralcio da: Néstor Kohan, En la selva, (Los estudios desconocidos del Che Guevara. A propósito de sus Cuadernos de lectura de Bolivia), libro di oltre 400 pagine, disponibile gratuitamente sul web: http://www.scribd.com/doc/54727625/Nestor-Kohan-En-la-Selva-Los-estudios-desconocidos-del-Che-Guevara.

 

Las reflexiones del guevarismo latinoamericano no se agotan en las vías, tácticas y estrategias de lucha por el poder. Guevara tambiénn aporta una meditada y detallada reflexión para después de la toma del poder, ya que la revolución entendida como proceso ininterrumpido, permanente, prolongado y a largo plazo no sólo no culmina con la toma del poder (como imaginan los posmodernos que acusan de “estatismo” a los leninistas de la corriente del Che) sino que se prolonga y se multiplica tras la toma del poder. La batalla por la nueva sociedad, la nueva cultura y la nueva subjetividad comienza durante la confrontación con el mundo burgués y sus instituciones pero no se agota ni se extingue en esa lucha, sino que prosigue —si es que la revolución no se congela y no se detiene— después de la toma del poder.

Son bastante conocidos los estudios del Che sobre los debates marxistas acerca de la transición al socialismo, el papel del valor, el mercado, el plan, la banca, el crédito, los estímulos, la gestión de las nuevas empresas, etc., etc.. Pueden consultarse tanto sus intervenciones en “el gran debate” con Charles Bettelheim, Ernest Mandel y Carlos Rafael Rodríguez durante 1963-1964, sus intervenciones periódicas en el Ministerio de Industrias así como también sus extensísimas anotaciones críticas al manual de economía política de la Academia de Ciencias de la URSS.

Muchas de esas facetas de su pensamiento hoy son conocidas, aunque durante demasiado tiempo no se le dieron la importancia que se merecían. Durante la década de los ’80, Fidel Castro volvió a apelar a ellas para cuestionar a los partidarios perestroikos del mercado como panacea universal de la transición. Por entonces, en un célebre discurso de homenaje, en el XX aniversario de la caída del Che, Fidel defendió públicamente el libro de Carlos Tablada Perez (véase la última edición de Carlos Tablada Perez: El pensamiento económico del Che. La Habana, Ruth casa editorial, 2006 [primera edición de 1987]. Nosotros hemos tenido la suerte de prologar las dos últimas ediciones de este excelente libro).

Ahora bien, más allá del debate específicamente “económico” sobre la transición al socialismo, ¿cuál es el aporte político de estos análisis del Che?

En primer lugar, creemos que el Che aporta una lectura de la marcha política al socialismo no etapista. En muchos de sus escritos, Guevara insiste en que se debe forzar la marcha dentro de lo que objetivamente es posible, pero quienes aspiran a crear un mundo nuevo nunca deben permanecer cruzados de brazos esperando que el funcionamiento automático de las leyes económicas —principalmente de la ley del valor— nos conduzca mágicamente al reino del comunismo.

En segundo lugar, Che Guevara otorga un lugar principal a la subjetividad y la batalla política por la cultura en la creación de hombres y mujeres nuevos. El socialismo no constituye, en su óptica, un problema de reparto económica (ni un problema de “cuchillo y tenedor”, según le manifestó alguna vez Rosa Luxemburg en una carta a Franz Mehring). El comunismo debe ser, no sólo la socialización de los medios de producción sino también la creación de una nueva cultura y una nueva moral que regule la convivencia entre las personas.

En tercer lugar, el tránsito al socialismo debe privilegiar la planificación socialista y los estímulos morales, como métodos principales dirigidos a debilitar y finalmente aniquilar la ley del valor y los intereses materiales individuales. La planificación constituye un instrumento político de regulación económica. Ninguna revolución radical que se precie de tal puede abandonar al libre juego de la oferta y la demanda el equilibrio entre la oferta global de bienes y servicios y la demanda global. Los equilibrios globales entre las distintas ramas de la producción y el consumo deben respetarse pero violentando la perversa ley del valor, interviniendo políticamente desde el poder revolucionario sobre el pretendido funcionamiento “automático” del mercado.

