I trotskisti venezuelani sulla Siria e i compiti della sinistra

 

L’importanza di questa presa di posizione da parte dei compagni venezuelani, che non si limita a una dichiarazione formale di solidarietà con la Siria, o di rigetto della demonizzazione di voci critiche come quella di Santiago Alba Rico, che era già stata pubblicata tre giorni fa sul sito in lingua originale in Polemiche latinoamericane sulla Siria , ci ha spinto a tradurla rapidamente in italiano. La traduzione è di Titti Pierini. (a.m. 13/9/13)

Presa di posizione di Marea Socialista sulla vicenda siriana, le sollevazioni dell’area e i compiti di una sinistra internazionalista radicale

 

 

Dopo il 21 agosto scorso, la Siria è tornata in primo piano sulla stampa mondiale. L’assassinio di più di 1.400 persone con l’uso di armi chimiche ha offerto ad Obama il pretesto per lanciare una minaccia di intervento criminale degli Stati Uniti contro questo già martoriato paese del Medio Oriente. Una minaccia nella quale è rimasto impegolato e che, per ciò stesso, è ancor più pericolosa.

Centomila morti, mezzo milione di feriti e mutilati, oltre un milione (calcolando solo i minori di 18 anni) di esiliati sono le vittime calcolate dal marzo del 2011, le vittime procurate dalla dittatura di Bashar al-Assad, che fanno del conflitto siriano il più tragico del XXI secolo. Questi dati sono quelli tratti dai rapporti dell’ACNUR e che finora nessuno smentisce.

L’intervento militare statunitense verrebbe ad aggiungere a tale tragedia una quota straordinaria di barbarie e la sicura possibilità di un’esplosione di portata regionale, dalle incalcolabili conseguenze.

Per quello che riusciamo a vedere da fuori, senza provare nel vivo della carne l’angustia della violenza quotidiana, il dolore e l’odio per la quotidiana perdita di familiari, amici o compagni, la desolazione per la distruzione di quello che in altri tempi era noto come il “paese della cannella”, il dibattito scatena la passione e l’urgenza per il pericolo che l’aggressione imperialista comporta per l’umanità.

Come riuscire a contribuire ad evitare il massacro interno? Che fare per impedire l’intervento imperialista, che provocherebbe un ulteriore e straordinario salto nella spirale di violenza che subirebbero in primo luogo le popolazioni siriana e dell’intera regione? Che fare per aiutare questo popolo, che si è levato contro decenni di oppressione, a raggiungere il suo obiettivo? Le risposte a questi e ad altri interrogativi percorrono gli aspri dibattiti che si stanno sviluppando nella cosiddetta “sinistra” mondiale.

La crisi di dominazione del sistema capitalista, innescata a partire dalla crisi finanziaria del 2007, ha aperto una nuova fase di ribellioni: un periodo di lotte e manifestazioni che hanno scatenato processi rivoluzionari contro governi e regimi in vari paesi del mondo e che pongono in discussione le organizzazioni politiche tradizionali e le stesse istituzioni della governabilità capitalistica. Ma un periodo anche di controrivoluzioni e guerre che pretendono di schiacciare un inusitato processo di ascesa delle lotte dei popoli e la connaturata aspirazione al cambiamento.

In questa nuova fase mondiale, la Primavera Araba, e cioè il processo di rivoluzioni democratiche e anticapitalistiche che ha liquidato il vecchio status quo di oltre cinque decenni nel Vicino Medio Oriente, costituisce il principale laboratorio regionale dello scontro tra Rivoluzione e Controrivoluzione. Il costo in vite umane che sta avendo questa barbarie, promossa da dittatori, monarchi, dallo Stato nazistoide di Israele e dai capi dell’imperialismo mondiale, sarà vano se non ricaviamo gli insegnamenti che questi processi ci consegnano.

A nostro avviso, siamo di fronte alla presenza di un processo di lunga durata, che conoscerà nel suo sviluppo progressi e involuzioni. Un processo che, con le sue specificità, con i suoi tempi e ritmi distinti, continuerà ad estendersi a macchia d’olio. Per questo, quel che l’intervento diretto che l’imperialismo americano prepara per la Siria contiene, tra gli altri obiettivi, quello di infliggere un colpo al processo rivoluzionario dell’area, il cui precedente va ricercato nella crisi strutturale del capitalismo evidenziatasi e avviatasi a partire dal 2007.

