Il manifesto celebra Stalin

Di intellettuali che si richiamano al marxismo, in Italia, non ne sono rimasti molti, ma spesso sarebbe meglio che ce ne fossero un po’ di meno: hanno quasi tutti una impostazione che prescinde con fastidio dai dati storici reali, ed è attenta invece alla sola storia delle idee. Per esempio negli anni 80 ce n’erano diversi che tessevano le lodi della meravigliosa “terza via” teorizzata dagli austromarxisti, che riuscivano a evitare perfettamente (sulla carta…)  gli “errori” di comunismo e socialdemocrazia… Chi li esaltava naturalmente dimenticava il tragico esito del SPÖ, un partito fortissimo e per giunta dotato di una fortissima milizia armata che però, di rinvio in rinvio, finì per dover accettare lo scontro nel 1934, quando era troppo tardi, e aprì la strada al temibile austrofascismo e a Hitler. Ma in Italia contavano le belle idee, non i fatti…

Ora è il turno dei riscopritori di Stalin. Di Domenico Losurdo ho parlato fin troppo (mi limito a ricordare uno dei tanti scritti che gli ho dedicato: Le ossessioni di Losurdo), ma il suo metodo di giudicare lo stalinismo dalle belle dichiarazioni (di Stalin o dei suoi numerosi ammiratori borghesi), e considerare secondari i bilanci delle scelte fatte dai partiti comunisti sotto la sua guida, ha fatto scuola. Vi è approdato anche Luigi Cavallaro, un magistrato “cultore di economia politica”, che ha deciso di tessere insieme l’apologia di Keynes e quella di Stalin sul manifesto del 12 marzo 2013.

Comincia con un taglio letterario, prendendo a pretesto un racconto di Leonardo Sciascia, suo compaesano, dedicato a un sarto comunista che sognava spesso uno Stalin bonario che protestava contro l’imbalsamazione, e rassicurava il suo adepto sul significato di qualche scelta che non lo convinceva del tutto, come il patto Ribbentrop-Molotov: “un trucco per poter riuscire in futuro a schiacciare il serpe tedesco”. Ovviamente questo preambolo serve solo per ricordare quanto grande fosse la fede popolare nel grande leader. L’ho conosciuta bene questa fede, e l’ho rispettata (nel 1956 ero segretario di una cellula che si chiamava “Stalin”, accanto a quelle dedicate ad alcune delle sue vittime, Kirov, Oržonikidze, ecc.) Ovviamente questo non c’entra niente col giudizio complessivo su Stalin, e tanto meno con la conclusione che sarebbe difficile giudicarlo:

“Se non Stalin, certo lo «stalinismo» torna continuamente a turbare i nostri sonni: perché non abbiamo ancora che un nome al posto di un concetto che possa finalmente render comprensibile a noi comunisti la nostra stessa storia. Nessun comunista ragionevole, in effetti, può negare che il movimento operaio ha fatto la storia del secolo breve all’insegna di una linea politica e di pratiche staliniste”.

Fin qui poco male. Chi può negare che tanti comunisti morirono col nome di Stalin sulle labbra? Ma questa fede provava forse che la strategia e la tattica adottate dopo l’eliminazione dei protagonisti della rivoluzione e della vittoria nella guerra civile fossero giuste? E questo può permettere di considerare “lo «stalinismo» una questione attuale e non puramente storica o teorica”? Stalinismo è rigorosamente tra virgolette, ma non è questo che mi scandalizza. Sono decenni che ripeto che il termine è insufficiente, e non permette di valutare a pieno quel che è stato, ma il termine non l’ho inventato io, ma Stalin.

L’obiettivo di Cavallaro non è comunque quello di una maggiore precisione, ma della cancellazione della “damnatio memoriae”, e ricorre per questo al medesimo trucco usato da Losurdo e in passato da Canfora: credere che l’unica denuncia dello stalinismo sia quella venuta dagli epigoni.

“Tutti dobbiamo ammettere che la denuncia del «culto della personalità» fu un escamotage per occultare che di tutto quanto era successo dall’indomani dell’Ottobre nessuno sapeva darsi una spiegazione. Si trattava – notò a ragione Althusser già nei primi anni Sessanta del secolo scorso – di uno pseudoconcetto, che spostava nel campo delle sovrastrutture gli «abusi», gli «errori» e naturalmente i crimini, senza però darsi pena d’indagare le loro condizioni”.

