La rinascita del sindacalismo nel secondo dopoguerra

La rinascita del sindacalismo nel secondo dopoguerra

Relazione di Antonio Moscato

 

 

 

NOTA Questo testo era stato concepito per le scuole di formazione della RdB ed era stato accettato finché qualcuno dei dirigenti scoprì a una lettura più attenta che il giudizio complessivo su Di Vittorio, pur rendendo omaggio alla sua capacità di autocritica dopo la sconfitta alla FIAT del 1955, e alla sua capacità di staccarsi da Togliatti sull’Ungheria nel 1956, rimaneva fortemente critico. Dopo varie tergiversazioni e richieste di modifiche sostanziali con pretesti inverosimili, il testo veniva sostituito riutilizzando un articolo apologetico su Di Vittorio scritto dal presidente della omonima fondazione, e procurato da Ilaria Del Biondo, ricercatrice di Storia del movimento sindacale, ma anche militante dell’attuale PCL. Con mio grande stupore la compagna, che io stesso avevo proposto alla RdB, ha partecipato all’operazione censoria senza battere ciglio ed anzi facilitandola. Chi fosse interessato alla vicenda, che rivela il permanere dell’influenza del riformismo togliattiano anche in settori di sindacalismo autorganizzato che si dice “rivoluzionario”, può richiedere ulteriore documentazione a: [email protected]

 

 

Nel marzo 1943, gli scioperi a Milano, Torino, Genova fanno tremare il regime. Gli industriali che avevano appoggiato il fascismo fin dal primo momento e avevano beneficiato delle commesse militari, cominciano a staccarsi, visti gli insuccessi nella guerra (erano a favore del fascismo e delle sue avventure, finché si vinceva e facilmente, grazie alla sproporzione enorme delle forze, in Etiopia, Spagna e Albania, si erano raffreddati dopo la clamorosa sconfitta in Grecia e la perdita di tutte le colonie), e soprattutto perché risultava ormai evidente che il regime aveva fallito nel suo compito di distruggere il movimento operaio, che risorgeva e si dimostrava temibile.

Per questo gli industriali italiani cominciavano a guardare a un’Italia fascista senza Mussolini, appoggiando le trame tessute tra il Quirinale e il Vaticano per preparare la sostituzione del Duce con Badoglio (già fascista e uno dei principali criminali di guerra), che sarà realizzata nel Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio.

Come è noto, l’operazione fallì per l’entrata in scena imprevista delle masse, su cui il nuovo governo fece sparare da polizia ed esercito, ma che non riuscì a fermare. I gerarchi sparirono, a volte passando davvero per le fogne, i simboli del fascismo vennero abbattuti, cominciarono i “quarantacinque giorni” di relativa restaurazione democratica, ma anche i primi tentativi per ingabbiare il movimento operaio nel quadro rigido di una collaborazione interclassista. Sciolta la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il socialista riformista Bruno Buozzi (responsabile principale, come segretario della FIOM, dell’isolamento del movimento dei Consigli e della conseguente sconfitta dell’occupazione delle fabbriche nel “biennio rosso” del 1919-1920) venne nominato commissario per l’industria, affiancato dal comunista Roveda e dal democristiano Quarello, mentre Grandi (DC) era commissario per l’agricoltura e Di Vittorio per i braccianti.

Era la premessa della costituzione di una CGIL unitaria, che sarà realizzata nel 1944, ma che già il 2 settembre vedeva un primo accordo con l’associazione degli industriali siglato da Buozzi con l’ing. Giuseppe Mazzini (già dirigente degli industriali prima del fascismo), che riconosceva e regolamentava la ricostituzione delle commissioni interne nelle aziende con più di 20 dipendenti.

Se gli scioperi del marzo 1943 erano stati nettamente politici, e organizzati direttamente dalle cellule comuniste clandestine delle grandi fabbriche, nei 45 giorni si erano ricostituite su larga scala delle commissioni interne, che tra lote altro organizzarono scioperi già in agosto contro le esitazioni e l’impotenza del governo Badoglio in un momento di esasperazione popolare per i terribili bombardamenti anglo-americani.

