“Il pensiero economico del Che è più valido che mai”

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Un’intervista a Carlos Tablada fa discutere a Cuba

Premessa È difficile distinguere in questa intervista le informazioni interessanti e nuove dalle rituali frasi di omaggio a Fidel Castro, e ai suoi continuatori Raúl Castro e Miguel Díaz Canel, a cui Carlos Tablada evidentemente non può sottrarsi, anche per l’impostazione “ufficiosa” del programma La Luz de la Memoria della giornalista Arleen Rodríguez Derivet, che si è specializzata nel tener vivo il culto dei “cinque eroi” anche dopo la fine della loro detenzione. Ma l’intervista è importante perché riesce a dire alcune semplici verità che tuttavia erano state a lungo un tabú a Cuba. Prima di tutto il fatto che il Partido Socialista Popular (il nome del partito comunista cubano), di cui Tablada ricorda che era il “partito di mio padre”, aveva scritto che l’assalto alla caserma Moncada era stato “un golpe avventurista”, e che anche “El Siglo, l’organo di stampa del Partido Comunista cileno aveva scritto che si trattava di alcuni terroristi che avevano assaltato la caserma Moncada”. Si potrebbe aggiungere che anche l’Unità aveva dato il 29 luglio una versione simile, insinuando che gli insorti avevano divise di taglio americano…

Ma anche a Cuba questa non è una novità assoluta: in realtà lo stesso Fidel aveva in uno dei suoi ultimi discorsi accennato, sia pure di sfuggita, all’iniziale atteggiamento ostile del PSP.

D’altra parte, anche quando comincia a parlare della sorte del suo libro, Tablada segnala solo genericamente e senza far nomi il fatto che “c’erano compagni che non volevano che il mio libro venisse presentato”, o che lo volevano vendere solo in dollari, ad uso esclusivo dei turisti. D’altra parte Tablada ammette che nel 1987 il pensiero economico del Che era sconosciuto, dato che “era la prima volta che lo [presentavamo] in forma pubblica”. Ma c’è di più, dice Tablada ricordando che quando era studente, dopo uno scontro con un professore sovietico che aveva criticato il Che, aveva deciso di cominciare a studiarlo bene:

“Scesi di corsa la scalinata de La Colina, entrai nella libreria Alma Mater per comperare libri del Che e mi dissero che non ce ne erano; andai poi all’Avana Libre, alla Moderna Poesía, e anche qui mi dissero di non cercarli perché non ce n’erano. Me ne andai alla Biblioteca Nazionale, e trovai anche lì che non c’erano libri del Che, che quel che aveva scritto il Che era tutto disperso”

Questa frase è la più grave e tremendamente vera: nel lungo periodo della dipendenza culturale dall’URSS gli scritti di Guevara erano all’indice. Aurelio Alonzo che fu per un certo periodo direttore della Biblioteca Nazionale aveva generosamente donato all’istituzione che dirigeva la sua copia della raccolta di scritti del Che in sette grandi volumi riservata a una ristretta cerchia di dirigenti e di collaboratori di Guevara, ma mi ha raccontato che quando dopo qualche anno aveva avuto bisogno di consultarla, aveva scoperto che era stata ritirata dalla biblioteca, compreso dai fondi chiusi da cui era escluso il cittadino comune.

Su questo però Tablada racconta solo una parte della verità, dato che dall’inizio alla fine tesse l’elogio dell’impegno di Fidel contro la censura, senza poter rispondere alla semplice domanda: perché allora gli scritti di Guevara erano spariti dagli scaffali di librerie e biblioteche? E perché alcuni manoscritti, come quello preziosissimo per capire la spedizione nel Congo e l’atteggiamento degli amici africani di Cuba hanno dovuto aspettare decenni, per non parlare delle note sul famoso manuale di Economia sovietico?

In realtà nella direzione cubana si sono confrontati due orientamenti ben diversi, e Fidel Castro (e ancor più il fratello Raúl) ha mantenuto in certi momenti una posizione ambigua, o ha taciuto. Anche molto tempo dopo che le previsioni – non credute – del Che sulla sorte del sistema sovietico si erano avverate.

È positivo che questa nuova edizione numero 38 (che è argentina, non a caso, come non cubane sono la maggior parte delle altre) venga segnalata a Cuba in un sito ufficioso, ma soprattutto perché la testimonianza di Tablada potrebbe servire a tacitare i “bigotti” che si servono di un culto ipocrita di Guevara per esaltare quanto rimane nell’isola di scorie della lunga egemonia dell’Unione Sovietica. Non credo invece che le allora inascoltate e sconfitte intuizioni del Che più maturo nel periodo 1964-1967, possano contribuire a risolvere i drammatici problemi attuali di Cuba.

Ci sono ormai problemi diversi da quelli degli anni Sessanta, anche se forse ancora più gravi per il contesto internazionale. Ma ne parleremo presto. (a.m.)

– – –

A 32 anni di distanza dall’impatto dell’uscita del suo libro (El pensamiento económico del Che), che ha vinto nel 1987 il Premio Casa de las Américas), Carlos Tablada ne ha presentato all’Avana la trentottesima edizione. Tra ricordi, valutazioni attuali e musica di Silvio Rodriguez, l’economista cubano riprende con emozione criteri che non hanno mai smesso di suscitare dibattiti contrastanti.