Facile, tanto più se si prende per buono il ridicolo termine di “culto della personalità”, classica espressione della “neolingua” escogitato dagli eredi di Stalin per ridimensionare le proprie colpe. Come Losurdo, Cavallaro ignora non solo l’elaborazione dell’Opposizione di Sinistra fin dal 1923, ma la critica severa che il movimento trotskista fece subito al “Rapporto segreto” di Chrusciov al XX Congresso del PCUS, considerandolo un tentativo perfettamente staliniano di attribuire le colpe collettive al solo Stalin.

E non ci si illuda su quel generico ed ellittico accenno ai “crimini”. La frase che segue sulla necessità di “darsi pena d’indagare le loro condizioni” serve solo a portare fuori strada, ed è seguita da questa incredibile considerazione: “una spiegazione storica in tanto può rivendicare il titolo di «marxista» in quanto riporti l’agire delle circostanze sovrastrutturali sulla base dei rapporti di produzione”. È veramente sorprendente: come si può spiegare la cacciata dal partito della maggioranza dei protagonisti dell’Ottobre (già grave anche se non fosse stata completata dalla loro soppressione fisica) soltanto con i rapporti di produzione? Questo riscopritore di un Marx banalizzato e ridotto a un volgare determinista, come se non avesse mai indagato sulle dinamiche delle sovrastrutture e sulla loro relativa autonomia, probabilmente ignora che le vittime di Stalin non erano riconducibili a una diversa concezione presumibilmente “sbagliata” dei rapporti di produzione, o peggio ancora a un rifiuto della pianificazione, dato che appartenevano a tutte, davvero senza eccezione, le tendenze del partito bolscevico: tra le vittime moltissimi erano stati infatti inizialmente fedeli seguaci di Stalin nelle battaglie contro le opposizioni di destra e di sinistra. Penso comunque si tratti soprattutto di ignoranza, dato che Cavallaro sferra en passant un attacco all’economista Evgenij A. Preobrazenskij, attribuendo a torto alla sua teoria dell’“accumulazione originaria socialista” la prefigurazione e l’innesco dei “processi sommari, deportazioni ed esecuzioni di massa, cioè degli aspetti più truci della guerra civile”. Guerra civile che era finita almeno da quindici anni quando c’è stato il salto qualitativo che ha avviato il grande Terrore. E poi prosegue:

“È certo frutto di un’astuzia della storia se, a sessant’anni esatti dalla morte di Stalin [Confesso che non ci avevo fatto caso inizialmente, solo ora mi rendo conto che l’articolo è motivato dalla celebrazione dell’anniversario! NdR] una simile spiegazione è diventata luogo comune della storiografia borghese, che ha bollato di «stalinismo» tutto ciò che è venuto dall’esperienza dell’Unione Sovietica – inclusi il governo pubblico dell’economia, il partito di massa, i diritti sociali di cittadinanza e la stessa piena occupazione. Una situazione del genere, infatti, costringe inevitabilmente i comunisti a volgersi indietro e a riprendere i fili del problema lì dove essi hanno cominciato ad aggrovigliarsi: più precisamente, in quel «punto zero» della storia interna dei rapporti di produzione socialisti in cui si è avuto l’incontro tra masse organizzate in un partito, da un lato, e mezzi di produzione e forza-lavoro lasciati «liberi» dalla crisi della riproduzione capitalistica, dall’altro”. 

Cavallaro sostiene che la “storiografia borghese, (…) ha bollato di «stalinismo» tutto ciò che è venuto dall’esperienza dell’Unione Sovietica – inclusi il governo pubblico dell’economia, il partito di massa, i diritti sociali di cittadinanza e la stessa piena occupazione”. A parte che i partiti di massa non venivano dall’Unione Sovietica, ma sotto la sua influenza sono stati burocratizzati, questa affermazione spaccia per storiografia borghese la più misera propaganda: allora dovremmo prendere sul serio anche un Cicchitto che dice che mandare i medici a controllare Berlusconi è stalinismo, e che i medici sono nazisti, o un Berlusconi che sostiene che Bersani sarebbe un comunista. Quanto ai diritti di cittadinanza nell’URSS degli anni 30 e 40, ve li raccomando proprio…

