I problemi di Cuba dopo Castro

I problemi di Cuba dopo Castro

 

A Cuba il 2 marzo sono stati effettuati all’improvviso diversi cambi nel gruppo dirigente. Come al solito, non è possibile evitare le critiche faziose dei nemici: se non si cambia nulla, viene denunciato l’immobilismo, se ci sono cambiamenti improvvisi, si parla subito di “terremoto al vertice”. In realtà anche se le sostituzioni riguardano nel complesso una decina di ministri, con passaggi da una responsabilità a un’altra, sono poche le decisioni che hanno suscitato scalpore: in primo luogo l’allontanamento di Carlos Lage Dávila, che di fatto era il capo del governo e il principale responsabile delle riforme avviate dal 1990 dopo il crollo del sistema sovietico; ma anche la sostituzione di Felipe Pérez Roque, ex segretario personale di Fidel e ministro degli Esteri dal 1999, quando era stato bruscamente accantonato il suo predecessore, Roberto Robaina, come lui giovane e per alcuni anni considerato il “delfino” di Fidel.

La terza decisione importante è stata quella di “liberare il compagno José Luis Rodríguez García dal suo incarico di vicepresidente del Consiglio dei ministri e di ministro dell’economia e pianificazione”, non facilmente interpretabile: Rodríguez era considerato come un “riformista”, più o meno come Lage, mentre Felipe Pérez Roque era considerato esponente dei cosiddetti “talibani”, cioè dei fidelisti più intransigenti nei confronti degli Stati Uniti, che si presumeva fossero più legati a Hugo Chávez. .

Alcuni commentatori hanno sostenuto che la sostituzione del ministro degli Esteri sarebbe una concessione a Obama, per facilitare la distensione tra i due paesi e la fine dell’embargo, mentre altri sostengono esattamente il contrario, e cioè che la sua colpa sarebbe stata un’eccessiva apertura agli Stati Uniti.

 

Difficile destreggiarsi in questa selva di ipotesi, se non per dubitare della reale disponibilità di Obama a rinunciare davvero all’embargo, anche se ha annunciato la riduzione di alcune delle misure restrittive agli scambi tra i due paesi e alle rimesse e ai ricongiungimenti familiari che erano state introdotte da Bush. D’altra parte negli ultimi anni le deroghe all’embargo si sono accresciute, sotto la pressione degli Stati agricoli, sicché le esportazioni di prodotti alimentari statunitensi a Cuba hanno raggiunto dimensioni importanti, e certo non saranno ridotte in questi tempi di crisi. Ma Cuba deve pagarle in contanti, e questo è uno degli elementi che provoca il suo forte deficit nella bilancia commerciale che, secondo il ministro del Commercio estero Malmierca ha superato il 70% (importazioni 14 miliardi e mezzo di dollari, esportazioni 3 miliardi e 780 milioni).

 

Meno rassicuranti per il governo cubano l’altra promessa di Obama: via libera alle compagnie statunitensi per stabilire connessioni in fibra ottica e satellitari a Cuba, per offrire servizi di telefonia mobile e internet a Cuba, autorizzando contemporaneamente chiunque voglia pagare dall’estero le fatture dei cellulari di cubani residenti. Dan Restrepo, consigliere della Casa Bianca per l’America Latina, ha detto chiaramente: “vogliamo accrescere il flusso delle informazioni. Vogliamo generare un mercato globale di radio e televisione. Per questo il presidente ha ordinato che si facilitino le concessioni di licenze e si permetta una comunicazione senza filtri da parte del governo cubano. Vogliamo che le tecnologie dell’informazione consentano ai cubani di comunicare tra loro. Ma per questo abbiamo bisogno che il governo dell’Avana permetta che le imprese statunitensi offrano servizi nell’isola”.

Una concessione o una minaccia di ingerenza? Anche chi non condivide la politica cubana di restrizioni burocratiche all’accesso a internet non può ignorare che l’offerta di Obama sarebbe inaccettabile per qualsiasi governo di un paese sovrano.

 

Ma torniamo alla sostituzione dei due importanti esponenti del governo. Possiamo rifiutare di partecipare al gioco di previsioni dei “cubanologi”, ma non possiamo ignorare che i metodi utilizzati per arrivare a decisioni simili facilitano la “dietrologia”. Tanto è vero che anche a Cuba l’annuncio delle sostituzioni e destituzioni ha suscitato sorpresa e disorientamento, soprattutto perché venivano considerate generalmente come un colpo agli “uomini di Fidel”. Non a caso il vecchio líder máximo ha ritenuto di dettare dopo due giorni un comunicato (apparso sul sito ufficiale “Cuba Debate”) in cui si dissocia dai due principali dirigenti accantonati, accusandoli di essere stati attratti dal “miele del potere, per il quale non hanno conosciuto nessun sacrificio” (allusione alla loro non partecipazione alla guerriglia, inevitabile per l’età relativamente giovanile soprattutto di Felipe), e che avrebbe “risvegliato in loro ambizioni che li hanno condotti a un comportamento indegno”.