Nel giugno scorso, Che Guevara è tornato all’Avana. Per celebrare il suo novantunesimo compleanno, il guerrigliero mai invecchiato ci si è presentato con un suo scritto a caratteri minuti ma intellegibili, con la rivelazione da parte del Centro Studi che ne porta il nome, di una lettera scritta a Fidel nel marzo del 1965, circa l’opportunità di sottoporre a costante giudizio la pratica socialista, onde evitare i costosi errori che sarebbero sopraggiunti molti anni dopo il suo passaggio all’eternità.

Contemporaneamente all’ondata di commenti che questo fatto suscitava nelle reti sociali, ricompariva in veste di libro il sostanzioso saggio che 32 anni prima aveva scosso con analoga intensità gli ambienti accademici: El pensamiento ecónomico del Che [Il pensiero economico del Che], di Carlos Tablada.

Un giovane e brillante storico, Elier Ramírez Cañedo, ha presentato questa 38a edizione del libro di Tablada, mettendone in rilievo l’impressionante attualità, e mi ha fatto ricordare, d’un tratto, la prima volta di quel libro, vincitore del Premio Casa, che fu al centro del dibattito in un incontro internazionale organizzato a Cuba nel 1987,

Come avrebbe ricordato l’autore quegli avvenimenti?, mi chiesi ed andai a trovarlo. Proprio quasi come 32 anni prima, lo trovai in un locale angusto e precario, pieno di riviste e libri, come un tempo. E abbiamo preso a ricordare:

“Il libro ha vinto il Premio Casa de Las Américas nel febbraio 1987 e l’8 ottobre di quell’anno, a Pinar del Rio, nella celebrazione del XX° anniversario della morte del Che, Fidel parla e fa appello al nostro popolo e al mondo a condurre uno studio del pensiero del Che. Fa una critica dell’intero processo di impianto del sistema sovietico a Cuba e dice in maniera lapidaria: “Se il Che fosse stato qui ci avrebbe detto: “L’ avevo già detto! Vi avevo avvertito!”.

“È lì, in quel discorso, che raccomanda il mio libro e chiede a tutti di studiarlo. Quel che più mi colpisce ancora è incontrare combattenti di Quito Carnevale che mi raccontano che nel 1988, un mese dopo, tra una lotta e l’altra, nei loro circoli di formazione politica studiavano il mi libro sul Che.

“Fidel aveva invitato ad usare Il pensiero economico del Che non per applicare astoricamente le formule che si usavano negli anni Sessanta, ma appunto perché si tenesse conto di quel che aveva detto il Che, e cioè che se si fosse applicato a Cuba il modello sovietico si sarebbero ottenuti risultati negativi, che in definitiva furono quelli che fecero si che si rendesse necessario un processo di rettifica”.

AR: Questo è molto interessante, perché per qualcuno il Processo di Rettifica è stato la conseguenza della Perestroika, sottintendendo che dall’85 Gorbačëv aveva avviato la sua politica di cambiamenti. Ma sono parecchie le differenze fra i due processi.

CT: Totalmente diverso. Il problema è stato che la Rivoluzione Cubana, l’Assalto al Moncada, è stata una grande eresia storica. Nessuno poteva concepire che a 180 km dalle coste nordamericane si potesse fare una Rivoluzione socialista. Il partito di mio padre, il Partido Socialista Popular, era uscito scrivendo che si era trattato di un golpe avventurista. El Siglo, l’organo di stampa del Partido Comunista cileno aveva scritto che si trattava di alcuni terroristi che avevano assaltato la caserma Moncada; cominciarono a capire solo nel 1958 l’eresia della Rivoluzione cubana, dei moncadisti, di quelli che erano arrivati con il Granma, dei combattenti del Piano, della Sierra, di Playa Girón, o quella dei centomila alfabetizzatori Corrado Benitez, o di quelli di noi che salimmo in montagna; non capirono che cosa successe nelle crisi di Ottobre. E lì sta la Rivoluzione.

Debbo dire che lo stesso Che era un fan dell’Unione Sovietica. Quando conosce Nico López in Costa Rica, poi in Guatemala e quando conosce il suo grande amico Raúl Castro, colui che lo porterà a conoscere Fidel, stava pensando di recarsi a Parigi e poi a Mosca.

AR: Chiede infatti libri a Leonov, l’amico di Raúl, quando vanno insieme a visitarlo presso l’ambasciata sovietica in Messico.

CT: Esattamente. Ci sono due cose che colpiscono il Che e cominciano a cambiare il suo modo di vedere. Una, quando vengono tutti fatti prigionieri in seguito a una delazione in Messico. L’unico che rimane prigioniero è il Che, che dice a Fidel: “andatevene, vi prenderanno”. Fidel gli risponde: “io non ti lascio, tu vieni via insieme a me”.

La seconda cosa che colpì il Che fu nel Granma: sotto una tormenta, quando restava carburante per un’ora; cadde in acqua Roque e lui comincia a cercarlo e il capitano dell’imbarcazione dice a Fidel: “abbiamo carburante per un’ora e non sappiamo dove stiamo”, e Fidel risponde: “lo cerchiamo, lo recuperiamo o affoghiamo tutti insieme qui nel Golfo”.