In parte mi è difficile proprio capire cosa vuol sostenere Cavallaro: mi sembra strano che affermi che “i rapporti di produzione che ne sono scaturiti hanno dato luogo ad un sistema «vitale», nel limitato eppure preciso senso che gli dava l’economista (e comunista) Piero Sraffa: cioè capace di generare un prodotto idoneo a reintegrare i mezzi di produzione consumati nel corso del processo produttivo ed eventualmente a generare un sovrappiù, da destinare all’allargamento della produzione o all’incremento del consumo” E ancor meno capisco la sua conclusione: “Preso nel suo punto zero, lo «stalinismo» è nient’altro che questo”.

Davvero? Nient’altro che questo? Ed è sicuro di poter affermare, dopo il tracollo della fine degli anni Novanta (ma direi anche dopo le osservazioni critiche di Che Guevara già alla metà degli anni Sessanta), che quel sistema fosse così “vitale”? A me pare davvero incredibile che una persona con un minimo di conoscenze della storia dell’URSS possa prendere per buona una dichiarazione propagandistica di Stalin ad una delegazione operaia americana che lo intervistò nel 1927: «da noi il partito dirige il governo», disse, non senza precisare che si trattava di una situazione antitetica rispetto a quella dei paesi capitalistici, dove – ad onta dell’esistenza di grandi parlamenti democratici – i governi rimanevano sotto il ferreo controllo delle istituzioni finanziarie”.

Bizzarramente poi Cavallaro sostiene che è “nell’ambito dei conflitti generatisi per l’apparire e il successivo consolidarsi di questa «forma pura» che si deve collocare la figura stessa di Stalin. Il quale è stato in ultima analisi un prodotto, non certo l’«autore», dei processi storici del tempo in cui ha vissuto”. Un affermazione metodologica che sarebbe accettabile, e che si potrebbe applicare non solo a Stalin, ma a Cesare o Napoleone o a qualunque personaggio storico. Ma poi Cavallaro precisa in maniera stupefacente: “Certo, con un ruolo decisionale considerevole, ma che esercitò rimanendo nell’ambito di opinioni assai diffuse tra gli strati dirigenti del partito nonché in buona parte della popolazione sovietica”. Non gli viene il sospetto che la diffusione di queste idee condivise era la logica conseguenza del fatto che chi non era d’accordo spariva nei Gulag?

Bontà sua, Cavallaro ammette per un momento il dubbio che quello non fosse “l’unico esito possibile dell’Ottobre”. Ma poi, per “evitare di reintrodurre teologie mascherate di teleologie”, gli “basta retrospettivamente prendere atto che quell’«incontro» ha conferito forma e realtà effettuale a elementi – partiti, mezzi di produzione, lavoratori – che dopo la dissoluzione della razionalità ordinatrice del modo di produzione capitalistico erano rimasti per lunghissimi e terribili anni nel limbo di un’esistenza fantasmatica, segnata da crisi economiche, disoccupazione di massa e guerre mondiali.” Questa del limbo è proprio difficile da capire…

Ma anche un’altra ricostruzione è sorprendente: secondo lui “il potere sovietico, dopo aver instaurato il «controllo operaio» delle fabbriche, dovette quasi subito sovrapporre a quell’embrione di «proprietà sociale» dei mezzi di produzione la direzione pianificata dei processi produttivi: una volta che si fosse permesso a ciascuna fabbrica di relazionarsi con le altre e con i consumatori finali per via esclusivamente monetaria, l’impiego dei mezzi di produzione sarebbe risultato nuovamente asservito alle esigenze di valorizzazione del capitale”. E questa sarebbe la sostanza dello stalinismo? Possibile che Cavallaro non sappia che la richiesta di una pianificazione era il cavallo di battaglia dell’Opposizione di Sinistra quando Stalin era invece alleato di Bucharin e auspicava che i contadini si arricchissero liberamente?

Quanto alla fine non solo del controllo operaio, ma dei consigli di fabbrica, avvenne prestissimo, e fu un errore tragico, ma lo stalinismo non c’entrava né nella sua instaurazione, né nella soppressione e centralizzazione: fu una conseguenza della logica spietata e inesorabile della lotta per la sopravvivenza, nel quadro della guerra civile.