L’occupazione dell’Italia centro-settentrionale da parte dei nazisti, facilitata dalla vergognosa fuga del re e di Badoglio, che lasciarono senza indicazioni l’esercito, costrinse alla clandestinità i commissari che stavano ricostituendo il quadro della nuova organizzazione sindacale. Dopo faticose trattative venne stipulato il “Patto di Roma”, preparato da Buozzi (che non poté firmarlo perché catturato e assassinato alle porte di Roma dai nazisti in fuga) insieme al DC Gronchi e a Di Vittorio. Il documento che gettava le basi della CGIL unitaria fu siglato il 9 giugno 1944, nella capitale appena liberata.

A Napoli, ma con propaggini in Puglia e in altre regioni del Sud, veniva creata intanto la CGdL meridionale, animata da comunisti, azionisti e socialisti di sinistra (con una partecipazione di qualche bordighista e trotskista), in aperta polemica con il verticismo della CGIL unitaria e soprattutto contro l’ipoteca interclassista posta dalla corrente democristiana nel documento di adesione al Patto di Roma. Ma la CGdL meridionale (come d’altra parte la “federazione di Montesanto”, frutto di una scissione animata dalla sinistra del PCI napoletano in polemica con l’orientamento di collaborazione di classe che si stava delineando e che sarà rafforzato dall’arrivo di Palmiro Togliatti in Italia), sarà soffocata dal governo Badoglio, in cui in seguito alla cosiddetta “Svolta di Salerno” erano entrati ministri comunisti, senza porre neppure la pregiudiziale antimonarchica sostenuta fino al marzo 1944, e naturalmente dalle autorità di occupazione anglo-americane, che negarono l’autorizzazione (e la carta…) al quotidiano della CGdL di Napoli.

Va detto tuttavia che questa breve esperienza pressoché dimenticata, pur generosa nelle intenzioni, era ugualmente il riflesso di scelte maturate a livello politico, e non il frutto di un impetuoso movimento sindacale classista.

La politica della CGIL unitaria, nata da un accordo di vertice tra i principali partiti, con lo stesso metodo usato per i CLN locali e nazionale, cioè la ripartizione a tavolino delle cariche a prescindere dal peso reale di ciascuna organizzazione, non poteva avere una reale autonomia rispetto al governo di unità nazionale. Per questo si impegnò, più che a promuovere le lotte, in una battaglia costante contro gli “eccessi” nelle agitazioni spontanee nelle zone liberate e poi, successivamente alla liberazione, contro i presunti “eccessi nelle epurazioni” dal basso, che avevano cacciato i quadri di fabbrica più compromessi col fascismo.

Su questo fu determinante tuttavia non tanto la componente democristiana, ma proprio quella del PCI, impegnato ad applicare zelantemente la linea interclassista, anche se a volte la  presentava come il frutto della necessità di “salvare l’unità con le correnti sindacali moderate”, in particolare con quella DC.

L’egemonia conquistata dai comunisti con le loro eroiche lotte venne utilizzata per assicurare la ricostruzione capitalistica dell’Italia, convincendo gli operai a rinunciare “per il momento” alle loro rivendicazioni di potere, attendendo il “momento buono” che sarebbe stato scelto dai loro dirigenti. Ci furono perplessità, ma nel complesso la “doppiezza” pagò. Così uno dei massimi dirigenti del PCI di quegli anni, Emilio Sereni, in un’assemblea dei Consigli di Gestione nel teatro Odeon di Milano, il 16 settembre 1945, si rivolse a una platea inquieta con questi argomenti, che sarebbero stati respinti violentemente nel 1920, ma che riuscirono almeno in parte a fare breccia in una classe operaia giovane e inesperta:

“Sarebbe troppo comodo per le vecchie classi dirigenti che hanno portato l’Italia alla catastrofe poter dire ai lavoratori: ora arrangiatevi da soli. […] I lavoratori non sono caduti nel tranello, hanno saputo esigere che i rappresentanti della proprietà prendessero la loro parte di responsabilità nel ricostruire”.[1]

