Il virus del capitalismo

 

Se morirà qualcuno, pazienza. Ovvero il virus del capitalismo

da Sinistra Anticapitalista

Vedete, anche la nostra in questi mesi è stata una guerra, la guerra tra capitale e lavoro, tra profitto e sicurezza, tra produzione e vita. E come in guerra, “se morirà qualcuno pazienza…” – Eliana Como

La scorsa settimana abbiamo parlato di quanto vale lo stipendio di un super eroe, cioè quanto guadagna un infermiere. E quanto vale il salario di varie categorie di lavoratori e lavoratrici. Oggi facciamo un passo indietro. Parliamo di quanto vale la loro vita. Per qualcuno, vale davvero niente: “Se morirà qualcuno, pazienza”. Le avete sentite vero? Parole che pesano come pietre. Le ha dette, lo saprete, il presidente di Confindustria Macerata (nella foto una delle tante espressioni satiriche dell’indignazione provocata dalla dichiarazione, ndr). Dopo le polemiche che questa frase ha suscitato, ha tentato prima goffamente di scusarsi, poi più realisticamente si è dimesso dall’incarico. Bene. Io ho subito dichiarato che se fosse stato per me, cioè fossi stata io la segretaria della Cgil di macerata o delle Marche non mi sarei più seduta a un tavolo con quel signore, pretendendo io da Confindustria le sue dimissioni. Sono certa che i lavoratori e le lavoratrici mi avrebbero capita. Menomale comunque che si è dimesso «da solo». Anche, perché il comunicato di Cgil Cisl Uil territoriali, oltre la ovvia indignazione, non andava.

Comunque sia, a me non bastano proprio queste dimissioni. Perché, diciamoci la verità, al maldestro Guzzini è sfuggita una frase proprio infelice che però in tanti tra i suoi amici imprenditori pensano. E le sue dichiarazioni sono più gravi proprio perché non sono isolate. Sono solo la punta di un iceberg, sotto la quale ci sono i padroni bergamaschi che tra febbraio e marzo hanno fatto pressioni perché non fosse decisa la zona rossa in Val Seriana, c’è il loro #bergamoisrunning per tranquillizzare i partner stranieri che a Bergamo non stava succedendo niente, quando invece tutti avevamo ormai capito che stava per travolgerci una marea. C’è Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, che al telefono con Fontana, a fine febbraio, di fronte alla possibilità che si prendano misure restrittive più serie, risponde: “ma io devo rifornire la Jaguar…”. C’è Persico probabilmente, uno dei maggiori imprenditori della Val Seriana: non era anche lui tra quelli che non volevano la chiusura della valle per andare avanti a produrre la sua Luna Rossa per la regata American Cap? Io non so darmi pace di questo e del fatto che il lockdown delle produzioni non essenziali sia arrivato soltanto il 22 marzo. Mi ricordo che quel giorno pensai che ne ero contenta perché forse questo avrebbe impedito il diffondersi del contagio in altre regioni. Ma altrettanto sapevo, con amarezza, che ormai per Bergamo e dintorni era tardi per sempre. Nella mia città all’epoca erano già morte 4000 persone. “Se morirà qualcuno pazienza…”

Non mi dò pace, perché il caso di Lodi aveva dimostrato che circoscrivere subito un focolaio impedisce il diffondersi incontrollato del contagio e perlomeno limita i danni.  Quello che suggerì di non chiudere la Val Seriana e lasciare che il virus si diffondesse in tutta la provincia di Bergamo, Brescia e dintorni fu proprio quella idea, sfuggita l’altro giorno a Guzzini. Gli interessi delle imprese valgono più delle nostre vite! Semplice, quanto criminale.

La Val Seriana è una zona ad alta intensità produttiva e gli interessi delle industrie manifatturiere hanno prevalso sulla salute della popolazione. Leggete cosa scriveva l’8 aprile l’intera Confindustria del nord (Veneto, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna), che scalpitava per riaprire, mentre ancora contavamo i morti della prima ondata, a meno di 2 settimane dal dpcm del 22 marzo: «Se le quattro principali regioni del Nord che rappresentano il 45% del PIL italiano non riusciranno a ripartire nel breve periodo il paese rischia di spegnere definitivamente il proprio motore e ogni giorno che passa rappresenta un rischio in più di non riuscire più a rimetterlo in marcia». Vi pare tanto diverso da quel «se morirà qualcuno pazienza»?