Dopo la battaglia de La Plata rimangono feriti soldati di Batista e nostri; il Che era il medico e comincia a curare i suoi compagni, ma Fidel gli dice: “fai una selezione e dimentica se è di Batista o è un nostro soldato, prima i più gravi, non importa di che parte siano”. Questa umanità lo induce a studiare Martí, Cespedes, Guiteras, Mella, Roa, e così va scoprendo l’essenza del socialismo cubano nelle stesse idee di Fidel Castro: scopre che la Rivoluzione Cubana ha effettuato un salto di qualità rispetto al socialismo reale.

“Nessuna azione umana, economica, politica, sociale ha senso se non è volta al miglioramento umano. Il Che, che fu il primo dirigente cubano a visitare il campo socialista, comincia a scoprire come questo aspetto non lo possedesse il modello sovietico. Così, il Che arriva non solo a pronosticare, ma a dimostrare perché l’Unione Sovietica e il campo socialista stessero andando verso il capitalismo e avrebbero finito per scomparire. Si tratta di una grande eresia: Fidel e il Che ‘sono pazzi’ a dire questo nel ’65, purtroppo però è quel che è accaduto. Carlos Rafael Rodríguez – come ricorda Aurelio Alonso in una delle Introduzioni al mio libro, in :un’intervista rilasciata a Luis Báez nel 1993 – ebbe l’onestà di affermare: “Il Che aveva ragione, eravamo noi a sbagliarci, non ci siamo resi conto di quel che Fidel e il Che avevano intuito negli anni Sessanta”.

AR: Ora ricorderò quel 1987, dal mio punto di vista. L’intera Cuba coinvolta nelle iniziative per il XX° anniversario della perdita fisica del Che, un grande evento di riflessione nel Palacio de Convenciones, che non ho dubbi fosse stato organizzato dallo stesso Fidel, al cui centro stava il tuo libro, e tutto girava intorno al tuo Il pensiero economico del Che. Mi sbaglio o era la prima volta nella storia della Rivoluzione cubana che ci soffermavamo sul pensiero economico del Che?

CT: Sì, era la prima volta che lo facevamo in forma pubblica. Mi stupisco quando dicono che Fidel era un dittatore, ogni volta che ricordo che cosa accade là. Abbiamo un solo partito, ma non tutti pensiamo allo stesso modo, la diversità era (è) molta e di qui discende la forza della Rivoluzione. E c’erano compagni che non volevano che il mio libro venisse presentato in quell’evento – che fu il Primo Congresso Latinoamericano di Economisti – per cui il libro dovette entrare per la stessa porta da cui entrava Fidel.

Questo è uscito sul Granma. Risulta che cominciarono a venderlo a 4 dollari, quasi per non farlo leggere a nessuno. Fidel mi chiamò e mi disse – quando io avevo già donato i i diritti d’autore dell’edizione argentina uscita nel settembre 1987: “Tablada, lo distribuiremo gratis”, e io risposi “ chiaro Comandante, naturalmente”. Ma arrivammo là e lo stavano vendendo a 4 dollari e Fidel apre la conclusione dell’evento dicendo: “So che hanno venduto il libro. Tablada ed io abbiamo concordato di distribuirlo gratis. Quelli a cui il libro è stato venduto si mettano in fila da questa parte per riavere indietro i soldi, e da quest’altra parte si mettano quelli che potranno averlo gratis perché ne abbiamo stampate 4.000 copie”.

“Si trattava di una battaglia ideologica, poiché il Che aveva sistemato in un corpo teorico coerente la cultura rivoluzionaria del popolo cubano, dai mambises [i soldati ribelle delle guerre per l’indipendenza dalla Spagna] alla Rivoluzione avviata da Fidel e dai suoi compagni del Moncada, e il risultato è stato che proprio questa ideologia rivoluzionaria ci ha salvato dal disastro del socialismo sovietico e dell’Europa dell’Est.

“Questa ideologia martiana, fidelista, marxista è ciò che permette oggi al popolo cubano di continuare a sviluppare i socialismo cubano e a sconfiggere l’impero, incluso con la legge Helms-Burton. Ma in quel momento le cose non si vedevano così. Era l’epoca del Che e i bambini, del Che guerrigliero eroico. Ma il Che era molto di più e ci arrivò grazie a una grande cultura.

AR: Pensiamo al momento in cui, quando non c’era ancora stato un avvicinamento profondo al pensiero economico del Che e nel primo capitolo del tuo libro , nella seconda o terza pagina compare questa citazione del Che che dice: […]”Purtroppo, agli occhi della maggioranza del nostro popolo e ai miei stessi occhi, arriva piuttosto l’apologia di un sistema che non la sua analisi scientifica. Questo non ci aiuta nel lavoro di chiarificazione e tutto il nostro impegno è destinato a invitare a pensare, ad affrontare il marxismo con la serietà che questa dottrina gigantesca merita”. Come mai questa è la prima citazione del libro?

CT: Perché mi colpì, prima di leggere il Che, che il primo che mi disse che l’Unione Sovietica era destinata a sparire fu Fidel Castro.