Identificare le cause di fondo dell’attuale conflitto, individuare i settori in contrasto tra loro e il ruolo di ciascuna forza operante, capire la dinamica interna delle forze messe in moto, costruire un’attiva solidarietà per sostenere i rivoluzionari che si battono laggiù rientra fra i compiti del dibattito che dovremo affrontare per sgomberare l’oscurità provocata dai grandi mezzi di  propaganda imperialista e da quella della dittatura ereditaria siriana e dei suoi alleati. Il contributo che aspiriamo a realizzare con questo testo, correndo il rischio di essere unilaterali, va considerato a partire dalla collocazione che abbiamo nel Venezuela bolivariano e dalla nostra lotta in difesa delle conquiste del processo rivoluzionario in questo paese.

 

Siria: Capitolo nazionale della rivoluzione araba

 

L’esplosione nel marzo 2011 delle prime manifestazioni popolari in Siria ha seguito, pur con le sue peculiarità, il modello e gli obiettivi delle rivolte di Tunisia ed Egitto: mobilitazioni popolari che diventano rivolte di massa, rivendicando libertà, bisogni sociali e dignità.

In quel momento, l’ondata d’espansione di quella che si è chiamata “Primavera Araba”, ha coinvolto vari paesi della regione: Yemen, Marocco, Bahrein, Libia, oltre alla Tunisia e all’Egitto già ricordati. Nessuno si azzardava allora a parlare, nel caso siriano, di un intervento straniero, eccettuata la partecipazione della Russia, che da sempre appoggia militarmente il regime di Damasco. Nel frattempo, nel primo mese di mobilitazioni, la repressione scatenata dal governo siriano raggiungeva la cifra di 3.000 assassinati tra i manifestanti.

L’opposizione semilegale, tollerata dal governo della famiglia Assad, accorse in suo aiuto e insieme pianificarono una relativa e manipolata apertura, che sarebbe dovuta sfociare in una nuova Costituzione consensuale per imbellettare il regime. Questo non impedì che si intensificasse una spropositata e crudele repressione, che accumulava centinaia di vittime settimana per settimana, ma meno ancora bloccò la rivolta che aveva preso corpo e che andò crescendo per numero e combattività. Via via che si sviluppavano gli avvenimenti, le presunte riforme che erano state concordate con quella pusillanime opposizione venivano considerate inutili da Assad, con il cinico argomento che il popolo siriano non le richiedeva.

L’intervento criminale della NATO in Libia, il brusco riassorbimento del processo nello Yemen, le riforme di facciata in Marocco, l’intervento schiacciante delle forze dell’Arabia Saudita in Bahrein, il crudele crescendo di violenza in Siria e il colpo di Stato in Egitto non hanno, tuttavia, arrestato finora la rivolta che aveva destituito Ben Ali e Mubarak, né hanno “stabilizzato” la regione.

Al contrario, dopo mesi dalla sua esplosione, il processo ha liquidato il vecchio status quo laboriosamente costruito nella regione dagli Stati Uniti, dai suoi alleati occidentali, da Israele e dalle monarchie e dittature che hanno governato quell’area negli ultimi cinquant’anni. Uno status quo sorretto fin dagli inizi dalla oggi scomparsa Unione Sovietica. Status quo che si incrinò di nuovo a partire dalla Rivoluzione iraniana contro lo Shah di Persia, e che Bush figlio cercò di ristabilire con la fallimentare invasione contro l’Iraq. Tra gennaio e giugno 2011, in appena sei mesi, questo scacchiere malconcio ma tenuto in piedi per decenni perché che garantiva all’imperialismo il controllo di un’area strategica per le sue risorse naturali e la sua collocazione geografica, saltò per aria.

Questo è il quadro in cui la Rivoluzione siriana si trasforma in guerra civile o in scontro armato e diventa terreno per il tragico intervento di potenze mondiali e regionali; in primo luogo – e fin dal momento stesso in cui esplode la rivoluzione – con il sostegno in armi e attrezzature da parte della Federazione Russa a un governo presunto “legittimo” per il “diritto internazionale”, ma che ha dimostrato per quasi tre anni e agli occhi di chi voglia vederlo la sua natura di regime genocida. Intanto, il cerchio dell’orrore si chiude con l’attuale minaccia statunitense di distruzione massiccia.