Políticamente todo este programa de intervención en el transcurso de la transición al socialismo se asienta en el poder fuerte de la clase trabajadora —lo que en los libros clásicos del marxismo solía denominarse como “dictadura del proletariado”—, es decir, en el poder democrático de la mayoría social de las clases subalternas por sobre la minoría elitista y explotadora.

Poder superar la fase de “capitalismo de estado” e iniciar propiamente la transición al socialismo presupone, necesariamente, romper los límites de la legalidad burguesa y todo el armazón institucional que garantiza la reproducción del capitalismo, día a día, mes a mes, año a año.

Sin este poder fuerte, sin este poder democrático y absoluto de la mayoría popular sobre la minoría explotadora es completamente inviable cualquier cambio social radical que vaya más allá de experiencias populistas y de experimentos de “capitalismo de estado”, por más progresistas o redistribucionistas que éstos sean frente al neoliberalismo salvaje. La historia profunda de América Latina está plagada de ejemplos que lo corroboran (desde la Guatemala de Árbenz hasta el Chile de Pinochet, pasando por innumerables experiencias progresistas análogas finalmente frustradas y reprimidas a sangre, tortura y fuego). Esa es la gran conclusión política que extrae el guevarismo de la historia de nuestra América. Conclusión que hoy puede servirnos para los debates sobre el socialismo del siglo XXI en Venezuela y muy probablemente en futuras revoluciones latinoamericanas…

 

«Razón de estado» o revolución continental

Si existe un punto en común en los diversos aportes al pensamento revolucionario realizado por el guevarismo latinoamericano (Che Guevara, Miguel Enríquez, Robi Santucho, Roque Dalton, etc.), éste consiste en el énfasis otorgado a la revolución continental por sobre cualquier apelación, supuestamente pragmática o realista, a la “razón de estado”. No pueden confundirse los compromisos coyunturales, diplomáticos o comerciales de un estado particular con las necesidades políticas del movimiento popular latinoamericano en su conjunto.

Los revolucionarios de cada país pueden muy bien solidarizarse activamente con otros Estados —donde los trabajadores hayan triunfado o tengan políticas progresistas— sin tener que seguir al pie de la letra sus agendas ni subordinar la dinámica que asume la lucha de clases interna y la batalla antiimperialista en la propia sociedad a los intereses circunstanciales o a las necesidades inmediatas que puedan tener esos Estados.

Este punto en común resulta sumamente pertinente para pensar los desafíos actuales de los movimientos sociales y de todo el campo popular latinoamericano, profundamente solidario con Cuba y con Venezuela y al mismo tiempo impulsor de la resistencia antiimperialista y anticapitalista a nivel continental. La mejor ayuda para la revolución cubana no consiste en subordinar la lucha en cada país a los “contactos” diplomáticos de los estados amigos sino en impulsar y promover nuevas revoluciones en América Latina.

Esta elucidación resulta impostergable hoy en día, cuando más de uno pretende encubrir su completa subordinación política a diversos gobiernos burgueses seudo progresistas y proyectos económicos dependientes, apenas reciclados, apelando —para legitimarse— al nombre de Cuba o, más recientemente, al de Venezuela. La mejor manera de defender a Cuba y su hermosa revolución del imperialismo es luchando contra el imperialismo y por la revolución en cada país y en todo el mundo.

 

Preguntas abiertas, respuestas posibles

¿Cómo pensar en América Latina los cambios radicales más allá de la institucionalidad sin abandonar, al mismo tiempo, la necesidad de construir la hegemonía socialista que nos agrupe a todos y todas?.

¿Cómo hacer política sin caer en las tramposas redes de la institucionalidad y el progresismo, pero sin terminar recluidos en la marginalidad política?

