Italia e Libia, un rapporto pericoloso

Sulle circostanze della conquista coloniale, con le sue atrocità, le stragi, i campi di concentramento, l’uso dei gas lanciati dagli aerei contro i civili già prima della Grande Guerra (nella quale molti paesi li usarono e tutti menarono scandalo, a partire dall’Italia che li aveva sperimentati per prima), chi voleva poteva sapere tutto. Erano state documentate con straordinaria efficacia e rigore da molti storici, primi tra tutti Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, anche se erano state ignorate e rifiutate dai manipolatori dell’opinione pubblica, di destra, di centro e anche di sinistra.

Già durante la discussione delle condizioni per il trattato di pace, lo stesso partito comunista, ancora al governo, aveva sostenuto che la Libia doveva essere assegnata all’Italia con un mandato fiduciario dell’ONU analogo a quello previsto per la Somalia, con le stesse motivazioni: come l’Etiopia, la Libia non era stata una conquista fascista…

Così la maggior parte degli italiani non sa e non immagina neppure che livelli di barbarie, di ferocia, di repressione indiscriminata della popolazione civile furono raggiunti già nel periodo prefascista, né che la resistenza alla conquista si è protratta per ben venti anni dopo il 1911: molti si irritano anche quando Gheddafi ricorda le sofferenze imposte al popolo libico trascinato senza colpa nella seconda guerra mondiale ed esposto ancor oggi a un suo terribile strascico: l’esistenza di un’enorme quantità di ordigni e soprattutto di mine, che continuano a esplodere, e ignorano che lui stesso, ancora bambino, fu ferito mentre due cuginetti morirono dissanguati.

Ogni volta che Gheddafi ha risollevato la questione del risarcimento per i danni di guerra, ha ottenuto qualcosa (prima da Andreotti e Craxi, poi dallo stesso Berlusconi), anche se molto al di sotto delle richieste. Ma, da un lato, gli impegni presi non sono stati mantenuti, e dall’altro i mass media continuano a presentarlo come un pazzo incontentabile.

Era stato soprattutto Andreotti a fare molto per stabilire un solido rapporto e a tentare di mantenerlo anche quando Gheddafi veniva additato come terrorista dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Tra l’altro Andreotti aveva – inutilmente – portato a Reagan una copia del Libro Verde, perché si rendesse conto che non si trattava di un comunista. Non era certo per amore della Libia o della giustizia: la contropartita erano grandi affari, con le forniture di gas e ottimo petrolio leggero, e soprattutto con remunerativi appalti a ditte italiane per impianti industriali, autostrade, o una parte dei lavori per il gigantesco acquedotto che porta sulla costa l’acqua estratta dal sottosuolo di Cufra, nel sudest del paese.

Berlusconi paradossalmente ha fatto più di tutti, facendo quella esplicita ammissione della colpevolezza dell’Italia coloniale che altri (compreso D’Alema) avevano sempre evitato o fermato a metà. Neppure la promessa, fatta solennemente da Craxi nel 1988, di far trasmettere su un canale televisivo RAI il bellissimo film Il leone del deserto sulla resistenza agli italiani, da sempre vietato, era stata mantenuta. Ora è stata concessa, ma solo semiclandestina, su Sky, non in chiaro…

Ma, oltre al mantenimento e consolidamento dei rapporti d’affari, particolarmente importanti in un momento di grave crisi economica, egli ha ottenuto anche la collaborazione nel tentativo di trovare una “soluzione finale” delle migrazioni dall’Africa subsahariana. Vedremo con quali garanzie…

 

Va detto che quando a Gheddafi era stato attribuito dai suoi accusatori il ruolo principale di protettore del cosiddetto “terrorismo internazionale”, con l’avallo immediato – all’unanimità – del servile Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’Italia aveva tentato di allentare o aggirare il severissimo blocco, chiunque fosse al governo e al ministero degli Esteri, tanto forti sono i legami economici tra le due sponde del Mediterraneo. In ogni caso l’accusa era basata soprattutto sul sostegno sistematico a ogni movimento di liberazione, sommariamente definito “terrorista” dagli Stati Uniti per il solo fatto di utilizzare o teorizzare la lotta armata, mentre le accuse specifiche sugli attentati erano senza prove sufficienti (casomai fortissimi indizi gravavano sui servizi segreti siriani). Non a caso almeno uno dei due libici accusati per l’attentato all’aereo caduto a Lockerbie è stato alla fine assolto dalla corte olandese che lo ha giudicato.