“Ero di guardia al Rettorato, ero docente di filosofia all’Università dell’Avana. Era circa l’1 del mattino e stavo facendo la guardia col fucile quando arrivò Fidel. Veniva da una riunione con un militare sovietico di alto livello sulla difesa di Cuba e lo vedevo piuttosto preoccupato. E a quel punto mi dice qualcosa che mi turbò completamente, anche se sul momento non lo compresi bene. Disse: “L’Unione Sovietica marcia verso il capitalismo…”. Rimasi molto colpito, data la mia formazione… mio padre era comunista, a casa mia si riunivano clandestinamente negli anni Cinquanta i massimi dirigenti del PSP: Anibal, César, Blas. Mio padre era avvocato del Comitato Nazionale del PSP. Insomma, mi colpì.

“Questo accade nell’aprile del 1967. Avevo 19 anni. Poi c’è la morte del Che ed assisto a una conferenza tenuta da un professore sovietico nell’emiciclo della scuola di Scienze Politiche, che stava accanto al Rettorato. Rivolge alcune critiche alla Rivoluzione cubana: critica il Che, e sostiene inoltre che se la Rivoluzione del gennaio del 1959 aveva vinto non fu per la lotta armata, ma per lo sciopero generale.

“Chiesi la parola, gli spiegai tutto, gli dimostrai che non era così. Tuttavia, rispetto al Che, mi resi conto di non conoscerlo. Allora lo sdegno provato verso il docente sovietico si trasformò in sdegno nei miei stessi confronti. Scesi di corsa la scalinata de La Colina, entrai nella libreria Alma Mater per comperare libri del Che e mi dissero che non ce ne erano; andai poi all’Avana Libre, alla Moderna Poesía, e anche qui mi dissero di non cercarli perché non ce n’erano. Me ne andai alla Biblioteca Nazionale, e trovai anche lì che non c’erano libri del Che, che quel che aveva scritto il Che era tutto disperso.

“E allora restai a pensare, pensare. Alla fine chiesi un anno sabatico quando compii 20 anni. Avevo tante cose in mente. Volevo diventare bovaro. Il rettore (che era Chomi Miyar Berrueco) mi autorizzò ad andare al Cordón Lechero e, negli 8 mesi che restai lì pensai a come fare una ricerca sul Che. E il 1° luglio del 1969, mentre stava nascendo mia figlia Ruth Tablada de la Torre, con sua madre Carola in travaglio di parto per 25 ore, feci l’indice di tutto quel che avevo pensato nella vaccheria, stesi il piano di quello che è oggi il libro sul Pensiero economico del Che e cominciai a scrivere.

“Luís Álvarez Rom, che fu ministro delle Finanze, era venuto a sapere che c’era un pazzo che stava facendo ricerche sul pensiero del Che e mi venne a trovare e mi consegnò una serie di inediti del Che. Anche Orlando Borrego mi aiutò. Il Comandante Alberto Mora, che la pensava diversamente dal Che, mi raccontò che quando lo esonerarono dalle sue responsabilità come ministro del Commercio Estero, una scorta del Che gli disse: “Il Comandante ti vuole vedere”.

“Se ne va all’Ufficio del Che, che gli dice: “Senti, risolte queste cose, qui hai lavoro con me”. Mora gli chiede: “Cosa vuoi che faccia qui?” e il Che gli risponde: “che sia il mio principale consigliere e mi cerchi e mi critichi qui dentro il Ministero per scoprire i miei errori sul Sistema di Bilancio Preventivo e tutti quelli del Ministero dell’Industria; dimostrami che sto sbagliando”.

“Questo me lo ha raccontato Alberto Mora e dimostra la grandezza del Che, la sua umanità: uno che cerca qualcuno che pensa il contrario di quel che pensa lui perché gli indichi i suoi errori. La sua ansia era per la Rivoluzione, che non commettessimo gli stessi errori dei fratelli del campo socialista. Tutto questo mi ispirò e presi a scrivere.

“Sono stato quindici anni a scrivere questa ricerca e l’ho conclusa il 2 luglio 1984. Ho fatto 4 copie e ne ho lasciata una al Palazzo per Fidel, una nell’ufficio di Raúl, un’altra per Ramiro che era ministro dell’Interno e una quarta per Almeida, che era a capo della Commissione per la Perpetuazione della Memoria del Che. Poi, tre anni dopo, Fidel raccomanda il mio libro pubblicamente e chiede che lo si studi.

AR:. Celia Hart Santamaría, in un’affascinante Introduzione che accompagna l’edizione più recente del libro ricorda che tu parlasti con sua madre, Haydée Santamaría, di questo libro. Ma prima del 1980 [anno in cui Haydée Santamaría si suicidò NdR] il libro non era concluso… raccontaci un po’ il rapporto di questo libro con i contemporanei del Che, a partire ad esempio da Haidee.

AT: “ Semplicissimo: quando chiusero il Dipartimento di Filosofia io dovetti cambiare lavoro e passai per qualche tempo alla Facoltà di Umanità; poi sono passato ai piani speciali di educazione e al sistema comprensoriale come direttore economico dell’EMPROVA, un’impresa della Segreteria del Consiglio di Stato. Stavo già scrivendo il libro, avevo pronte circa 200 pagine di ricerca e comincio a partecipare ai seminari per l’installazione del sistema sovietico. Allora mi allarmo un po’ e decido di non aspettare di finire la ricerca per mandare a Fidel quel che ho già scritto; ma prima, poiché avevo accesso ad Haidée, a Raúl Roa, decisi di farlo leggere a entrambi perché mi esponessero le loro critiche.