¿Cómo volver a colocar en el centro de las discusiones, los proyectos y las estrategias revolucionarias latinoamericanas del siglo XXI el problema del poder, abandonado, eludido o incluso negado durante un cuarto de siglo de hegemonía neoliberal o posmoderna?

Para resolver estas preguntas no sólo debemos inspirarnos en la historia. En la actual fase de la correlación de clases —signada por la acumulación de fuerzas— necesitamos generalizar la formación política de la militancia de base. No sólo de los cuadros dirigentes sino de toda la militancia popular. Se torna imperioso combatir el clientelismo y la práctica de los “punteros” (negociantes de la política mediante las prebendas del poder), solidificando y sedimentando una fuerte cultura política en la base militante, que apunte a la hegemonía socialista sobre todo el movimiento popular. No habrá transformación social radical al margen del movimiento de masas.

Nos parecen ilusorias y fantasmagóricas las ensoñaciones posmodernas y posestructuralistas que nos invitan irresponsablemente a “cambiar el mundo sin tomar el poder”. No se pueden lograr cambios de fondo sin confrontar con las instituciones centrales del aparato de Estado. Debemos apuntar a conformar, estratégicamente y a largo plazo —estamos pensando en términos de varios años y no de dos meses— organizaciones guevaristas revolucionarias.

¿Por qué organizaciones? Porque el culto ciego a la espontaneidad de las masas constituye un espejismo muy simpático pero ineficaz.

Todo el movimiento popular que en Argentina sucedió a la explosión del 19 y 20 de diciembre de 2001 diluyó su energía y terminó siendo fagocitado por la ausencia de organización y de continuidad en el tiempo (organización popular no equivale a sumatoria de sellos partidarios que tienen como meta máxima la participación en cada contienda electoral).

¿Por qué guevaristas? Porque en nuestra historia latinoamericana el guevarismo constituye la expresión del pensamiento político más radical de Marx y Lenin y de todo el acervo revolucionario mundial, descifrado a partir de nuestra propia realidad y nuestros propios pueblos. El guevarismo se apropia de lo mejor que produjeron los bolcheviques, los chinos, los vietnamitas, las luchas anticolonialistas del África, la juventud estudiantil y trabajadora europea, el movimento negro norteamericano y todas las rebeldías palpitadas en varios continentes.

El guevarismo no es calco ni es copia, constituye una apropiación de la propia historia del marxismo latinoamericano, cuyo fundador es, sin ninguna duda, José Carlos Mariátegui. Guevara no es una remera, una camiseta, un pullover. Su búsqueda política, teórica, filosófica constituye una permanente invitación a repensar el marxismo radical desde América Latina y el Tercer Mundo. No se lo puede reducir a tres consignas y dos frases hechas. Aun tenemos pendiente un estudio colectivo serio y una apropiación crítica del pensamento marxista del Che entre nuestra militancia.

¿Por qué revolucionarias? Porque tarde o temprano nos toparemos con la fuerza bestial del aparato de Estado y su ejercicio permanente de fuerza material. Así nos lo enseña toda nuestra historia. Insistimos: ¡hay que tomarse en serio la historia! Ninguna clase dominante se suicida.

Pretender eludir esa confrontación puede resultar muy simpático para ganar una beca o seducir al público lector en un gran monopolio de la (in)comunicación. Pero la historia de nuestra América nos demuestra, con una carga de dramatismo tremenda, que no habrá revoluciones de verdad sin el combate antiimperialista y anticapitalista. Debemos prepararnos a largo plazo para esa confrontación. No es una tarea de dos días sino de varios años. Debemos dar la batalla ideológica para legitimar en el seno de nuestro pueblo la violencia plebeya, popular, obrera y anticapitalista; la justa violencia de abajo frente a la injusta violencia de arriba.

Pero al identificar el combate como un camino estratégico debemos aprender de los errores del pasado, eludiendo la tentación militarista.