Non tutti erano ancora convinti, a quanto pare, se l’Unità di quel periodo doveva continuamente mettere in guardia contro “provocatori trotskisti” che “incitavano all’odio” tra le componenti dello schieramento antifascista, o tentavano di mantenere ben oliate le armi. In quello stesso mese di settembre un comunicato della Camera del Lavoro di Milano, pubblicato su l’Unità del 16 settembre col titolo Denunciare i provocatori di manifestazioni inconsulte, rivelava una realtà ancora fuori controllo:

“A questa CdL risulta che da qualche elemento non ancora identificato vengono promossi qua e là scioperi assolutamente inconsulti. Mentre si richiama l’attenzione delle masse operaie e in modo particolare delle commissioni interne sull’errore gravissimo di eccedere in queste manifestazioni, si dichiara senz’altro che non saranno riconosciuti i movimenti e le agitazioni che non abbiano avuto il preventivo benestare da parte della segreteria generale della CdL. Si invitano formalmente i componenti delle C.I. a voler denunciare senza riguardo i promotori di queste agitazioni che – dato il particolare momento che attraversa il Paese – devono essere considerati alla stregua di provocatori e, come tali, duramente colpiti”.[2]

La stessa realtà non ancora “normalizzata” si riscontrava ovunque. In una riunione del dicembre 1945 della Direzione nazionale con i segretari dei comitati direttivi di Milano, Genova e Torino, un po’ tutti i dirigenti locali si lamentarono di tendenze “estremiste”.

Ma nel complesso le frange irrequiete furono contenute, e se necessario colpite da provvedimenti disciplinari interni, o segnalate alla repressione statale, naturalmente come “provocatori”. La linea dura verso i perturbatori (mentre l’amnistia rimetteva in circolazione fascisti e collaborazionisti) partiva dallo stesso Togliatti, allora ministro della Giustizia. Tra gli appelli alla magistratura perché “faccia rispettare la legge e la proprietà” firmati da Togliatti, Giorgio Bocca ne ha riportato integralmente uno durissimo nei confronti dei disoccupati, che in tutta l’Italia scendevano in piazza con comprensibile esasperazione:

“Non sarà sfuggito all’attenzione delle SS. LL. Ill.me che, specie in questi ultimi tempi, si sono verificate in molte province manifestazioni di protesta da parte di disoccupati, culminanti in gravissimi episodi di devastazione e di saccheggio a danno di uffici pubblici nonché di violenze contro i funzionari. Pertanto questo ministero, pienamente convinto della necessità che l’energica azione intrapresa dalla polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico debba essere validamente affiancata e appoggiata dall’autorità giudiziaria, si rivolge alle SS. LL., invitandole a voler impartire ai dipendenti uffici le opportune direttive affinché contro le persone denunciate si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore. Le istruttorie e i relativi giudizi, devono essere espletati con assoluta urgenza onde assicurare una pronta ed esemplare repressione.”[3]

Inutile dire che la magistratura, tutta formatasi sotto il fascismo, non aspettava di meglio. Vedremo anche alla FIAT che le provocazioni poliziesche, sancite poi da magistrati compiacenti, contribuirono a colpire le avanguardie politiche e sindacali. D’altra parte i lavoratori avevano dovuto rinunciare anche alle “epurazioni interne”, che avevano cacciato dalla fabbrica un gran numero di capi accusati di collaborazione col fascismo, ma anche responsabili di atteggiamenti repressivi nei confronti dei lavoratori. Ai primi di novembre del 1945 Togliatti si era già pronunciato nel comitato centrale del PCI a favore del ritorno di Valletta, ma si era recato poi anche al Congresso provinciale di Torino per convincere i comunisti locali a cambiare linea, alludendo chiaramente alla situazione creatasi alla FIAT:

“Un grande stabilimento dell’Italia del nord non è in grado di proseguire il lavoro, in quanto sono stati allontanati ben 1.200 esperti tecnici, e non sotto accuse di atrocità e collaborazionismo, ma semplicemente perché invisi alla massa. Questo è un grave errore, qui esulano motivi politici ed entrano in gioco le vecchie rivalità di carattere sindacale fra tecnici e operai. I lavoratori onesti e coscienti non devono inasprire tale dissidio, ma adoperarsi per un avvicinamento e una fratellanza delle categorie, non dimenticandosi che di provetti tecnici la vita italiana, oggi, ha un grandissimo bisogno.”[4]