Tuttavia non ci si è fermati qui. Sul “Granma”, organo del partito comunista di Cuba, sono apparse il giorno dopo due lettere quasi identiche firmate da Lage e Pérez Roque, che dichiaravano di riconoscere gli errori che gli venivano attribuiti (senza dire quali fossero) e di lasciare quindi ogni incarico, incluse le cariche di deputato e di membro del comitato centrale. Era già accaduto con Robaina, con Aldana, con diversi altri dirigenti (compreso Ochoa).

È un metodo inquietante, tanto più se si collega alla nuova ascesa di uomini del passato, e in particolare di Ramiro Valdés Menéndez, che oggi ha 76 anni e assume la più importante carica come vicepresidente incaricato del “coordinamento e controllo”, al posto del quarantenne Otto Rivero, che è stato a lungo responsabile della “Battaglia delle Idee” voluta da Fidel.

Difficile interpretare il senso di tutti questi cambiamenti. L’unica cosa sicura è che il gruppo dirigente “rinnovatore” raccolto intorno a Raúl Castro stenta a liberarsi dei metodi appresi durante il lungo periodo dell’influenza del “socialismo reale”. Ma non è solo questo: evidentemente – anche se non si è ritenuto di farle conoscere ai cubani e agli amici di Cuba nel mondo – nel vertice cubano erano emerse differenziazioni, che si è voluto stroncare con decisione.

 

Una delle cause delle tensioni è probabilmente lo stato disastroso dell’economia, che può conoscere ulteriori peggioramenti a causa delle ripercussioni della crisi economica mondiale sul principale alleato e fornitore di Cuba, il Venezuela. Nel suo discorso di investitura un anno fa Raúl Castro aveva affrontato francamente alcuni dei problemi dell’isola, le ragioni del malcontento, le inquietudini dei giovani, e aveva fatto promesse importanti, che tuttavia non è stato e non sarà facile mantenere.

Certo alcune restrizioni possono essere eliminate, almeno sul piano giuridico: ad esempio la fine del divieto di accesso ai cubani negli alberghi per turisti (divieto sentito come insopportabile da molti, e più volte denunciato in alcuni recenti interventi di artisti e scrittori) potrà essere formalmente eliminato, ma la maggior parte degli alberghi hanno prezzi inaccessibili per il lusso con cui sono stati concepiti. In pratica la fine delle restrizioni potrebbe avvantaggiare soprattutto le jineteras di alto bordo invitate da facoltosi turisti…

Anche le limitazioni per i viaggi all’estero possono essere rimosse, ma non sono solo amministrative bensì economiche (e c’è in più il problema dei visti per chi non ha un invito per lavoro, a cui non pensano i giovani che protestano e ignorano che ad esempio in Italia diverrebbero “clandestini”…).

Quanto ai viaggi interni, è lo stato penoso dei trasporti a renderli difficili, a meno di non ricorrere agli autisti privati più o meno abusivi, e con prezzi elevati (oltre che con l’uso di benzina o gasolio sottratti ai distributori, come aveva denunciato lo stesso Fidel nel capodanno 2006).

Ma l’impegno più difficile riguarda il superamento, sia pur graduale, del doppio mercato in pesos e in dollari, o in “pesos convertibili” equivalenti al dollaro: una rivalutazione del peso non può portarlo certo alla parità (il cambio è da anni intorno a un rapporto di 25 a 1); l’eliminazione della tessera annonaria (la libreta) insufficiente e malvista, toglierebbe quel minimo sostegno agli strati – ancora maggioritari – che non hanno accesso a dollari perché non lavorano in aziende miste, o non hanno rimesse dei parenti all’estero, né se li procurano più o meno legalmente ai margini del turismo.

Comunque è già sintomatico aver affrontato il problema, per offrire una speranza di cambiamenti. Infatti anche se, soprattutto grazie alla fine dell’isolamento, si vedono in giro sempre più auto private e motociclette potenti, e le vetrine delle tiendas in dollari (formalmente “pesos convertibili”) sono piene di prodotti importati, il benessere riguarda solo una parte della popolazione, soprattutto quella che vive al margine della legalità. Gli altri, i più fedeli agli ideali della rivoluzione, attendono un miglioramento delle loro condizioni.

La lotta alla corruzione e alla burocrazia, è in effetti sempre più necessaria. Forse oggi diviene più facile in seguito a una novità clamorosa, che naturalmente i commentatori più faziosi hanno ignorato: negli ultimi due anni le entrate per la vendita di nichel (soprattutto alla Cina, che è affamatissima di materie prime e non si preoccupa dei veti degli Stati Uniti) hanno superato quelle per il turismo che, dopo la brusca contrazione della produzione di zucchero, con la chiusura di oltre metà degli zuccherifici e la riduzione delle aree coltivate a canna, era diventato la risorsa principale. In un famoso discorso del 17 novembre 2005 proprio Fidel Castro aveva rivendicato il merito di aver bloccato, in polemica col ministro del settore, la produzione di zucchero che, da quando il petrolio era salito a livelli altissimi, costava in combustibile molto più di quanto si ricavava dalla vendita.