Lo stesso Gheddafi si è poi “autocriticato” per la sua ingenuità nel sostenere movimenti come l’IRA (o meglio alcuni dei suoi settori più estremisti); soprattutto aveva ricambiato ogni segnale distensivo ricevuto collaborando con i suoi avversari di un giorno prima, scambiando informazioni o, peggio ancora, consegnando – ad esempio al Marocco e all’Egitto, o all’Eritrea – gli oppositori rifugiati in Libia, e facendosi consegnare i dirigenti libici che avevano chiesto asilo a quei paesi. L’attenuazione della campagna che presentava il presidente libico avviata da Reagan nel 1986, e culminata nella risoluzione del 1992 che stabiliva il più severo blocco delle comunicazioni internazionali (tranne quelle delle petroliere…) da e per la Libia, non era dovuta quindi tanto a un sostanziale mutamento di politica di Gheddafi, ma all’emergere nel paese di una violenta opposizione fondamentalista, alimentata dalle difficoltà economiche. Un suo eventuale successo rischiava di mettere in forse l’apporto libico all’approvvigionamento di petrolio all’Italia e all’Europa, mai interrotto completamente neppure nei periodi peggiori. I mezzi sbrigativi con cui si affrontava il movimento islamista, dalle impiccagioni all’espulsione di migliaia di lavoratori egiziani o tunisini “sospetti”, non erano una colpa agli occhi dei governi occidentali, ma una garanzia.

 

Nelle polemiche sul respingimento in mare dei cosiddetti “clandestini” molti giornalisti hanno ripetuto l’argomento dei ministri Frattini e Maroni: come si fa a non avere fiducia nella Libia? È un paese che ha addirittura presieduto la commissione dell’ONU sui diritti dell’uomo… Un argomento ipocrita, in primo luogo perché l’ONU non dà alcuna garanzia di criteri oggettivi di valutazione: abbiamo già ricordato che la Libia, con lo stesso governo, è stata condannata o assolta a seconda delle decisioni e degli interessi dei paesi dominanti in quel momento. Ieri “paese canaglia”, oggi buon cliente a cui si forniscono – a caro prezzo – persino centrali nucleari (quelle stesse che si considerano inammissibili in Iran). Ma è bene ricordare anche che per anni, per far dispetto all’URSS e al Vietnam, l’ONU ha riconosciuto come governo legittimo della Cambogia quello degli Khmer rossi in esilio…

Inoltre si dimentica che la Libia non ha firmato la convenzione sul diritto di asilo, e soprattutto che si è comportata esattamente come il governo Berlusconi-Maroni nei confronti degli immigrati arabi e soprattutto africani, lasciati arrivare in massa come manodopera a buon mercato negli anni delle vacche grasse, e poi respinti in blocco con la violenza nei momenti di difficoltà economiche, anche con la teorizzazione che la Libia deve ridurre la sua popolazione espellendo i non autoctoni.

Dunque – per queste e tante altre ragioni – non possiamo accettare nessuna giustificazione della scelta di inviare in Libia gli sventurati migranti che tentavano di sfuggire alle guerre, alla distruzione del tessuto economico e sociale dei loro paesi, alla fame.