Las nuevas organizaciones guevaristas revolucionarias deberán estar estrechamente vinculadas a los movimientos sociales y manejar al mismo tiempo todas las formas de lucha. No se puede hablar “desde afuera” al movimiento de masas. Las organizaciones que encabecen la lucha y marquen un camino estratégico, más allá del día a día, deberán ser al mismo tiempo “causa y efecto” de los movimientos de masas.

No sólo hablar y enseñar sino también escuchar y aprender. ¡Y escuchar atentamente y con el oído bien abierto! La verdad de la revolución socialista no es propiedad de ningún sello, se construirá en el diálogo colectivo entre las organizaciones radicales y los movimientos sociales. Las vanguardias —perdón por utilizar este término tan desprestigiado en los centros académicos del sistema— que deberemos construir serán vanguardias de masas, no de elite.

Si durante la lucha ideológica de los ’90 —en los tiempos del auge neoliberal— nos vimos obligados a batallar en la defensa de Marx, remando contra la corriente hegemónica, en la década que se abre en el 2000, Marx solo ya no alcanza. Ahora debemos ir por más, dar un paso más e instalar en la agenda de nuestra juventud a Lenin y al Che (y a todas y todos sus continuadores). Reinstalar al Che entre nuestra militancia implica recuperar la mística revolucionaria de lucha extrainstitucional que nutrió a la generación latinoamericana de los ’60y los ’70.

Tenemos pendiente pensar y ejercer la política más allá de las instituciones, sin ceder al falso “horizontalismo” —cuyos partidarios gritan “¡que no dirija nadie!” porque en realidad quieren dirigir ellos— ni quedar entrampados en el reformismo y el chantaje institucional. En América Latina, la gran tarea política de las ciencias sociales actuales consiste en cuestionar la dominación aggiornada del capital y en legitimar, al mismo tiempo, la respuesta popular frente a esa dominación, cada día más dura y cruel. Esto es, frente a la creciente violencia de arriba, fundamentar la legitimidad de la violencia de abajo, popular, plebeya, obrera, campesina, anticapitalista y antiimperialista.

Nada mejor entonces que combinar el espíritu de ofensiva de Guevara con la inteligencia y lucidez de Gramsci para comprender y enfrentar el gatopardismo. Saber salir de la política de secta, asumir la ofensiva ideológica y al mismo tiempo ser lo suficientemente lúcidos como para enfrentar el transformismo político de las clases dominantes que enarbolan banderas “progresistas” para dominarnos mejor.

Como San Martín, Artigas, Bolívar, Sucre, Manuel Rodríguez, Juana Azurduy y José Martí, como Guevara, Fidel, Santucho, Sendic, Miguel Enríquez, Inti Peredo, Manuel Marulanda, Carlos Fonseca, Haydeé Santamaría y Marighella, debemos unir nuestros esfuerzos y voluntades colectivas a largo plazo en una perspectiva internacionalista y continental. En la época de la globalización imperialista no es viable ni posible ni realista ni deseable un “capitalismo nacional”.

No podemos seguir permitiendo que la militancia abnegada —presente en diversas experiencias reformistas del cono sur— se trans forme en “base de maniobra” o elemento de presión y negociación para el aggiornamiento de las burguesías latinoamericanas. Los sueños, las esperanzas, los sufrimientos, los sacrificios y toda la energía rebelled de nuestros pueblos latinoamericanos no pueden seguir siendo expropiados.

Nos merecemos mucho más que un miserable “capitalismo con rostro humano” y una mugrienta modernización de la dominación.

El socialismo del siglo XXI tiene que ir mucho más allá del mercado (aunque sea un mercado “cooperativo”, “comunal”, “controlado por el partido”, etc.), de los estímulos materiales, de la autogestión financiera, del consumismo irracional, de la destrucción de la naturaleza y del mero reparto de dinero en el seno del pueblo. Nuestros proyectos son muchísimos más ambiciosos, integrales y abarcadores. Con respeto por la diversidad, pero con firmeza política e ideológica, el guevarismo latinoamericano tiene mucho que aportar en esa dirección y en esos debates contemporáneos.