Per tutta una fase il turismo aveva accresciuto la sua importanza e aveva spinto a cercare di incrementarlo in ogni modo. Il ché voleva dire spendere molto per renderlo più attraente, ma anche che si creavano sempre più frequenti occasioni di corruzione per i funzionari preposti al controllo dei partner stranieri, spesso avventurieri spagnoli o italiani, che puntavano a guadagnare molto in poco tempo. In ogni caso il turismo era ed è soggetto a variazioni imprevedibili: ci fu per un paio d’anni una forte contrazione dopo l’attacco alle due torri, che scoraggiò i voli intercontinentali, e ora ci possono essere ripercussioni della crisi che colpisce lavoratori e ceti medi in Canada e in Europa, da cui provengono i principali flussi di visitatori. La produzione di nichel, che aveva meno controindicazioni, può risentire e sembra stia già subendo le conseguenze della contrazione della produzione cinese e quindi degli acquisti

Entra in scena il Brasile

I rapporti di Cuba con il Venezuela sono noti. Cuba ha ricevuto molto, soprattutto petrolio a prezzo politico, ma anche altri prodotti, e ha dato moltissimo: non solo un esempio di dignità e di tutela gelosa della propria indipendenza, ma anche decine di migliaia di medici, di maestri, di allenatori sportivi, che hanno contribuito a trasformare e rendere attive vaste zone periferiche abbandonate da sempre senza istruzione e assistenza sanitaria. I soliti professionisti dell’anticomunismo hanno speculato sulla notizia che 45 cubani avrebbero chiesto di non tornare nell’isola e di avere un visto per gli Stati Uniti. 45 su oltre 20.000! Se si tiene conto che in Venezuela i cubani non sono accasermati e controllati, ma sono sparsi in piccoli gruppi in vaste aree del paese, con la possibilità quindi di allontanarsi se lo desiderano, si può ben dire che quei 45 rappresentano una percentuale insignificante. Se si pensa anche all’enorme scarto tra il livello di vita a Cuba e quello che quei cubani possono vedere nel Venezuela dei ceti medio-alti (e immaginare negli Stati Uniti delle telenovelas), si può concludere che è un bel successo per il governo cubano. Oltre all’esempio complessivo della rivoluzione, ogni cubano dà un esempio di dedizione e di impegno umano e civile in Venezuela.

D’altra parte Cuba, grazie anche a Chávez, ha ristabilito rapporti diplomatici e anche commerciali con molti altri paesi. Negli ultimi tempi anche il Brasile di Lula – che pure ha intese privilegiate con gli Stati Uniti basate sulla costruzione di un’asse dei paesi produttori di biocombustibili – ha accentuato i suoi legami con l’isola. Naturalmente non è possibile farsi illusioni su Lula, che ha rotto con gran parte dei quadri storici del suo stesso partito, e che non solo ha fatto accordi duraturi e stabili con partiti conservatori e liberisti, ma è ormai diventato il “rappresentante di commercio” di una borghesia brasiliana potente e in espansione.

L’origine sociale e politica di Lula non spaventa certo gli Stati Uniti: non a caso egli ha avuto nel 2008 “l’onore” di essere invitato , unico capo di Stato latinoamericano, nel ranch privato di Bush. La sua scelta di effettuare nel gennaio 2009 una visita a Cuba, incontrandosi a lungo con Fidel e Raúl, è quindi sintomatica di una nuova situazione. Con Lula sono arrivati diversi ministri e oltre 50 imprenditori, tra cui il presidente della potentissima Petrobras. D’altra parte il Brasile aveva già da anni – senza pubblicizzarli troppo – importanti progetti per la produzione e commercializzazione a livello mondiale di prodotti farmaceutici che Cuba ha scoperto, ma non potrebbe mettere in circolazione.

Il risultato del viaggio (che non è il primo del presidente brasiliano) è stato positivo per l’immagine di Lula, che si è rifatto così in Brasile e nel continente una patente di sinistra. Fidel, poco prima della sua rinuncia, ha dedicato ben quattro articoli all’incontro con Lula. Quanto ai risultati della visita, bisognerà vedere però quanto gli investimenti promessi dai capitalisti brasiliani serviranno all’isola e quanto invece introdurranno nuove forme di dipendenza.

Oltre alla Petrobras, che è oggi ormai una delle cinque grandi compagnie che hanno preso il ruolo storico delle “sette sorelle”, e che opera dal Golfo del Messico alla Nigeria, un’altra società brasiliana in origine statale, ma poi privatizzata, la Vale do rio doce, è il secondo produttore mondiale di ferro, e ha acquistato negli ultimi due anni il controllo azionario della INCO, una grande impresa canadese di nichel (diventata una vera e propria partecipata, tanto da mutare il suo nome in “CVRD Inco Limited“) attraverso la quale opera a Cuba; ha anche preso il pacchetto di maggioranza dell’impresa mineraria australiana AMCI Holdings, mentre ha in corso un’offerta di acquisto per la rivale svizzera Xstrata dal valore di 90 miliardi di dollari (il doppio dell’offerta di Microsoft per Yahoo!). Nel congresso del PT brasiliano, sotto la pressione della sinistra ma anche di settori importanti del mondo cattolico, era stata approvata all’unanimità (votata quindi anche da Lula) una mozione che auspicava la rinazionalizzazione della Vale do rio doce, ma il presidente ha poi cercato di rinviare alle calende greche la concretizzazione, per non turbare gli investitori esteri…

Cuba si può aspettare un aiuto disinteressato da questi giganti capitalisti? È la stessa osservazione che settori della sinistra latinoamericana fanno a proposito della penetrazione di imprese brasiliane (e anche cinesi) nei loro paesi.