 

Una guerra civile atipica

 

La guerra civile negli Stati Uniti al termine del XIX secolo, la Russia dopo la Rivoluzione bolscevica, o la Spagna tra repubblicani e franchisti, solo per richiamare alcuni esempi, contavano per ciascuno dei campi in lotta su centri politici e centri di comando militare relativamente concentrati. Questa non è la situazione del campo ribelle nella guerra civile siriana.

Lo sviluppo della Rivoluzione siriana ha seguito il modello della Primavera araba. Mobilitazioni con larghissima partecipazione si sono estese dalla città in cui era iniziata la rivolta fino al resto del paese La natura pacifica delle manifestazioni fu rivendicata dai Comitati di coordinamento locali finché la repressione non passò dai franco-tiratori e gli assassinii per strada all’intervento diretto delle forze armate del regime come esercito d’occupazione nel proprio stesso paese, utilizzando tutto l’armamento di cui dispone uno degli eserciti meglio armati della regione. Le manifestazioni pacifiche lasciarono il posto alla difesa armata da parte della popolazione, che ha cercato e cerca di resistere all’interno. Ma si tratta di una difesa atomizzata, locale e straordinariamente difensiva

Le diserzioni in seno all’esercito sono state alimentate dal rigetto dei primi massacri, un centro militare dell’Esercito Siriano Libero (ESL) si insediò in Turchia e avviò il tentativo di organizzazione di una forza di difesa della rivoluzione. Tuttavia, le squadre dell’ESL che operano all’interno lo fanno in base al criterio delle esigenze difensive locali, senza rispondere sul piano generale a un comando unico, che peraltro non c’è.

Senza un unico centro nazionale della ribellione nel paese, con la direzione politica all’estero paralizzata da differenziazioni politiche e tattiche insanabili, con le sue milizie che operano senza collegamenti né comando centrale, in una situazione del genere la partecipazione delle milizie straniere settarie ed estremiste non può che rispondere a chi le finanzia, le arma, e procedono dal punto di vista politico e ideologico secondo i loro propri interessi. Queste forze estremiste takfir [integraliste, prevalentemente salafite] finanziate dal Qatar e dall’Arabia Saudita, come pure le milizie che in Occidente si conoscono con il nome di Al-Qaida, operano in difesa degli interessi di queste monarchie, cercando di indirizzare la guerra su queste basi, anche se i loro obiettivi e le loro concezioni sono rifiutati dalla popolazione siriana.

Di fatto, il popolo rivoluzionario siriano, non essendo riuscito a costruire una direzione politica centralizzata né un unico comando militare, è stato sospinto a mutare la natura pacifica delle sue mobilitazioni nella difesa armata della rivoluzione, per far fronte alla brutalità del regime. Più che in presenza di una classica guerra civile, siamo di fronte alla difesa armata di una rivoluzione ferocemente aggredita, con tutta la forza distruttiva che sorregge lo Stato.

 

Respingiamo l’intervento imperialista perché va contro la rivoluzione

 

Contrariamente a quel che sostiene Assad, il principale obiettivo dell’intervento militare che gli Stati Uniti stanno pianificando non è l’abbattimento del regime siriano. Obama sostiene che ciò che ricerca è un’azione punitiva verso Damasco, anche se in realtà non vi è motivo di credergli. Al contrario, il crollo di Assad potrebbe essere ritenuto dall’imperialismo un danno collaterale, se avvenisse in conseguenza del suo intervento militare.

La principale preoccupazione del vecchio e indebolito imperialismo che ancora domina il mondo è l’incertezza che pervade la regione, l’operato di tante forze con interessi loro propri: Russia, Cina, Iran, Israele, Hezbollah, Arabia Saudita, Al-Qaida, eccetera. Nessuna di queste, tranne Israele, secondo la logica imperialista nordamericana, deve imporsi sulle altre, a rischio di mettere in discussione il dominio mondiale gringo.