 

Al tempo stesso, tuttavia, va respinta la demonizzazione della Libia e del suo stesso regime. Nonostante tutto, la Libia rimane un paese complesso, ben diverso da quello descritto dalla grande stampa italiana. Non c’è pluralismo partitico, ma in quanti paesi dell’Africa (e in genere del mondo ex coloniale) esiste davvero? Come pure è difficile attribuire la lunga durata (ormai quaranta anni!) del potere di Gheddafi solo alla repressione degli oppositori, che esiste ma non spiega tutto. Gheddafi ha utilizzato un capitale iniziale di popolarità che aveva una base oggettiva: nel momento in cui i capi di Stato di tutto il mondo arabo si piegavano a una collaborazione subalterna con l’imperialismo, mentre le risorse derivanti dal rialzo del prezzo del petrolio venivano ovunque usate per lussi insensati, Gheddafi ha tentato di impiegarle per innalzare il livello di vita della popolazione del suo paese.

In certi periodi ci è riuscito abbastanza bene: il vescovo cattolico di Bengasi Giovanni Martinelli, che pure era stato imprigionato dai “comitati rivoluzionari” per un breve periodo nel 1986, nel quadro di una ritorsione nei confronti degli italiani per la complicità del nostro governo nel bombardamento di Tripoli e Bengasi, ha più volte dichiarato in interviste a quotidiani italiani che vorrebbe avere in Italia un sistema sanitario come quello libico. L’arresto del vescovo confermava che il potere con è così monolitico come sembra a osservatori superficiali: è emerso che ci sono scontri evidenti tra diversi settori. D’altra parte Gheddafi ha più volte attaccato i comitati rivoluzionari, non per un semplice gioco delle parti.

È sintomatico che quando una parte dei collaboratori del colonnello si sono staccati da lui e hanno tentato di creare un’opposizione, non hanno trovato molti consensi, tranne in alcuni particolari momenti critici. Solo dopo una costosissima, anche in termini di perdite umane, partecipazione alla guerra civile nel Ciad, il dissenso ha raggiunto dimensioni notevoli. Tra l’altro una parte dei militari libici prigionieri ha preferito non tornare in patria, denunciando l’impreparazione dei comandi e l’incapacità di capire le ragioni dei combattenti del Ciad.

Quella guerra, iniziata appoggiando una delle due fazioni in lotta tra loro, e aggrappandosi a un accordo del 1935 tra la Francia di Laval e l’Italia fascista, che assegnava a quest’ultima la fascia di Aouzou, era diventata lunghissima e insensata, e aveva provocato un grande calo della popolarità del leader. È vero che l’intervento della Libia nel conflitto scandalizzava il mondo, mentre quello massiccio ed efficace della Francia a favore dell’altra fazione veniva accettato tranquillamente, ma alla fine il prezzo pagato da Gheddafi era stato altissimo. C’era stato un precedente nel 1979 con una spedizione in Uganda per sostenere Idi Amin Dada contro la Tanzania, con perdite vicine al 90% dei militari libici. Un significativo raffreddamento della popolazione nei confronti del regime, si è visto nella debolezza della proteste dopo il bombardamento di Tripoli, in cui erano stati uccisi molti civili, tra cui una figlia adottiva di Gheddafi.

A che serve destinare una parte enorme del bilancio nazionale all’acquisto di aerei modernissimi in quantità enormi, se poi non si riesce a fermare un attacco aereo alla stessa caserma in cui ha la sua tenda il colonnello Gheddafi, e si perde alla grande lo scontro aereo con gli USA nel cielo del golfo della Sirte? È quello che si domandarono molti libici.

Allora Gheddafi era scomparso per qualche giorno, ritirandosi a meditare nel deserto, ma era riemerso presto. A suo favore giocava il fatto che i suoi oppositori erano sostenuti da Stati Uniti e Gran Bretagna, o da un regime reazionario come il regno del Marocco. Nel progetto di Gheddafi c’era quanto – dopo la morte di Nasser – rimaneva di una grande speranza, la rivoluzione e l’unità araba. L’aveva difesa con fughe in avanti, fusioni e rotture a volte immediate, insomma l’aveva difesa male, ma era rimasta al centro del suo programma. In sé era giusto, e Gheddafi per questo giganteggia rispetto ad altri capi arabi, non solo di quelli che sono diventati fantocci dell’imperialismo. Lo stesso si può dire per il tentativo di creare una effettiva unità africana, senza successo anche se non per esclusiva responsabilità del colonnello.