Secondo il quotidiano brasiliano Folha de São Paulo Raúl Castro avrebbe chiesto aiuto a Lula per “accelerare il processo di transizione politica ed economica” sull’isola, e per migliorare i rapporti con gli Stati Uniti. La maggior parte dei “cubanologi” si sono affrettati a vedere in questo atteggiamento di Raúl una manifestazione di una corrente antivenezuelana, di cui tutti parlano da tempo.

La voce di un Raúl esponente di una corrente ostile a Chávez nasce probabilmente da un fraintendimento di un dato vero: nell’ultimo periodo prima della malattia Fidel sembrava attratto dalla prospettiva di una federazione col Venezuela, che era stata tuttavia rifiutata da molti settori in base al più elementare buon senso (sono due paesi di dimensioni molto diverse, con economie non compatibili e non comparabili, con un forte nazionalismo, ecc.). Nei settori militari era stata espressa la maggiore preoccupazione, per le caratteristiche dell’esercito venezuelano, borghese e addestrato dagli Stati Uniti, ma anche con una discreta tradizione di repressione anticomunista e anticontadina prima dell’emergere di Chávez, e presumibilmente non dimenticata.

Ma che questo voglia dire che Raúl sia ostile alla collaborazione col Venezuela non sembra fondato, sia perché – anche senza tener conto della gratitudine per l’aiuto generoso ricevuto – Cuba ha ancora molto bisogno di Chávez, sia perché la richiesta di mediazioni per eliminare l’embargo (attenuato dal 2001 per “motivi umanitari” su generi alimentari e di largo consumo, ma ancora fortissimo su prodotti ad alta tecnologia, ecc.) è stata fatta più volte dallo stesso Fidel ed è stata una costante della sua politica. Anche nel passato i dirigenti cubani sapevano bene, soprattutto per merito del Che, che dipendere per tutti gli acquisti da un paese lontanissimo come l’URSS era assurdo e antieconomico (non avevano tuttavia la possibilità di una scelta libera).

Casomai il problema su cui bisogna riflettere è un altro: che accadrà al Venezuela di Chávez se la recessione negli Stati Uniti si aggraverà, con presumibili riflessi sul prezzo mondiale del petrolio? E che accadrà a un paese ancor più fragile come l’Ecuador, che ha ormai da tempo adottato il dollaro come moneta nazionale?

L’altra novità è l’atteggiamento della Chiesa cattolica

 

Per singolare coincidenza o straordinaria lungimiranza la visita a Cuba del cardinal Bertone, il “ministro degli Esteri” del Vaticano ha coinciso esattamente con il passaggio dei poteri da Fidel a Raúl.

Il viaggio, del febbraio 2008, è stato motivato con la ricorrenza dei dieci anni dalla visita di Giovanni Paolo II, ma non è facile crederci… Dato che papa Wojtila ha fatto ben 104 viaggi nel mondo, Bertone dovrebbe passare il suo tempo in giro per celebrarne gli anniversari…

Certo, quel viaggio fu straordinario, e un successo per Cuba, un po’ meno per il papa, che ammise di aver sperato di “poter fare come in Polonia”, cioè far cadere il regime, dato che era convinto di avere il “merito” di quel che era successo nel suo paese di origine.

 

 

Scheda: Wojtila e la Polonia, mito e realtà

 

In Polonia Wojtila ha fatto ben sette viaggi. Il primo nel giugno 1979, il secondo nel 1987. Nel frattempo era nata Solidarnosc, nel 1980, e nel 1981 si era verificata una forte divaricazione tra la prudenza del cardinal Glemp e la maggioranza radicale del sindacato autorganizzato; c’era poi stata la proclamazione dello stato d’assedio da parte del generale Jaruzelski in quello stesso anno. Nell’87 il regime sembrava abbastanza solido, e il papa fece appello all’unità della nazione ed elogiò Jaruzelski, con cui ebbe diversi incontri non puramente formali.

Questo smentisce la leggenda del “papa che fa crollare il comunismo”, anche se certo pesò il grande prestigio di Wojtyla e la certezza della sua disponibilità a una soluzione negoziata nella successiva decisione di Jaruzelski di convocare una Tavola Rotonda con le opposizioni (tra i cui esponenti comunque c’erano diversi non cattolici, in genere ebrei di formazione marxista e antica militanza nella gioventù comunista…) con l’obiettivo di rilanciare la concertazione col sindacato, ancora forte ma ormai ridimensionato e soprattutto con un gruppo dirigente meno radicale che nel 1981. L’involuzione di Solidarnosc si doveva casomai al ruolo di pessimi consiglieri come la SPD, i sindacati USA, ecc., che ne avevano sostenuto e condizionato i leader, mentre lo stesso PCI, che aveva utilizzato la vicenda per fini di politica interna, aveva evitato invece di sostenerli per non irritare l’Unione sovietica, da cui si differenziava blandamente, ma che credeva “eterna come il Vaticano”.