D’altro canto, come principale forza controrivoluzionaria quali sono, gli Stati Uniti non possono permettere che il processo di ribellione regionale si sviluppi. Perciò giustificano amichevolmente il governo sorto dal colpo militare egiziano, affiancano l’esperimento delle varianti musulmane subordinate al capitale, come nel caso della Tunisia o prima di Morsi in Egitto. Hanno facilitato la repressione nello Yemen e incoraggiato l’Arabia Saudita a intervenire in Bahrein.

Non è il presunto e ormai rancido “antimperialismo” della dittatura di Damasco a preoccupare Obama; né il falso socialismo, di cui reca il nome il partito-Stato che governa la Siria, un paese che prima che il conflitto iniziasse registrava oltre il 40% della popolazione al di sotto della soglia di povertà; meno ancora, un piano programmato passo per passo per dominare la regione. È, invece, la certezza che il protrarsi della ribellione avviata in Tunisia alla fine del 2010, e che si è estesa in quell’area proverbialmente esplosiva del pianeta, possa farla finita con i regimi totalitari o marionette che opprimono quei popoli, aprendo la strada alla messa in questione dell’esistenza stessa dello Stato di Israele.

Per questa ragione, poiché sosteniamo questi popoli e questo processo rivoluzionario, che Obama punirà con il suo intervento nel corpo già martoriato ed eroico del popolo siriano ribelle, respingiamo con fermezza l’intervento imperialista.

 

L’argomentazione errata dei compagni che si fidano di Bashar Al-Assad

 

Per i compagni che vedono come imperialista e genocida solo gli Stati Uniti, il mondo è un luogo semplice e prevedibile e la storia si ripete come una ruota, all’infinito. Vedono la realtà internazionale come in una fotografia in bianco e nero, tra le intenzioni i desideri e le politiche di Obama o di chiunque fosse il presidente yanqui, e il resto dell’umanità dall’altro lato. Non si sono ancora resi conto del crollo dell’URSS, della fine della Guerra fredda, della restaurazione capitalistica in Russia e Cina, né della crisi mondiale esplosa nel 2007 e che è la più grave degli ultimi cento anni. Chiudono gli occhi su un processo di ribellione regionale che ha ormai più di due anni e mezzo. E quando ne parlano, lo fanno sostenendo che si tratta soltanto di un piano meticolosamente concepito dagli Stati Uniti, presentandone il potere come sempre intatto, disprezzando così le ribellioni popolari.

L’argomentazione di queste frange si basa sostanzialmente sulla negazione dei fatti e della realtà. Per loro, in Siria non c’è guerra civile, e poi pubblicano foto di “ribelli che assassinano soldati siriani”. Non ci sono state armi chimiche, ma asseriscono comunque che “potrebbero averle lanciate solo i “ribelli”. Mettono su uno stesso piano di identità le brigate di forze fondamentaliste straniere che operano ai margini degli obiettivi rivoluzionari e il popolo siriano in rivolta, e quindi giustificano la repressione di Assad contro il popolo siriano.

Affermano che se non si difende Bashar Al-Assad si sta per forza dalla parte dell’intervento imperialista. Sostengono che non esiste un settore massiccio del popolo siriano che rifiuti il regime, e a dimostrazione di questo dicono che Assad continua a stare al governo, ma nascondono che il regime si regge in base a un genocidio contro un popolo male armato, e sulla distruzione di gran parte del paese

Non parlano dei dati forniti delle istanze dell’ONU come l’ACNUR, che annoverano le vittime in oltre centomila morti, due milioni di profughi e mezzo milione di feriti. Chiedono invece all’ONU l’informazione dei suoi ispettori sulle armi chimiche e una soluzione politica del conflitto. Conflitto che certamente negano.

E quelli che non hanno lo stomaco per negare la natura dittatoriale del regime della repubblica ereditaria, ne giustificano la difesa come “il male minore”.

Quest’ottica cospirativa e superficiale della storia è al tempo stesso intollerante verso chi, come noi, a partire dal medesimo campo del rifiuto dell’intervento imperialista, la pensino diversamente e non accettino di sostenere la famiglia Assad. E quando i loro argomenti sono smentiti, ricorrono alla calunnia, alla denuncia infondata e alla criminalizzazione delle opinioni diverse dalle loro.