“Haidée mi fa chiamare a casa sua accanto al mare e lì Celia racconta nell’Introduzione che mi portò in terrazza e mi fece giurare. Mi disse: “Con questa tua ricerca incontrerai molte difficoltà, e le incontrerai perché cambiare la maniera di pensare è molto difficile e ci sono forze che non capiscono che bisogna abbandonare il terreno tracciato. Forse quando lo concluderai io non ci sarò più, ma mi devi promettere che se anche incontrerai le maggiori difficoltà, terminerai il libro a qualsiasi costo. Voglio che mi prometta questo adesso. Non solo per me, ma per la mia generazione”. Le risposi: “Sì Haidée, finirò il libro”. Questo è quel che racconta sua figlia. Ho rispettato la promessa e quando lo terminai e lo portai al Palazzo per il Comandante, mi si inumidirono gli occhi e pensai ad Haidée e a Celia Sánchez Manduley.

AR: Anche Celia Sánchez ha avuto modo di accostarsi a questa ricerca?

CT: Celia sì. Quando i sovietici mi contattarono nel 1978 dall’Istituto Latinoamericana dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica per propormi di fare un dottorato, risposi loro: accetto se è con la mia ricerca sul Che, e loro furono d’accordo. Poiché lavoravo alla EMPROVA, dovetti chiedere il permesso a Efrén – il direttore generale – e a Celia perché mi autorizzassero a fare il dottorato in Scienze Economiche, ma con il libro sul Che. Sì, lei era d’accordo.

“Ho avuto il privilegio di lavorare con tre donne eccezionali: con Elena Gil Izquierdo, con Celia Sánchez Manduley e di conversare a lungo con Haydée Santamaría Quadrado. E tutte e tre, in certo modo, mi sostennero completamente per questa ricerca.

AR: Si è sempre rimarcata una rispettosa differenza tra Che e Rafael Rodríguez, che vuol dire la linea economica della Rivoluzione e il rapporto più stretto con l’Unione Sovietica. Tu ricordavi che nell’intervista con Luis Báez nel 1993, in piena implosione del socialismo europeo, Carlos Rafael ammette che avesse ragione il Che.

CT: Per prima cosa, bisogna pensare che per molti Fidel e Che fossero pazzi a dubitare delle sorti dell’Unione Sovietica, una nazione con 40 anni di rivoluzione, che aveva sconfitto il fascismo, il nazismo, che aveva ricostruito il paese e il campo socialista e stava diventando una potenza mondiale. Non erano visibili per noi semplici mortali i suoi problemi. Lì sta la grandezza di Fidel e del Che che invece se ne resero conto, ebbero questa visione di breve, medio, lungo periodo. Tutto quel campo socialista è sparito e noi siamo qui. Perché? Per la nostra direzione rivoluzionaria, per il nostro popolo e per il nostro socialismo cubano.

“Dal punto di vista geopolitico, era impossibile realizzare integralmente il progetto della Rivoluzione Cubana. Noi eravamo bloccati dagli Stati Uniti, le armi da dove venivano? Da dove veniva il petrolio?

“Vanno analizzate le circostanze. Carlos Rafael Rodríguez rappresenta questo pensiero che viene dal partito di mio padre. Carlos Rafael e mio padre si sono anche laureati insieme in Avvocatura (rispettivamente primo e secondo del loro corso). Era per me una specie di zio. Per loro era difficile capire che cosa stessero dicendo Fidel e il Che, non rientrava nel loro modo di pensare. Come non entravano in molte menti il Moncada e la Rivoluzione del 1° gennaio. C’è tanta gente che ancora non è disposta ad ammettere che l’URSS sia sparita. E lì sta la grandezza e l’onestà di Carlos Rafael, che invece lo ha ammesso, dicendo: “Ci siamo sbagliati noi, Fidel e il Che avevano ragione”. Questo è ciò che manca oggi e che ha sempre mantenuto il compagno Raúl.

Raúl ha sempre tenuto questo piede per terra che manca, in ogni specifico scenario, per rendere vitale la nostra Rivoluzione. Ed è quel che sta facendo Miguel Díaz-Canel. Sono molto contento, ho ormai 71 anni e sono molto soddisfatto per la generazione che oggi sta assumendo decisioni, giungendo ai posti di potere nelle FAR, al MININT, nella pubblica amministrazione.”

“Ho visto Díaz-Canel alla TV che diceva a funzionari che assistono il popolo, a Camagΰey: “Si deve essere onesto ed amabile”. A me è venuto in mente il Che, che disse che un vero rivoluzionario deve essere onorato, onesto e decente. Una persona che non lo sia, non è rivoluzionaria, per quanto abbia potuto sparare”.

“Questa ricerca dello sviluppo del nostro socialismo, assistendo la gente, abbandonando l’alienazione, infrangendo l’auto-blocco, cercando formule nuove, questo su cui Raúl insiste tanto a proposito dell’economia municipale, locale, e che Díaz-Canel e la sua squadra, il suo Consiglio dei Ministri stanno portando avanti, è una cosa fondamentale.

“Non ho il minimo dubbio che il Che oggi starebbe, come sta Ramiro, come sta Guillermo, sotto il comando di Raúl e di Díaz-Canel, portando avanti questa stessa politica. Questa è precisamente la vitalità del Che, perché tutte le sue idee sono ancora vigenti.