Come Losurdo, e altri tardivi estimatori di Stalin, Cavallaro è sostanzialmente un buon borghese, che apprezza una riduzione dell’Ottobre al gradualismo e alla conquista dello Stato dall’interno. Secondo lui infatti questa sarebbe la grande lezione di Stalin:

“Non si potrebbe dirlo meglio che con le sue stesse parole: «Il fatto è che lo sviluppo economico non si attua mediante rivoluzioni, ma attraverso modificazioni graduali; il vecchio non viene semplicemente liquidato, ma modifica la sua natura in relazione al nuovo, conservando soltanto la sua forma, mentre il nuovo non distrugge semplicemente il vecchio ma penetra in esso, modifica la sua natura, le sue funzioni, senza distruggerne la forma, ma impiegandola per lo sviluppo del nuovo». Come dire: denaro, banche, debito pubblico, e poi naturalmente partiti, sindacati, imprese erano istituzioni che, sebbene nate all’ombra del modo di produzione capitalistico, erano suscettibili di mutare la loro natura ovunque avesse fatto presa un «incontro» analogo a quello che stava all’origine dell’esperimento dell’Ottobre”. Sic!

Lascio poi ai lettori la discussione sulla fondatezza dell’accostamento fantasioso di Stalin all’altro grande idolo di Luigi Cavallaro, lord Keynes. In ogni caso, riproduco integralmente l’articolo, nonostante la sua lunghezza (con qualche amarezza, ricordando quanto sia sempre stata avara di spazi la redazione ogni volta che mi ha commissionato un articolo). Ma, in ogni caso, chi vuole potrà giudicare.

(a.m. 12/3/13)

 

Novecento che non passa

di Luigi Cavallaro, dal Manifesto

Stalinismo è il termine spesso usato per lanciare periodici j’accuse contro ogni tipo di regolazione statale dell’economia. Finito il tempo dell’esorcismo è però giunto il momento di analizzare le basi materiali in cui operò Stalin e che portarono allo sviluppo dell’esperienza del welfare state