Poi,solo dopo che le elezioni volute da Jaruzelski (con un meccanismo truccato che doveva assicurargli una maggioranza artificiale dei seggi ma aveva rivelato che i voti ottenuti dal partito comunista erano pochissimi) si erano trasformate in un boomerang, aprendo una crisi irreversibile, il papa era tornato spesso in Polonia. Ma ormai i giochi si erano fatti, e per dinamiche tutte interne al paese, non per “merito” del papa…

 

 

Per evitare equivoci, va detto subito che Castro aveva “dovuto” invitare il Papa. Non poteva avere certo molte illusioni su di lui e sulla politica vaticana, e sapeva bene che le sue vaghe dichiarazioni contro l’embargo non avrebbero avuto implicazioni pratiche, ma erano finalizzate a facilitare un viaggio a cui Giovanni Paolo II teneva molto, soprattutto dopo i ”crolli” del 1989. Ma l’incontro in Vaticano, la cena a Roma (dove Fidel era arrivato per parlare alla FAO) con non so quanti cardinali, e l’invito al papa, sono stati molto utili per rompere l’isolamento di Cuba, ovviamente con un certo prezzo.

Non ha senso dire, come è stato fatto, che il governo cubano non doveva invitarlo, o che doveva fare questo o quello, ma non è neppure opportuno nascondere i problemi che il viaggio ha creato o, per meglio dire, ha rivelato.

Giovanni Paolo II era un politico sperimentato, che aveva a sua disposizione un apparato che rappresenta una delle migliori reti di informazioni esistenti al mondo. Era stato molto cauto nei suoi discorsi, a differenza di quel che aveva fatto in Nicaragua, e così è stato il suo principale rappresentante nell’isola, il cardinale Jaime Ortega. Il papa aveva così attenuato (senza rinunciare ad esprimerle) le sue rivendicazioni di pluralismo e di “diritti della Chiesa” (compresa l’imposizione di limitazioni del diritto dei non credenti all’aborto, al divorzio, ecc., alla faccia della tanto proclamata “libertà in Cristo”). La potenza e complessità della Chiesa ha permesso anche un gioco delle parti, facendo dire le cose più dure all’arcivescovo di Santiago.

La Chiesa infatti ha catalizzato le diffuse inquietudini sulla “libertà” (cioè sui pesanti limiti alla possibilità di espressione di opzioni diverse) e ha dimostrato una forza politica e anche organizzativa superiore alla sua base reale, sicché ora di fatto si erge a fianco e di fronte al regime. Per non perdere la sfida, durante il lungo braccio di ferro sulle modalità della visita papale, Castro aveva deciso di cavalcare la tigre: dopo aver creato un po’ di ostacoli sui luoghi prescelti per la apparizioni del papa (in particolare era stata negata a lungo la Piazza della Rivoluzione), ha invitato i cubani a partecipare in massa ai raduni, per assumersi una parte del merito della straordinaria affluenza prevista. Un gesto intelligente, ma non risolutivo. Si è visto che se era possibile controllare gli striscioni e i cartelli, non era altrettanto possibile controllare tutti gli slogan, la lunghezza degli applausi, il modo con cui certi passi del discorso papale venivano salutati dalla folla in piedi che agitava le bandierine a doppia faccia, cubane e vaticane: nonostante l’abilità degli operatori cubani, gli unici ammessi alle riprese, quell’entusiasmo coloratissimo contrastava visibilmente con il quadrato scuro dei dirigenti rimasti seduti.

Castro ha dovuto fare una lunga e costante ritirata su molti terreni, tanto più scomoda perché le decisioni precedenti non erano popolari. Si pensi alla soppressione della festa del Natale, imposta nel quadro di quella fase estremista iniziata dopo la partenza e la morte del Che con la cosiddetta offensiva rivoluzionaria (cioè la soppressione di ogni pur minima attività artigianale e commerciale) e culminata nel 1969-1970 con lo sforzo volontaristico della grande zafra dei 10 milioni di tonnellate di canna, che disorganizzò tutta l’economia non meno del “grande balzo” cinese del 1958. Castro ha detto che la festa del Natale è stata ripristinata in “via eccezionale e provvisoria” per un solo anno, ma era inverosimile che si riuscisse a sopprimerla di nuovo dopo che si è visto con quanto slancio è stata accolta a livello di massa. E così è stato.

A Fidel Castro peraltro va riconosciuto il merito di avere espresso, nel saluto iniziale e in quello di commiato, alcune delle ragioni di fondo delle idee socialiste e indipendentiste con straordinaria grinta e dignità. Ma anche quello di avere preparato la venuta di Giovanni Paolo II con un lavoro di molti mesi per rendere cosciente il partito e le sue organizzazioni di massa della portata della sfida: il 10 ottobre erano state solennemente deposte nel mausoleo di Santa Clara le spoglie del Che, che erano rientrate a Cuba quattro mesi prima. Qualcuno in Bolivia ha ricordato che Guevara aveva sempre detto che le spoglie del guerrigliero appartengono alla terra in cui muore combattendo, ma milioni di cubani si sono affollati lungo le strade dall’Avana a Santa Clara per salutare il feretro. Il V Congresso del partito, che aveva appena riconfermato Castro alla sua testa, si è sciolto per far partecipare i delegati alla cerimonia. È stato un momento di forte riaffermazione dell’identità e dell’orgoglio nazionale. E ha permesso di reggere bene all’insidiosa manovra del papa.