Subito dopo Emilio Sereni rivolse un appello, pubblicato sull’Unità del 1° dicembre 1945, ai “tecnici” della FIAT, per rassicurarli che i comunisti volevano “vederli ritornare, richiamare al lavoro come fratelli del lavoro”, non esclusi quelli che “ieri, nell’atmosfera di oppressione creata dal fascismo, hanno lavorato per i padroni”. Ma quelli che venivano chiamati “tecnici” erano invece capi, che avevano avuto gravi responsabilità politiche in molti momenti, ed erano per questo odiati dai lavoratori.

Non c’è dubbio che la linea di collaborazione di classe passò per l’inesperienza delle nuove leve comuniste, e l’assenza di un’alternativa alla linea nazionale, che era avallata soprattutto dal prestigio di Togliatti, il quale non mancava mai di ricordare che veniva dall’URSS ed era l’interprete delle indicazioni del grande “partito fratello” e di Stalin.

Un dirigente del PCI di grande peso, Giorgio Amendola, in una relazione al Convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 ha ricostruito con brutale franchezza quel processo, che trasformò una grande forza comunista e antagonista nel principale baluardo dell’interesse nazionale:

“Nelle giornate insurrezionali i padroni, gli industriali collaborazionisti, e anche molti altri che avevano colpe minori sulla coscienza, avevano abbandonato i loro posti. Gli operai, i tecnici, gli impiegati, raccolti intorno ai Comitati di Liberazione Nazionale di azienda, avevano assunto la direzione degli stabilimenti, non per instaurare un regime di classe con l’eliminazione dei proprietari, ma per assicurarne la gestione nell’interesse nazionale. […] La diserzione dei padroni poneva alla classe operaia il compito di dirigere la ripresa produttiva, in una tragica situazione d’emergenza, e non per soddisfare solo i propri interessi di classe, ma per rispondere alle esigenze generali della Nazione”.[5]

La parola Nazione è scritta con la maiuscola.. Nel 1962 i quadri del PCI erano ormai quasi tutti assimilati, e accettavano questo linguaggio tipico della socialdemocrazia, ma non era stato facile fare accettare quella linea a tutti nel 1945. Alcuni si domandavano perché i “padroni collaborazionisti” dovessero tornare a dirigere la fabbriche, mentre l’epurazione colpiva solo i pesci piccoli.

Ma, nel complesso, i meccanismi di controllo nel partito riuscirono a contenere il dissenso. Una delle tecniche usate era quella di “farsi condizionare” dalle componenti non comuniste, anche se del tutto insignificanti dal punto di vista numerico. Così, il 14 dicembre 1945, il segretario della federazione del PCI di Torino convocò una riunione dei rappresentanti della maggiori fabbriche cittadine, con l’obiettivo di fare dimettere il Consiglio di Gestione di Mirafiori, in cui sono stati eletti sette comunisti su sette:

“Le difficoltà verranno quando dovremo combattere la concorrenza per l’apertura dei mercati. […] Le difficoltà che ci saranno non dovranno essere accollate tutte a noi, perciò occorre che nel CDG ci siano tutti i partiti. […] Siamo molto interessati a farli partecipare anche se loro non vogliono, poiché voi capite che se abbiamo dei CDG interamente nelle nostre mani di fronte alle difficoltà gravissime dovremo prendere serie misure che la concorrenza ci imporrà. […] Se abbiamo nei CDG 7 comunisti e 7 rappresentanti dei datori di lavoro, durante la campagna elettorale vi sarà interesse a dimostrare che non siamo capaci”.[6]