Racconta Leonardo Sciascia che, una notte, il sarto Calogero Schirò sognò Stalin. Era in una bara di vetro, le mani secche e dure. Accostò il viso per scorgerlo meglio, quando sulla bara vide posarsi una grande mano: era la mano di Stalin, era vivo e diceva: «Meglio di così non potevano ammazzarmi; due volte».
Si svegliò male. Gli era già capitato di sognarlo. La prima volta all’indomani del patto Ribbentrop-Molotov: Stalin gli era apparso per tranquillizzarlo, dicendogli che si trattava di un trucco per poter riuscire, in futuro, a schiacciare il serpe tedesco. La seconda volta era successo nel bel mezzo dell’operazione Barbarossa: c’era molta neve, betulle che fischiavano per il vento, gran formicolare di soldati, e Stalin gli si era materializzato come in dissolvenza, il faccione arguto e sorridente. «Lasciateli correre – diceva – questa la corsa del puledro è», e tirava sbuffi soddisfatti con la pipa. Poi era successo ancora all’alba del 18 aprile 1948, quando Stalin gli aveva anticipato la sconfitta del «Blocco del popolo» nello scontro elettorale con la Dc: «Calì, in queste elezioni abbiamo da perdere, non c’è niente da fare, i preti hanno la prima mano. Oggi perderemo, la gente non è ancora matura, ma vedrai se non ci arriveremo». Ma quell’ultimo sogno non dava più speranza: l’Espresso aveva appena pubblicato il rapporto Chruscëv, i maggiorenti del partito a Regalpetra gli avevano confermato che al novantanove per cento era tutto vero, che il movimento comunista non si era accorto che portava in grembo un tumore quanto la testa di un bambino, che insomma, sì, c’erano state molte grandi cose ma anche molti grandi errori.
Astuzie della storia
A chi scrive non è stato dato di sognare: non di Stalin, e nemmeno di Calogero Schirò. In quanto compaesano di Sciascia, lo posso soltanto immaginare seduto a cucire nella sua bottega, in una traversa del corso principale, la foto di Stalin ritagliata e incorniciata sulla parete: novello Joseph Dietzgen e come lui filosofo proletario autodidatta. Ma se non Stalin, certo lo «stalinismo» torna continuamente a turbare i nostri sonni: perché non abbiamo ancora che un nome al posto di un concetto che possa finalmente render comprensibile a noi comunisti la nostra stessa storia. 
Nessun comunista ragionevole, in effetti, può negare che il movimento operaio ha fatto la storia del secolo breve all’insegna di una linea politica e di pratiche staliniste. E tutti dobbiamo ammettere che la denuncia del «culto della personalità» fu un escamotage per occultare che di tutto quanto era successo dall’indomani dell’Ottobre nessuno sapeva darsi una spiegazione. Si trattava – notò a ragione Althusser già nei primi anni Sessanta del secolo scorso – di uno pseudoconcetto, che spostava nel campo delle sovrastrutture gli «abusi», gli «errori» e naturalmente i crimini, senza però darsi pena d’indagare le loro condizioni. È certo frutto di un’astuzia della storia se, a sessant’anni esatti dalla morte di Stalin, una simile spiegazione è diventata luogo comune della storiografia borghese, che ha bollato di «stalinismo» tutto ciò che è venuto dall’esperienza dell’Unione Sovietica – inclusi il governo pubblico dell’economia, il partito di massa, i diritti sociali di cittadinanza e la stessa piena occupazione. Una situazione del genere, infatti, costringe inevitabilmente i comunisti a volgersi indietro e a riprendere i fili del problema lì dove essi hanno cominciato ad aggrovigliarsi: più precisamente, in quel «punto zero» della storia interna dei rapporti di produzione socialisti in cui si è avuto l’incontro tra masse organizzate in un partito, da un lato, e mezzi di produzione e forza-lavoro lasciati «liberi» dalla crisi della riproduzione capitalistica, dall’altro. 
Un limitato sistema vitale
Un «incontro» affatto casuale: se si vuole, altrettanto «casuale» di quello tra i proprietari di denaro e di mezzi di produzione e i proletari «liberi», venditori della propria forza-lavoro, che Marx ci ha spiegato essere all’origine della storia interna del modo di produzione capitalistico. Ma al pari di quello destinato a «far presa» e a durare: a «fare epoca», si potrebbe dire con espressione gramsciana. Non certo per una qualche «teleologia» immanente allo sviluppo storico, che dissimulerebbe l’ennesima teologia, ma semplicemente perché i rapporti di produzione che ne sono scaturiti hanno dato luogo ad un sistema «vitale», nel limitato eppure preciso senso che gli dava l’economista (e comunista) Piero Sraffa: cioè capace di generare un prodotto idoneo a reintegrare i mezzi di produzione consumati nel corso del processo produttivo ed eventualmente a generare un sovrappiù, da destinare all’allargamento della produzione o all’incremento del consumo.
Preso nel suo punto zero, lo «stalinismo» è nient’altro che questo. Lo confermò lo stesso Stalin ad una delegazione operaia americana che lo intervistò nel 1927: «da noi il partito dirige il governo», disse, non senza precisare che si trattava di una situazione antitetica rispetto a quella dei paesi capitalistici, dove – ad onta dell’esistenza di grandi parlamenti democratici – i governi rimanevano sotto il ferreo controllo delle istituzioni finanziarie. Ma soprattutto, preso in questa forma «pura», lo stalinismo ha avuto ampiamente corso in quell’Occidente che per insufficiente approssimazione abbiamo continuato a chiamare «capitalistico», nonostante la direzione politica dei processi produttivi, la repressione delle pretese allocative del capitale finanziario e soprattutto la strenua resistenza delle classi proprietarie alla progressiva e inesorabile eutanasia dei rentiers (una resistenza che sfociò nella «guerra civile mondiale» che si combatté ovunque negli anni Settanta) rappresentassero potenti indizi in senso contrario.
Il filo interrotto dell’esperienza
L’unico esito possibile dell’Ottobre? Lo ripetiamo ancora una volta: non è proprio il caso di reintrodurre teologie mascherate di teleologie. Ci basta retrospettivamente prendere atto che quell’«incontro» ha conferito forma e realtà effettuale a elementi – partiti, mezzi di produzione, lavoratori – che dopo la dissoluzione della razionalità ordinatrice del modo di produzione capitalistico erano rimasti per lunghissimi e terribili anni nel limbo di un’esistenza fantasmatica, segnata da crisi economiche, disoccupazione di massa e guerre mondiali. Per il resto, ricordiamo che stiamo parlando anche in questo caso di rapporti di produzione: per dirla con Marx, «determinati, necessari, indipendenti dalla volontà» degli individui che vi prendono parte e, al pari di quelli capitalistici, «imposti» dalla struttura dei processi di produzione e circolazione e dall’organizzazione del lavoro che le è consustanziale. Si spiega così, per fare solo un esempio, che il potere sovietico, dopo aver instaurato il «controllo operaio» delle fabbriche, dovette quasi subito sovrapporre a quell’embrione di «proprietà sociale» dei mezzi di produzione la direzione pianificata dei processi produttivi: una volta che si fosse permesso a ciascuna fabbrica di relazionarsi con le altre e con i consumatori finali per via esclusivamente monetaria, l’impiego dei mezzi di produzione sarebbe risultato nuovamente asservito alle esigenze di valorizzazione del capitale. Marx lo aveva previsto con largo anticipo in un passo della Guerra civile in Francia (1871), che gli odierni e rumorosi apostoli del «comune» farebbero bene a rileggere: «se la produzione cooperativa non deve restare una finzione e un inganno, se essa deve subentrare al sistema capitalista», allora le «cooperative unite devono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine all’anarchia costante e alle convulsioni periodiche che sono la sorte inevitabile della produzione capitalistica».