AR: Mentre presentavi il tuo libro usciva sulla stampa digitale una lettera inviata dal Che a Fidel nel marzo ’65 contenente una critica di ciò che a suo avviso funzionava male e che lui stesso non era riuscito a risolvere. [vedi sul sito: L’ultimo inascoltato messaggio di Guevara a Fidel Castro] Lì, tutto torna a girare intorno alla grande domanda innescata dal tuo libro e che costituisce la grande differenza fra il socialismo cubano ed altri… perché tu sei tra quelli che credono che non esista un unico tipo di socialismo, non è così?

CT: No, questo me lo ha insegnato Fidel, quando lo ascoltai parlare in Polonia, alla televisione nel 1972: diceva a tutto lo stato maggiore del Partito Comunista polacco che esistono molti marxismi e molti socialismi e che il socialismo che si stava vivendo lì non aveva niente a che vedere con il nostro. Questa idea la ripeté poi a Cuba ed ebbe difficoltà a sviluppare il socialismo cubano. Raúl Roa García, Guiteras… Fidel ruppe completamente e solo nel 1958, a pochi mesi dalla vittoria della Rivoluzione, i comunisti accettarono la praticabilità del percorso di Fidel. Il fatto è che cambiare idee è molto difficile.

AR: L’eresia stava nel porsi dubbi.

CT: Pensare con la propria testa, come ci ha chiesto Carlo Marx. Ricercare proprie soluzioni. Adattarsi ai principi. Si è detto, ad esempio, che il Che sarebbe stato contrario al lavoro in proprio. No!!! Il Che rispettava e dava aiuti alla piccola e media industria privata cubana; infatti non si è nazionalizzato tutto fino al 1968, un anno dopo la morte del Che. Fino ad allora esistevano fabbriche e attività economiche private. Il Che non le ostacolava affatto. Diceva: “Non si tratta di distruggere per decreto i rapporti monetari commerciali che ci siamo ritrovati, quello di cui si tratta è cominciare a creare nuovi rapporti sociali di produzione, politici, ideologici, culturali, socialisti e proteggerli dai rapporti monetari commerciali perché vadano crescendo”.

I rapporti monetari commerciali non si possono abbandonare per decreto ma, nella misura in cui vadano crescendo i nuovi rapporti economici, sociali, culturali del socialismo diminuiranno i rapporti commerciali”. Io non vedo alcuna contraddizione. Non vedo alcuna contraddizione tra lo sviluppo delle cooperative, o degli attuali lavoratori in proprio, con quello che stabilisce la Costituzione per la quale ho votato si. Il Che avrebbe votato per questo.

AR: Non sono armi spuntate

CT: No. Il problema è stato che il campo socialista usava solamente armi spuntate e non creava rapporti socialisti, e questo è il piccolo particolare.

“Il particolare consiste nel fatto che il Che vuole che si organizzi la nuova produzione, la produzione statale, tenendo conto dei nuovi rapporti di produzione socialisti. E il Che teneva conto del costo. È un tema al quale dedico molto spazio nel mio libro.

“Diversamente da quel che è accaduto dopo e che accadeva in URSS, il Che conobbe, tramite le multinazionali nordamericane presenti qui il funzionamento delle prime calcolatrici IBM a saldo diretto, che elaboravano fino all’ultimo centesimo.

“La contabilità introdotta dal Che curava ogni centesimo: se quest’anno il tuo costo di produzione è di 52 centesimi per prodotto il prossimo deve essere di 51 centesimi. Il Che spedì un comandante, allora viceministro del ministero dell’Industria, nella provincia di Pinar del Rio, perché nel bilancio economico del semestre c’erano 3 centesimi di differenza. Alle 2 e qualcosa del mattino lo chiamarono al suo ufficio, dove stava aspettando. Non avevano trovato la differenza e gli proposero: continuiamo domani per riuscire a farla venir fuori. Lui disse no, cercate subito, perché oggi sono 3 centesimi, ma domani saranno 10 e poi diventeranno milioni.

“Poi si cominciarono a contabilizzare perdite e mancanti. Non ci devono essere perdite, se ci sono è un furto. Nel sistema del Che questo non esisteva, lui non ammetteva la corruzione. Uno può essere bravissimo il primo giorno e poi si può finire ladri e traditori.

“Oggi il pensiero del Che, tanto più con l’aggressività dell’imperialismo, calza perfettamente rispetto a quanto concordato dal nostro Partito, e soprattutto da Raúl, che ne è stato il principale promotore, con le misure economiche che è venuto prendendo a partire dal 2008 e con quel che Díaz-Canel sta facendo. Con lui qui c’è anche il Che. Non ho dubbi su questo.

AR: Costa fatica accorgersene, perché più facile credere che la differenza fra capitalismo e socialismo si riduca agli oggetti di apparente benessere. È difficile competere con l’armamentario pubblicitario che continua a dire alle persone che il loro successo sta nell’avere di più e non nell’essere di più, e sono convinto che sia questa la pietra angolare del tuo libro e la novità del socialismo cubano: soffermarsi sull’uomo, l’essere umano. Fin dove sono arrivate queste 38 edizioni del libro? Nessuno ne ha contestato le idee, trattandosi di una sorta di libro eresia?