E anche dopo. Quando si sono allentati i controlli per far ripartire il turismo estivo, con chi pretendeva di riaprire persino le discoteche perché tanto il virus era clinicamente morto, vi ricordate? Non c’era anche lì sotto l’idea criminale che “se morirà qualcuno pazienza”? E oggi con le riaperture per lo shopping natalizio dopo le quali si sono tornati a affollare le vie dei negozi e i centri commerciali, non siamo di fronte allo stesso problema? L’altro giorno i lavoratori e le lavoratrici della rinascente di Milano, travolte dalla ressa da shopping, prodotta dalla incredibile decisione di far tornare gialla la Lombardia, hanno lanciato un inequivocabile grido di allarme: ci stiamo ammalando in serie! Non era da difficile da prevedere che sarebbe accaduto questo. Io non sono una maga né Cassandra, eppure su questa stessa rubrica, tre settimane fa, in occasione del Black Friday, mettevo in allarme sulle riaperture natalizie di cui si stava discutendo, chiedendo che il sindacato di mobilitasse per impedirle. Si è invece deciso altro. E sapete perché? Perché “se morirà qualcuno, pazienza”.

E d’altra parte, vi ricordate le parole di Toti, il presidente della Liguria, quando in un twitter scrisse che “per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid 19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate”. Non c’è anche dietro questa frase, l’idea che la vita valga in funzione della capacità di produrre profitto?

E iniziamo a considerare il fatto che anche la distribuzione del vaccino porrà questo tema. Un certo eurodeputato leghista, Ciocca, ha già dichiarato che bisognerà distribuirli tra le ragioni non in base alla popolazione ma al pil prodotto. Per questo signore la vita di un lombardo vale più di quella di un siciliano, perché produce più profitto. Per lo stesso signore, sono sicura che la vita di quel lombardo, a marzo, valeva soltanto per mandare avanti le fabbriche. Non c’è anche qui dietro quella stessa logica che “se morirà qualcuno, pazienza…”?

Queste parole, non sono sfuggite a Guzzini. No, tutt’altro. Sono la chiave di volta di un intero sistema, che si inchina agli interessi economici anche quando è in gioco la vita di una intera comunità, sacrificandola, come se niente fosse, sull’altare del profitto. E sapete quale è il punto: il virus più pericoloso è questo: il capitalismo.

Guzzini si è dimesso perché le sue parole hanno fatto scandalo. Ma con lui si dovrebbero dimettere tutti gli altri che in questi mesi hanno allo stesso modo preteso che la produzione, il turismo, il commercio e tutto il resto non si fermassero, contro gli avvertimenti della comunità scientifica che suggerivano maggiori misure restrittive per contenere il contagio. Non accadrà. Lo so. Anche perché il sindacato, per varie ragioni, non è in grado di dire quello che avrei risposto io a Guzzini: “al tavolo con te, non mi ci siedo più”.

Anche senza arrivare a tanta radicalità, almeno Cgil Cisl Uil avrebbero potuto evitare il 27 febbraio di inchinarsi all’idea che il profitto non si deve fermare, firmando con Confindustria un incredibile documento che, senza mai nominare la parola sicurezza, chiedeva di tornare rapidamente alla normalità. Niente di diverso da #bergamoisrunning. Chissà perché l’opinione pubblica non ha mai chiesto conto al sindacato di quelle parole. I sindaci di Bergamo e Milano si sono perlomeno dovuti scusare dei loro #bergamononsiferma o #milanononsiferma. E qualcosa anche, mesi dopo, avrebbe almeno potuto suggerire alla Cgil di invitare alle sua Giornate del Lavoro online, proprio Bonomi, presidente di Confindustria, certo, ma altro fiero sostenitore lombardo del fatto che la produzione non si dovesse mai fermare. Vedere Bonomi, comodamente seduto su un palco della Cgil, dopo quello che era accaduto, francamente a me ha fatto ribollire il sangue. Di nuovo, sono stata tra quelli che ha protestato per questa scelta, sollevando il fatto che non fosse affatto opportuno quell’invito. Mi hanno risposto che le controparti non si scelgono. Non lo so, in parte è vero, ma forse dovremmo anche dirci che se le nostre controparti si permettono di essere così impresentabili, forse, è anche causa nostra.

In ogni caso, prima di chiudere, fatemi raccontare una storia. Il 6 luglio del 1944, quando lo stabilimento siderurgico di Dalmine in provincia di Bergamo, all’epoca impegnato per la produzione bellica italiana e tedesca, venne bombardato dagli aerei alleati, morirono 278 persone, in larga parte operai. Quasi 800 rimasero feriti. Morirono mentre colavano l’acciaio, mentre lavoravano, perché la sirena dell’allarme non suonò. Si decise di non farla suonare perché la produzione bellica non doveva fermarsi nemmeno mentre stavano per arrivare le bombe.

Vedete, anche la nostra in questi mesi è stata una guerra, la guerra tra capitale e lavoro, tra profitto e sicurezza, tra produzione e vita. E come in guerra, “se morirà qualcuno pazienza…” Bene che si sia dimesso Guzzini, allora. Ma è il sistema che dobbiamo cambiare.

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