I problemi lasciati dalla visita del papa

La Chiesa cattolica non è forza decisamente maggioritaria tra i cubani e tra gli stessi credenti, ed è stata screditata da secoli di collaborazione con l’oppressione coloniale, di ostilità alle rivoluzioni del 1868 e del 1895 (anche se il “precursore” Felix Varela era un prete e José Martí era cristiano). Esiste ed è in molte realtà assai consistente un mondo evangelico variegato, battisti, avventisti, pentecostali, Testimoni di Geova; questi sono tuttora perseguitati per il rifiuto delle trasfusioni e dell’omaggio alla bandiera, ma Giovanni Paolo II non se ne preoccupava, dato che dove può la Chiesa organizza essa stessa la loro persecuzione. Inoltre la maggior parte degli stessi cattolici appartengono in realtà a vari culti sincretistici, dalla notissima santería alle chiese “spirituali” o “spiritiste” diffuse nelle province orientali. La Chiesa cattolica è tuttavia di gran lunga la più organizzata e, grazie al notevole apparato di direzione mondiale, la più lungimirante e la più capace di raccogliere frutti politici dalla crescita del sentimento religioso.

Gli arresti selettivi, che nel 2003 hanno colpito economisti e giornalisti di formazione comunista e hanno risparmiato invece quello che tutti conoscono come il principale promotore del “Progetto Varela, Oswaldo Payá, perché legato al Vaticano, e hanno fatto temere che a Cuba si sia delineato una specie di embrionale “dualismo di potere” con la gerarchia cattolica.[1]

La Chiesa cattolica è lungimirante. Dieci anni dopo quella visita il cardinal Bertone è arrivato per raccogliere i frutti di quel viaggio. Non si è presentato a mani vuote. Prima di partire aveva fatto una dichiarazione ben più netta di quelle di Giovanni Paolo II sulla inammissibilità dell’embargo sul piano etico.

Dopo un viaggio attraverso Cuba di sei giorni, sulle orme del papa precedente, il 27 febbraio Tarcisio Bertone ha avuto un incontro con i massimi dirigenti cubani nel Palazzo della rivoluzione. Prima dei colloqui il cardinale aveva espresso la speranza di una nuova fase nei rapporti in passato difficili tra la Chiesa cattolica e il regime dell’Avana. “Le autorità – aveva affermato il segretario di Stato – mi hanno promesso una maggiore apertura nella stampa e nella radio, e in casi eccezionali anche nella televisione”.

Raúl Castro e il cardinal Bertone hanno discusso a porte chiuse, alla presenza del ministro degli Esteri di due vice-presidenti, Esteban Lazo e Carlos Lage. Nessuna dichiarazione al termine dei colloqui, ma resta il ricordo delle parole pronunciate nei giorni scorsi dall’emissario di papa Benedetto XVI: “Credo che il momento è molto importante per Cuba e per tutto il mondo”, aveva affermato il cardinal Bertone in riferimento al passaggio di consegne di domenica scorsa al vertice del Paese comunista. “La linea fondamentale del ‘líder máximo‘ Fidel – aveva aggiunto il porporato – continuerà” in modo tale da “consentire che Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba, come aveva detto Giovanni Paolo II”. “Credo – aveva aggiunto il cardinal Bertone – che il nuovo presidente Raúl, il nuovo Consiglio di Stato e la Chiesa cattolica stessa stanno provando a intercettare le aspirazioni del popolo cubano e a rispondere in tutti i modi possibili, tenendo conto delle difficoltà, soprattutto per via dell’embargo economico”.

A conferma dei progressi nei rapporti tra l’Avana e il Vaticano, il cardinal Bertone aveva ribadito solennemente che l’embargo era “eticamente inaccettabile” La Chiesa – aveva aggiunto il segretario vaticano – sta cercando di “spingere” Washington a “eliminarlo”. Interessante la forma prudente in cui è stata posta la questione dei detenuti politici (che a Cuba ufficialmente non esistono, perché sono sempre accusati di altri reati). “La Santa Sede non chiede ora esattamente l’amnistia per i detenuti a Cuba. Ma certo, i gesti buoni come dopo la visita di Giovanni Paolo II, sono gesti positivi che aiutano la riconciliazione e danno segni di speranza”: così il cardinale Tarcisio Bertone, ha risposto a chi chiedeva se anche in questa occasione, come accaduto dieci anni fa con Giovanni Paolo II, è stata richiesta, e poi concessa, una amnistia per i carcerati. “La Santa Sede non chiede l’amnistia – ha precisato il porporato secondo quanto riportato anche dal Sir, l’agenzia della Cei – ma chiede la possibilità, per i prigionieri di tutti tipi, di assistere spiritualmente, anche con la presenza dei cappellani, sia i detenuti, sia le loro famiglie. Non è un problema politico ma umanitario, per migliorare l’assistenza a chiunque”.