CT: Sono state stampate oltre 600.000 copie e decine di edizioni pirata, ne esiste adesso una anche in Germania e in realtà non mi importa perché anche così si conosce di più il pensiero del Che.

“Sto per rendere pubblica, per la prima volta, un’esperienza che nessuno conosce. Come ti ho detto, i sovietici mi proposero di fare il dottorato là, all’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica a Mosca e il 28 ottobre del 1986 – pensando a Camilo ho scelto la data – ho sostenuto la tesi e ho avuto il massimo dei voti. Il 29 sono tornato e il 30 mi avevano convocato dei funzionari qui, per dirmi che non si poteva pubblicare il libro a Cuba perché avrebbe compromesso i rapporti sovietico-cubani.

“Mostrai loro il diploma rilasciatomi dai sovietici, con la firma del direttore dell’Istituto d’America Latina e una lettera di Oleg Darushenko, che era il capo del dipartimento Cuba nel Presidium del Comitato Centrale. Come fa il mio libro a danneggiare i rapporti sovietico-cubani? Proprio questo divieto di certe Autorità è stato quello che mi ha fatto decidere di mandarlo al premio Casa de Las Américas. Mi avevano detto del premio per il XX° anniversario dell’assassinio del Che e mi decisi a inviare il libro.

“Però quelli che voglio sottolineare in base a quanto già detto, sono i fatti successivi: sparisce l’Unione Sovietica, sparisce il campo socialista grazie al quale sostenevamo l’80% e qualcosa del nostro commercio e da cui proveniva il 98% del petrolio e il PIL scende al 30%. E che cosa fa Fidel in quella congiuntura? Fidel dà priorità alla Cultura. Crea case editrici provinciali, le Riso, destina risorse alla cultura e all’ideologia. Mangiavamo poco – un paio di pasti al giorno – o malamente, non c’era caffè, non c’era questo, non c’era quell’altro.

AR: Faceva come Martí, dovunque andasse.

CT: Esattamente, girava per il paese. Mi ricordo le sue scarpe rotte; ricordo che una volta mi chiamò e rimasi a fissare un buco che aveva in una scarpa. Ma, sempre concentrato sulla cultura. Ed è questo che oggi ci sta salvando, malgrado il Periodo Speciale ci abbia fatto pagare un forte deterioramento, soprattutto di valori etici.

AR: Qui forse fa il suo ingresso la grossa domanda di quest’epoca: i valori perduti, posposti. Ho la mia teoria al riguardo: credo sinceramente che così come i valori si siano persi in molti casi, in altri casi siano l’unica spiegazione della nostra miracolosa sopravvivenza alle carenze più grandi.

CT: Ho avuto modo di costatarlo una settimana fa, quando sono stato invitato a parlare con alunni di una scuola primaria, ed è stato il più bell’incontro che abbia avuto negli ultimi 20 anni, e guarda che di incontri ne ho avuti… È stata una conversazione che ho avuto il 14 giugno, abbiamo cominciato a parlare su chi era Maceo, chi era il Che. E ne sono uscito senza il minimo dubbio che il presidente Trump e tutta la banda assassina che guida l’impero non ce la faranno con noi.

“Certo, molte cose sono peggiorate. Come diceva anche il Che, con la fame non si può costruire il socialismo. Occorre trovare meccanismi per garantire che la gente possa mangiare, vestirsi, lavorare, che non debba rubare per vivere. Il Che non era un idealista. Aveva i piedi piantati per terra come Fidel, e dissero entrambi che l’Unione Sovietica sarebbe sparita, e non si sbagliarono. Per aver fatto questa previsione e aver detto perché sarebbe scomparsa, si dev’essere molto realisti.

“Però il Che era un idealista, perché senza idealismo, senza utopia, senza romanticismo, come hanno detto tanti, non esiste umanità. Ma aveva i piedi per terra e conosceva la qualità della gente. La sapeva valutare e per questo dava l’esempio.

“Penso che, malgrado il degrado, l’impero ha dovuto prendere nuove misure, a partire dallo stesso Obama, perché non sono riusciti a spezzarci. Il nostro popolo non è piegato. Stiamo qui con la camicia rotta, i pantaloni hanno un buco, abbiamo qualche ferita che ancora sanguina, ma siamo vivi, siamo pieni di energia e pieni di presente e di futuro.

AR: Come dire che sì, si è conquistato l’uomo nuovo…

CT: Quando vedo medici cubani lavorare tra popolazioni indigene dell’Amazzonia, che lavorano in località sperdute dell’Africa come nel caso dei due compagni per i quali dobbiamo pagare il riscatto a quelli che li hanno sequestrati, e gli altri che stanno ancora lì e non se ne sono andati, quale miglior uomo nuovo di questo? Quello che se ne va tutte le mattine a lavorare e non può fare quattro pasti al giorno perché il salario non gli basta, anche questo è l’uomo nuovo.

“Quelli che sono contro il Che vogliono idealizzare lo stesso concetto di uomo nuovo del Che: Se a Cuba non ci fosse un uomo nuovo, semplice, semplicemente non saremmo stati qui. Da dove sono venuti i Cinque Eroi? Sono gente del popolo, che non si è piegata. Nel concerto di Silvio, due giorni dopo il loro arrivo, sono apparse le loro madri, le loro mogli e Gerardo cantava: “Nel momento peggiore, quando stavamo nelle celle di rigore, quando non parlavamo con nessuno, ci mettevamo a cantare le canzoni di Silvio”.