 

Il bisogno di fare ascoltare la voce della sinistra radicale

 

Non pretendiamo, e crediamo sarebbe un errore e una mancanza di rispetto verso coloro che lottano in zona, di entrare in discussioni tattiche. Crediamo di dover rispettare le posizioni di quanti, partendo dai loro processi, sostengono le proposte rivoluzionarie. Per questo facciamo appello a diffondere la dichiarazione che si può leggere nel link: http://www.aporrea.org/internaciona…. Si tratta di un testo sottoscritto da varie organizzazioni di diversi paesi della regione, tra cui la Siria. [in italiano pubblicato sul sito Sinistra Anticapitalista: http://anticapitalista.org/2013/09/05/dichiarazione-delle-forze-rivoluzionarie-arabe-e-del-maghreb-siamo-con-la-rivoluzione-del-popolo-siriano-no-allintervento-straniero/ ]

Ovviamente non possiamo limitarci ad esprimere il nostro rifiuto dell’intervento imperialista e ad manifestare la nostra solidarietà con il popolo siriano in lotta: Siamo in molti nel mondo quelli che, fin dall’inizio della Primavera araba, abbiamo sostenuto incondizionatamente quelle ribellioni. Ma lo stiamo facendo in modo isolato, e ciascuno di noi a partire dai paesi in cui viviamo.

Il recupero della tradizione internazionalista di quanti ci battiamo contro il capitale è un compito fondamentale per affrontare i nuovi tempi che si stanno sviluppando. Un primo passo per riprendere questa tradizione è la necessità di cercare di creare spazi di discussione e di intervento solidale comuni e di impatto internazionale.

Se non ci diamo da fare concretamente, la posizione che oggi sostengono settori della sinistra mondiale di appoggio al regime siriano diventerà un debito che il movimento di massa farà pagare indistintamente a tutti quelli che ci proclamiamo di sinistra.

È indispensabile che la voce della sinistra radicale sia ascoltata per l’effettiva forza che ha; perché i popoli che lottano nel mondo vedano che esiste una sinistra diversa, pluralista, anticapitalista, realmente impegnata contro la brutalità imperialista ed ogni forma di barbarie.

Dietro la nube tossica che sta nascondendo la vita e la morte quotidiane del popolo siriano ribelle, è nostro dovere aprire la strada ad un raggruppamento internazionale della sinistra radicale che lavori ad amplificare il grido di libertà e dignità che si leva dal più profondo della memoria collettiva dei popoli che lottano.

 

Un indispensabile chiarimento sulla denigrazione di Santiago Alba Rico

 

Purtroppo, dall’interno del nostro processo bolivariano si sono levate voci che attaccano Santiago Alba Rico, distorcendone le posizioni, utilizzandole per denigrarlo e come presunte prove di una posizione filo-imperialista. Si tratta degli stessi che, esaurite le loro argomentazioni, denigrano chi la pensa diversamente e pretendono di seminare il dubbio sulla sua onestà intellettuale e politica, relegandolo al limite dell’accusa di agente imperialista.

Santiago Alba Rico vive a Tunisi, è uno scrittore, un filosofo e un militante della Primavera araba. Amico della Rivoluzione bolivariana, è anche stato in varie occasioni in Venezuela, invitato dal governo del presidente Chávez per partecipare alla giuria del Premio Libertador al Pensamiento Crítico. Ha fatto parte del Comitato organizzativo dell’ultimo Forum Contro il Debito dei Paesi del Mediterraneo svoltosi a Tunisi. È parte attiva della Flottiglia della Libertà, in solidarietà attiva con la Palestina. È amico della Rivoluzione cubana e dei processi che si sono scontrati con il neoliberismo in America Latina. In un recente articolo, Atilio Borón, Premio Libertador al Pensamiento Crítico 2013, pur non concordando con la sua posizione, ha sostenuto la sua integrità di militante di sinistra.

Marea Socialista, che annovera fra i suoi amici a livello internazionale Santiago, intende esprimergli la propria solidarietà, mentre respinge al contempo ogni tipo di denigrazione nel confronto delle idee, come pure la volontà di eliminare l’internazionalismo critico e quella di installare un pensiero unico basato su illusioni dogmatiche e non sui fatti reali onestamente indagati e comprovati.

 

Per Marea Socialista: Carlos Carcione, Stalin Pérez,

Juan García, Zuleika Matamoros,

Gonzalo Gómez, Alexander Marín