Comunque alla vigilia dell’insediamento di Raúl quattro detenuti del gruppo condannato nel 2003 erano stati liberati per “ragioni umanitarie” e inviati in Spagna. Significativo comunque che una piccola pattuglia di “dame in bianco” (mogli di detenuti) era presente nella piazza dove il cardinale stava celebrando la messa, e dove c’erano anche Alarcón, Lage, e altri dirigenti dello Stato cubano. Le donne erano una ventina, e fermarle sarebbe stato facilissimo, ma hanno potuto assistere alla cerimonia e poi parlare con Tarcisio Bertone. Era un buon segno, l’indice di una capacità di affrontare in forma diversa e senza farsi prendere dal panico il dissenso.

Ma è passato un altro anno, e non è successo niente di nuovo sul piano politico e soprattutto economico e sociale. Quando la situazione della maggior parte della popolazione è drammatica, la sola mancanza di novità è un segno preoccupante.

 

Il gelo tra gli intellettuali?

 

Anche sul piano della circolazione delle idee, non è accaduto niente. Quello che sembrava un avvio promettente, e aveva visto una forte ripresa di attività critica di intellettuali non oppositori, ha subito un sostanziale congelamento.

Se ha ripreso a circolare qualcosa nella rete locale, certo è più difficile far uscire all’esterno testi come quelli usciti nel gennaio 2007 firmati dai più prestigiosi intellettuali non oppositori ma sostenitori critici.

 

Tutto era cominciato da una trasmissione televisiva che aveva fatto temere un ritorno al più grigio passato. Il 5 gennaio 2007 sugli schermi cubani era apparso una specie di fantasma: Luis Pavón Tamayo, che era stato messo nell’aprile del 1971 alla testa del Consejo Nacional de Cultura e aveva esercitato per un quinquennio un ruolo nefasto di censura e messa al bando di ogni spirito critico. Dopo pochi anni era stato sostituito e praticamente dimenticato. Ora appariva in un programma “Impronta” (dedicato a chi ha lasciato tracce importanti, “un’impronta”, insomma, nella storia e nella cultura cubana), che lo presentava in termini completamente apologetici. Esibizione di sue foto accanto a Fidel, Guevara e altri esponenti della rivoluzione, di un libro del Che con dedica autografa, domande ingenue di una presentatrice che non sapeva nulla di lui, e successivamente ha ammesso di non avere il minimo sospetto di quale fosse stata l’impronta realmente lasciata da Pavón durante gli anni in cui aveva diretto il CNC.

Tre giorni dopo decine di intellettuali di primo piano (per la precisione 36) si erano già mobilitati scambiandosi e.mail (nonostante le note difficoltà di accesso); alla fine del mese si trovavano insieme per ascoltare una splendida conferenza di uno di loro, Ambrosio Fornet, su “El quinquenio gris: revisitando el termino”, tenuta nella Casa de las Américas il 30 gennaio nel quadro di un ciclo sulla politica culturale del periodo rivoluzionario organizzato dal Centro Téorico-cultural Criterios (poi pubblicato in volume).

Il “Quinquennio grigio” è il termine convenzionalmente usato per definire il periodo del trionfo dei censori stalinisti a partire dal 1971, che molti preferiscono chiamare il “decennio nero” e che di fatto è stato ancora più lungo, in pratica un quindicennio, sia pur con lievi attenuazioni già prima di quel 1986 che con la rectificación de errores segnava lo sganciamento dall’URSS.

Come mai tanta passione se il personaggio esaltato da quel programma televisivo era davvero uno zombie, che era stato dimenticato per decenni? Era stato qualche vecchio amico a volere che gli si rendesse omaggio?

Prima di tutto, in molti dei messaggi scambiati, e poi nel testo della conferenza di Fornet, si è denunciato il carattere non casuale e non isolato della riesumazione: negli stessi giorni erano apparsi in diversi programmi televisivi altri fantasmi di un passato non rimpianto, come Jorge Serguera Riverí (Papito), che era stato in quegli stessi anni settanta direttore della televisione cubana o Armando Quesada (detto Torquesada…), il “normalizzatore” del teatro cubano.

Nessuno di loro aveva avuto il minimo ruolo pubblico in questi ultimi anni. Io stesso qualche anno fa avevo incontrato più volte Papito Serguera, che mi interessava perché tra i suoi tanti incarichi era stato ambasciatore ad Algeri e Brazzaville negli anni della spedizione africana del Che. Era stato gentile e ricco di informazioni, anche se a tratti avevo intravisto gli artigli del burocrate nella rivendicazione del suo ruolo come “fiscal” cioè pubblico accusatore in diversi processi politici, a partire da quello contro Hubert Matos. Viveva in una splendida villa in cui teneva a pensione diversi stranieri dall’aspetto di uomini d’affari. Ma si considerava ritirato dalla vita attiva e a tratti si lasciava andare a considerazioni critiche sul presente.

 

Come mai questi personaggi riapparivano all’improvviso? E perché tanto allarme? La chiave sta in alcune allusioni prudenti al loro possibile sponsorizzatore contenute in diversi messaggi.