Bisognava dunque rifare le elezioni, in modo che nel CDG “ci siano 2 comunisti, 2 socialisti, 1 PDA [Partito d’Azione], 1 DC, 1 apolitico”. E così si fece. Non fu un caso unico. Anche nella CGIL, non solo prima, ma anche dopo la scissione del 1948, fu sempre assicurata negli organi dirigenti una sovrarappresentanza di altre componenti: ancora negli anni Sessanta c’erano “rappresentanti” repubblicani, socialdemocratici, cristiano sociali, che non rappresentavano proprio nulla (e a volte erano militanti del PCI che si fingevano esponenti di quelle correnti), ma permettevano di dire: faremmo ben altro, ma non siamo soli, dobbiamo tenere conto di chi non è comunista…

Un bilancio delle conquiste operaie durante la partecipazione al governo

L’unico vero successo di quegli anni fu l’introduzione della scala mobile per l’adeguamento automatico, anche se parziale, dei salari al costo della vita. Parziale soprattutto perché il meccanismo previsto, anche nelle successive modificazioni, era sempre viziato dal carattere artificioso e menzognero delle rilevazioni dell’ISTAT, effettuate da vigili urbani che rilevavano il costo della vita nei mercati più popolari, e basate su un paniere convenzionale non corrispondente agli effettivi consumi più diffusi (esempio tipico, che resterà fino alla cancellazione di questo prezioso strumento salariale, la rilevazione del consumo di combustibile era ancorata alla “fascina di legna” e non al gas di città o alla bombola, mentre quella del tabacco era basata sulle sigarette “Nazionali” il cui prezzo rimase sempre bassissimo ma che erano praticamente introvabili).

L’accordo sulla scala mobile aveva lo scopo dichiarato di bloccare le agitazioni salariali. Per questo, come scrisse più tardi il massimo specialista della CGIL in materia, E. Gianbarba, “la richiesta fu accolta senza eccessive opposizioni da parte della Confindustria. Fu il prezzo che le classi padronali si rassegnarono a pagare per impedire che il processo inflazionistico agisse come acceleratore del movimento rivendicativo dei lavoratori, che si sviluppava in quel periodo con un’ampiezza senza precedenti” [7]

In effetti la prima contropartita fu la tregua salariale, concordata inizialmente per un breve periodo e poi regolarmente prorogata, e l’accettazione della richiesta confindustriale di un rigido sistema centralizzato nella definizione dei contratti di lavoro, che escludeva ogni contrattazione articolata, affidando la determinazione dei salari esclusivamente a trattative interconfederali (accordi del 6 dicembre 1945 e del 25 maggio 1946).

Inoltre ebbe come seconda contropartita la fine del blocco dei licenziamenti, ottenuto sull’onda della preponderanza operaia nell’insurrezione del 25 aprile, e in un contesto in cui la maggior parte del padronato, che aveva collaborato fino all’ultimo con la repubblica di Salò e i nazisti, si era rifugiato in Svizzera, nonostante le assicurazioni delle autorità militari occupanti.

La fine del blocco dei licenziamenti fu decretata attraverso numerosi accordi, con motivazioni scandalose, ma disattesi in gran parte, visto che dovettero essere frequentemente rifatti. Il primo fu stipulato già il 27 settembre 1945, e prevedeva che si potessero licenziare “i lavoratori che hanno altri cespiti o sufficienti risorse personali o familiari” e i “lavoratori assunti dopo il 30 giugno 1943”, evidentemente nel quadro degli sforzi per intensificare la produzione bellica. La CdL di Milano peraltro si affannava nel suo “Bollettino” ad assicurare che “non si tratta di licenziamenti, si tratta di rimandare alla loro categoria d’origine dei lavoratori affinché possano contribuire all’opera di ricostruzione. […] Vi sono case, ponti, officine da ricostruire, e non si trovano i muratori. I lavoratori edili italiani devono uscire dagli stabilimenti per riprendere il loro antico e nobile mestiere”.[8]

Questo primo accordo, oltre che parziale, era rimasto largamente inapplicato per la resistenza operaia, ma il 18 gennaio 1946 fu siglato un accordo generalizzato, che fu presentato dallo stesso Di Vittorio come un successo perché scaglionava in quote mensili i licenziamenti (5% in febbraio, 4% nella prima metà di marzo e altrettanti nella seconda metà). I licenziati avrebbero avuto per due mesi (!) un’indennità pari al 66% del salario, e ottenevano intanto tante promesse su futuri sbocchi occupazionali, attraverso lavori pubblici e riconversioni produttive. Ma, anche in seguito a violente proteste degli operai genovesi e della stessa CdL di Milano, l’accordo fu applicato solo in situazioni marginali. Dove i rapporti di forza (e le necessità produttive) lo consentivano, come alla FIAT, l’occupazione aumentò ancora nei due anni dopo la fine della guerra.