Le due economie
È solo a partire dalla «forma pura» dello stalinismo che si può dunque riprendere il filo di un racconto capace di ridare ai comunisti il senso del loro passato, senza il quale non c’è nemmeno futuro. Ma soprattutto è nell’ambito dei conflitti generatisi per l’apparire e il successivo consolidarsi di questa «forma pura» che si deve collocare la figura stessa di Stalin. Il quale è stato in ultima analisi un prodotto, non certo l’«autore», dei processi storici del tempo in cui ha vissuto. Certo, con un ruolo decisionale considerevole, ma che esercitò rimanendo nell’ambito di opinioni assai diffuse tra gli stati dirigenti del partito nonché in buona parte della popolazione sovietica. (facilmente, chi non era d’accordo spariva). Opinioni che, a loro volta, trovavano alimento nello stato dei «rapporti di forza» esistenti sia all’interno della formazione sociale sovietica che in quelle che rimasero più o meno direttamente coinvolte dalla sua evoluzione: perfino quando si trattava di processi sommari, deportazioni ed esecuzioni di massa, cioè degli aspetti più truci della guerra civile innescata da quella che, con una lungimirante quanto terribile espressione, Evgenij A. Preobrazenskij aveva prefigurato come «l’accumulazione originaria socialista».
Semmai, Stalin fu tra i pochi a comprendere che l’«accerchiamento capitalista» non era tanto l’effetto di vicini ingombranti, ma piuttosto un problema che quei nuovi rapporti di produzione avrebbero incontrato ovunque gli fosse accaduto di far presa sulla realtà in modo altrettanto durevole. Lo mise nero su bianco nel suo ultimo scritto, Problemi economici del socialismo in Urss (1952): una volta che il potere politico si fosse impadronito non di tutti i mezzi di produzione, ma solo di una parte di essi, non si sarebbe potuto semplicemente distruggere la residua produzione capitalistica: essa sarebbe rimasta ad operare accanto a quella socialista. E anche se ciò avrebbe implicato una qualche sopravvivenza della «legge del valore», si sarebbe potuto e dovuto circoscriverne il funzionamento in modo da scansare il rischio che essa tornasse a regolare l’allocazione del lavoro sociale tra le varie branche della produzione e scatenasse le inevitabili e rovinose crisi da sovrapproduzione. 
In una parola, i rapporti di produzione capitalistici dovevano retrocedere al rango di «elementi» del più vasto sistema economico socialista: al rango di mera «produzione mercantile» subordinata. La famosa «alleanza tra operai e contadini» e l’altrettanto famoso ruolo «dirigente» del proletariato di fabbrica ne sarebbero stati la figurazione ideologica.
Proprio nell’annuncio di questa coesistenza di rapporti di produzione differenti entro una medesima formazione sociale (e, ben s’intende, delle contraddizioni che un fatto del genere avrebbe inevitabilmente generato) si colloca, a nostro avviso, il «testamento di Stalin», che poi è ciò che fa dello «stalinismo» una questione attuale e non puramente storica o teorica. Non si potrebbe dirlo meglio che con le sue stesse parole: «Il fatto è che lo sviluppo economico non si attua mediante rivoluzioni, ma attraverso modificazioni graduali; il vecchio non viene semplicemente liquidato, ma modifica la sua natura in relazione al nuovo, conservando soltanto la sua forma, mentre il nuovo non distrugge semplicemente il vecchio ma penetra in esso, modifica la sua natura, le sue funzioni, senza distruggerne la forma, ma impiegandola per lo sviluppo del nuovo». Come dire: denaro, banche, debito pubblico, e poi naturalmente partiti, sindacati, imprese erano istituzioni che, sebbene nate all’ombra del modo di produzione capitalistico, erano suscettibili di mutare la loro natura ovunque avesse fatto presa un «incontro» analogo a quello che stava all’origine dell’esperimento dell’Ottobre.
Sfortunatamente, a capirlo – specie in Occidente – sono state soprattutto le classi borghesi, che coerentemente si sono adoperate per far sì che i tentativi di pianificazione e programmazione condotti sotto il nome ben più rispettabile di lord Keynes naufragassero prima che le spinte sovvertitrici che essi alimentavano potessero rimettere in questione i rapporti di proprietà. Si spiega così che, da vent’anni in qua, Stalin e Keynes siano finiti accomunati dalla medesima damnatio memoriae.
Il ritorno del rimosso
Salvo che – come ci ha spiegato Freud – la rimozione e il ritorno del rimosso fanno sempre tutt’uno. Se ne dovette accorgere anche Sciascia, che sul finire degli anni ’70 si trovò a infilare nel suo Candido un dialogo che sembrava riprendere quello di vent’anni prima tra l’arciprete e Calogero Schirò: «Torniamo allo stalinismo: è un argomento che mi interessa» disse Candido. «Torniamoci» disse don Antonio. E ambiguamente aggiunse: «Ci torneremo sempre».