“Per questo dico che Silvio rappresenta la cultura rivoluzionaria, la cultura di Raúl Gómez García, che è l’ambasciatore della poesia ma anche dei migliori valori della Rivoluzione Cubana, come ha ben detto López Obrador. Di questa Rivoluzione eretica.

AR: Quando Carlos Tablada pensa a quell’8 ottobre del 1987 e alla 38a edizione del libro, e che tutte le generazioni da Fernando Martínez Heredia fino a Elier Ramírez Cañedo sono in grado di considerare il valore del libro che ha scritto come una forma di rinascita del Che e un momento cruciale della Rivoluzione cubana, che cosa prova?

CT: Due cose: ricordo che i miei compagni mi dicevano che stavo scrivendo per i topi, che dove si era insediato il modello sovietico non vi era possibilità di ritorno, che ero pazzo. Per fortuna non avevano ragione.

“La seconda cosa: stavo in Argentina quando Fidel parlò l’8 ottobre dell’87 e raccomandò la lettura del mio libro. Lo seppi il 17 ottobre in aeroporto, mentre tornavo da Buenos Aires per andare a presentare il libro a Lima: un compagno dell’ambasciata mi dà il Granma e mi fa leggere in areo il discorso di Fidel. Mi sentii male, mi misi a piangere, non per il mio libro, ma perché capii che i compagni di Fidel, di Raúl, Ramiro, di Haydée, che erano morti nel Moncada, nella Sierra o nel Piano, non sono morti per il gusto di morire; che quelli che morirono a Playa Girón, o che sono morti in clandestinità, o che non si sa ancora che sono eroi, e quello che ha passato il nostro popolo facendo un pasto al giorno, a volte senza niente, senza elettricità, non si sono sacrificati per gusto.

“Perché la nostra Rivoluzione, il socialismo cubano, dalle idee di Céspedes e i mambises cubani fino al giorno d’oggi colloca al centro l’essere umano e questo ti dà l’etica che il Che ha compreso: che l’arma di fondo dei mambises è stata l’etica. E il Che ha capito quando Fidel gli disse di curare il ferito più grave che l’arma principale della Rivoluzione era l’etica, che non inganna nessuno e questo è ciò che ci dà la forza per continuare a combattere. Ed è bene che la gente vada in altri paesi e veda e confronti per sapere bene che cosa abbiamo e tutto quello per cui dobbiamo continuare a batterci contro l’impero e contro la burocrazia interna che è andata minando tutte le misure di Raúl e che frappone ostacoli a Díaz-Cañel.

AR: Ultima domanda: se stiamo a posto, nel senso di aver inteso l’allarme del Che e siamo sulla strada di non lasciar cadere la Rivoluzione, perché un’altra edizione de Il pensiero economico del Che?

CT: “Non l’’ho chiesta io, è che il Che sta tornando in tutto il mondo. Non solo a Cuba. Di tutte le edizioni fatte oggi 8 otto sono cubane; delle 600.000 copie stampate – senza contare quelle pirata – 300.000 sono cubane, le altre sono statunitensi, canadesi, europee, russe, turche, iraniane… Ora si pubblicherà anche in paesi mediorientali.

“Il Che è di ritorno perché la gente si sta rendendo conto che ci stanno abbrutendo a livello mondiale, che non vogliono che pensiamo e ci chiedono di cancellare la memoria storica. E il Che è così puro, è stato ed è talmente conseguente in quel che pensava, provava e faceva che continua ad ispirarci, non solo noi cubani, per instaurare una società assai migliore, in cui realmente possiamo abbandonare il capitalismo e creare una società che non distrugga il pianeta e la faccia finita con lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.

AR: Io ho un’altra risposta: come lettrice ed anche come cubana credo che questi allarmi non passino mai, perché la costruzione del socialismo e dell’uomo nuovo hanno bisogno di una rivisitazione quotidiana, ancorché ci siano persone che lo dimenticano.

CT: È quel che ha fatto Elier Ramírez, un ragazzo giovane, rivoluzionario, brillante.

AR: Nonché nipote del militante contadino Pepe Ramírez.

CT: Ho saputo un mese fa che era il nipote del favoloso Pepe Ramírez. Persona onesta, dignitosa, stimata, per questo quindi un rivoluzionario, come diceva il Che. Che Elier abbia fatto la presentazione dell’ottava edizione cubana, che l’abbia fatta come l’ha fatta, con una lettura attraverso le lenti della sua generazione e del XXI secolo, dimostra che è valsa la pena di aver fatto quello che ho fatto.

AR: Voglio finire con quanto ha scritto la nostra grande amica Celia Hart Santamaría in una delle Introduzioni al libro: “In nome di quella generazione ideologicamente disperata, stordita dallo stalinismo, confusa con la perestrojka, il motivo per cui ringrazio formalmente Carlos Tablada è di aver salvato questo libro dal mare.

Traduzione di Titti Pierini

L’intervista a Carlos Tablada è apparsa in: Arleen Rodríguez Derivet (su Cuba debate, 3 luglio 2019)

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