La Libia si è trovata in difficoltà non solo per la brusca flessione del prezzo del petrolio negli anni Ottanta, ma anche per lo sperpero – in certi casi assurdo – delle sue risorse. Innanzitutto con le spese militari, esagerate soprattutto nei primi venti anni, poi ridimensionate per l’embargo, e per la verifica della loro scarsa utilità in uno scontro diretto con gli Stati Uniti, ma anche con altri investimenti in progetti faraonici.

All’origine di queste scelte c’era tuttavia una valutazione corretta e realistica: le risorse petrolifere, pur se abbondanti, non sono illimitate ed eterne. Da qui lo sforzo per industrializzare in fretta il paese, e soprattutto per creare una agricoltura fiorente. L’acciaieria di Misurata ha finito però per costare molto di più di quanto possa rendere, e la costruzione del “Grande Fiume Sotterraneo”, sempre per la rapacità delle ditte che l’hanno costruito e dei fornitori dei materiali, ha assorbito più di trenta miliardi di dollari, da tre a quattro volte il ricavato annuo del petrolio.

Non c’è dubbio che questo uso delle risorse naturali non si può paragonare allo sperpero in un lusso sfrenato che caratterizza la maggior parte dei paesi del Golfo, ma sarà risolutivo? Tra l’altro l’acqua delle immense caverne sotto l’oasi di Cufra è abbondante ma non illimitata: è acqua fossile, purissima e buonissima, ma non rinnovabile. L’Egitto aveva temuto che provenisse da una falda acquifera sotto il Nilo, ma è risultato che non è così. Non si sa se potrà durare venti anni o più o anche meno, in ogni caso non sarà per sempre. Valeva la pena una spesa simile per produrre cetrioli e pomodori dove c’era il deserto, anziché acquistarli dalla vicina Sicilia, magari avviando una società mista allo scopo? Forse sarebbe stato più utile degli investimenti finanziari in varie attività industriali europee.

Va detto che la Libia ha ottimi banchieri, che sanno muoversi con abilità sui mercati mondiali. Ad esempio, la partecipazione del 10% alle azioni FIAT nel 1976 aveva visto un investimento iniziale di 415 milioni di dollari, e si era conclusa nel 1986 – ai primi segni di embargo e di blocco USA ai prodotti FIAT – con soddisfazione delle due parti. Lo stesso Agnelli aveva tessuto le lodi dei partner libici, il cui comportamento era stato definito “ineccepibile”, ma la finanziaria libica Lafico aveva ricavato in dieci anni oltre tre miliardi di dollari.

Un ultimo dato, su cui si è già cominciato a ironizzare appena annunciato il viaggio di Gheddafi in Italia: la sua richiesta di poter dormire in una tenda. Eppure si tratta di un’ostentazione, diciamo pure propagandistica, di un’austerità legata alle sue origini beduine. In Libia Gheddafi non ha voluto mai utilizzare i palazzi del re Idris e dei suoi notabili, e ha sempre vissuto in una tenda all’interno dell’area della principale caserma di Tripoli, mentre la famiglia viveva in una modesta palazzina, all’interno della stessa caserma, arredata con mobili brianzoli tipici di una casa operaia o piccolo borghese italiana (ho potuto vederli, dato che dopo il bombardamento del 15 aprile 1986 ogni visitatore della Libia era condotto a vedere i danni provocati dalle bombe).

Non è tutto, ed è anche almeno in parte contraddetto dal suo abbigliamento ricercatissimo e stravagante, ma agli occhi delle masse arabe il confronto con le rubinetterie d’oro degli emiri del Golfo viene spontaneo.

In conclusione, se rifiutiamo la sua demonizzazione (il “cane pazzo”, il “terrorista” da colpire con bombardamenti mirati…), non possiamo neppure illuderci su un suo possibile ruolo positivo: la sua ideologia è un surrogato di antimperialismo, ma con troppi adattamenti al “così fan tutti”, che lo rendono assai meno “antagonista” di come vuole presentarsi. (18/6/09)