********************

PERCORSI DI LETTURA

I sogni di Leonardo Sciascia e gli incubi dell’economia neoclassica
La morte di Stalin è il titolo di uno dei quattro racconti che Leonardo Sciascia incluse nella raccolta «Gli zii di Sicilia», che apparve per la prima volta nel 1958. Insieme a «Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia» (1977) sono adesso inclusi nel primo volume delle «Opere», da poco edito da Adelphi per la cura di P. Squillacioti (pp. 2016, euro 80). L’interpretazione dello stalinismo qui proposta deve molto alla lettura di Louis Althusser, «I marxisti non parlano mai al vento», a cura di L. Tomasetta (Mimesis, pp. 90, euro 12), anche se il concetto althusseriano di «deviazione staliniana» è stato interpretato alla luce degli ultimi scritti dello stesso Althusser, raccolti in Id., «Sul materialismo aleatorio», a cura di V. Morfino e L. Pinzolo (Mimesis, pp. 148, euro 15). Nessuna opera di Stalin è più reperibile in libreria: et pour cause, vien fatto di dire. Ma fra i remainders e online si trova abbastanza, a cominciare da «Questioni del leninismo», la celeberrima raccolta di scritti tradotta da P. Togliatti, che costituiva il primo volume della collana «Classici del marxismo» (Rinascita, 1952). La linea interpretativa che accomuna negli esiti (totalitari) tanto il socialismo quanto il keynesismo, giudicando quest’ultimo come una delle vie che conducono inevitabilmente al primo, è stata con maggiore coerenza sviluppata dalla Scuola austriaca di economia, che annovera in von Hayek l’esponente più noto e autorevole. Per un primo approccio si può vedere senz’altro Nicholas Wapshott, «Keynes o Hayek. Lo scontro che ha definito l’economia moderna», Feltrinelli, pp. 332, euro 23. (lu.c.)

Scritto da Luigi Cavallaro, il manifesto, 12 Marzo 2013