Nessuno lo ha nominato esplicitamente, ma è possibile che il “potente dirigente” a cui alcuni messaggi alludono sia Ramiro Valdés Menéndez, l’uomo che fu ministro degli interni durante il periodo più repressivo del regime, dal 1961 al 1969, gli anni iniziati con quel “Terrore rosso” a cui alludeva polemicamente Guevara in una conferenza del 1962 ai membri dei servizi di sicurezza. Allontanato da Fidel, era stato poi recuperato di nuovo per la stessa carica nel 1978, rimanendovi fino al 1986, quando era stato poi di nuovo destituito da Castro all’inizio della rectificación. In quell’anno era stato anche allontanato dall’Ufficio Politico, pur rimanendo nel comitato centrale.

Ramiro Valdés non era mai stato considerato troppo amico di Raúl Castro, e quando era stato recuperato da Fidel all’inizio del 2006 con la nomina nel ristretto Consiglio di Stato “con importanti funzioni esecutive” i soliti “esperti cubanologi” avevano parlato di una mossa che lo metteva in lizza per la probabile successione al líder máximo. Tuttavia, poco dopo l’annuncio della malattia di Fidel, è arrivata la sorpresa: Raúl Castro ha nominato Valdés ministro, non degli Interni ma dell’Informatica e Comunicazioni: da cui dipende, appunto, anche la radio e la televisione. Dell’informatica e del suo controllo (con consulenti oggi cinesi, ieri tedesco orientali) Ramiro si occupava da tempo. La sua nomina da parte di Raúl Castro a un ministero che assume caratteristiche importanti, analoghe e parallele a quello dell’Interno (secondo alcuni commentatori era stato Valdés che aveva preparato l’arresto dei 78 dissidenti nel 2003), significa probabilmente che tra le varie correnti che gestiscono il potere a Cuba c’è stato un accordo. Ma la ricomparsa, nella sua scia, dei vari Pavón e Torquesada, ha gettato un allarme tra chi pazientemente aveva cercato di allargare gli spazi di dibattito democratico a Cuba a partire dalle riviste indipendenti come Temas, Criterios o Contracorriente, i Centri Studi, alcune facoltà universitarie e forse gli stessi sindacati. E tutti hanno scritto: non possiamo tacere come abbiamo fatto in passato. Se si torna indietro, è colpa del nostro silenzio, della nostra rassegnazione.

Tra gli interventi più coraggiosi, fatti arrivare su internet in reti spagnole (ad es. kaosenlared.net) o latinoamericane, quello di Soledad Cruz, giornalista e poi a lungo ambasciatore di Cuba presso l’Unesco, uno del popolare cantautore e deputato Silvio Rodríguez, e “tredici proposte” dell’ex diplomatico Pedro Campos. Ma un appello comune era stato firmato da molte personalità, che vanno dalla figlia di Raúl Castro, Mariela, a monsignor Carlos Manuel de Céspedes, da Alberto Guevara, direttore storico dell’Istituto del cinema, a Desiderio Navarro o Ambrosio Fornet..

Tutto questo nel 2007 e fino ai primi mesi dell’anno successivo. Ora sembrano tutti ammutoliti, tanto più che una retata in una paladar frequentata da artisti (alla ricerca di “droga”…) ha fatto pensare che il prossimo bersaglio, dopo Lage e Pérez Roque, potesse essere il prestigioso ministro della cultura Abel Prieto, che nell’aprile  2008 si era impegnato per il rinnovamento nel Congresso dell’UNEAC, l’unione degli scrittori e degli artisti cubani, suscitando nuove speranze.

Solo Leonardo Padura Fuentes, il popolare giallista, ha rotto il silenzio esaltando, in un’intervista al Corriere della sera del 19 aprile, le offerte di Obama, e auspicando l’apertura di Cuba al turismo degli Stati Uniti. Un’implicita polemica con le esternazioni di Fidel sul rifiuto delle elemosine? In ogni caso, molto poco rispetto a quello che si delineava un anno fa…

Aspettiamo, non i doni sospetti di Obama, ma l’ingegnosità cubana nel riuscire a comunicare nonostante gli ostacoli…

21 aprile 2009

Antonio Moscato

 

Consigli di lettura

1)       Antonio Moscato, Breve storia di Cuba, 3a edizione, Data News, Roma 2006. (euro 9)

2)       Antonio Moscato, Il risveglio dell’America Latina, Alegre, 2008. (euro 15). Anche se è dedicato all’insieme dei problemi del continente, una parte non trascurabile è dedicata a Cuba nell’attuale contesto latinoamericano.


[1] Un altro sintomo di questo nuovo peso della Chiesa era stato rappresentato dalla scarcerazione di 300 detenuti  richiesta dal cardinal Sodano durante la visita del papa come gesto di buona volontà in vista di nuovi incontri. Erano contenuti in una lista più ampia: di essi 75 erano definiti da Sodano “prigionieri politici” (da Robaina “controrivoluzionari”), i rimanenti venivano liberati per motivi umanitari. Il cardinal Bertone è tornato con maggiore prudenza, ma con la stessa richiesta, sia pure senza una lista precisa.