La rottura dell’unità sindacale

La rottura non fu causata – come si ripete spesso – dallo sciopero spontaneo di protesta per l’attentato a Togliatti (tutti sapevano che la CGIL lo aveva proclamato solo dopo che era dilagato, proprio per poterlo fermare), ma era nell’aria, per il clima politico generale italiano e mondiale (la “guerra fredda”), il consolidato collateralismo delle correnti DC e socialdemocratica, il riflusso generale delle lotte dopo una serie di sconfitte (licenziamenti, ecc.).

Un campanello d’allarme sulle intenzioni delle forze più conservatrici era venuto dall’eccidio di Portella della Ginestra, che aveva preceduto di due settimane la cacciata di PCI e PSI dal governo, e che rimase sempre impunito (incredibilmente oggi alcuni esponenti storici del PCI-DS come Emanuele Macaluso hanno riabilitato perfino l’allora ministro degli Interni Mario Scelba!).

L’esclusione dei due partiti operai dal governo fu accolta senza la minima reazione, senza neppure un’ora di sciopero. Il comunicato fatto dal PCI non diceva neppure “ahi”, e attribuiva incredibilmente alle pressioni degli Stati Uniti (e in particolare al viaggio di De Gasperi negli USA) quello che andava attribuito semplicemente al fatto che il padronato, dopo essersi fatto tirare fuori le castagne dal fuoco nel periodo in cui l’apparato statale era distrutto e la classe operaia era galvanizzata dalla caduta del fascismo, non aveva più bisogno del PCI.  E la rottura veniva attribuita anche a “un errore da correggere”, per ricostituire l’unità delle forze democratiche e antifasciste.

Ma la classe operaia non era ancora totalmente piegata. Lo dimostrarono, nel novembre 1947, i moti di Milano che, dopo la cacciata del prefetto Ettore Troilo, ex partigiano nominato dal CLN, misero in gravi difficoltà le autorità: 5.000 partigiani e decine di migliaia di operai occuparono la prefettura e altri edifici pubblici, nonché telefoni e radio.

Il 14 luglio 1948

L’episodio, che fu presentato e viene presentato ancora oggi come un tentativo insurrezionale, e che appunto offrì il pretesto per la scissione sindacale, fu la risposta spontanea e immediata di massa all’attentato a Togliatti. Lo sciopero dilagò senza nessuna direzione centrale, ed ebbe solo in alcune località caratteristiche di estrema radicalità (dall’occupazione delle centrale telefonica dell’Amiata che collegava il nord al sud dell’Italia, alla occupazione di commissariati e stazioni di carabinieri in diverse cittadine dell’Italia meridionale. Un testimone oculare, Livio Maitan, che si trovava sul palco della grande manifestazione romana in quanto dirigente di una piccola organizzazione che aveva partecipato al fronte delle sinistre nelle elezioni del 18 aprile, riferisce nelle sue memorie, in corso di stampa, che l’intenzione dei dirigenti del PCI, e in particolare di Luigi Longo, poi tradotta in pratica, era di evitare a ogni costo che i manifestanti si avviassero verso il centro e fossero tentati da obiettivi appetitosi come il Viminale e Palazzo Chigi; meglio farli incamminare verso il più periferico Policlinico, dove Togliatti era ricoverato. “«Poi saranno stanchi», era uno dei commenti che potei ascoltare”[9].

Le difficoltà della CGIL dopo la scissione

Negli anni successivi si accrescono le difficoltà della CGIL, sia per scioperi politici in sé giustissimi che aveva proclamato ovviamente da sola (magari contro la visita in Italia di un generale statunitense, la “legge truffa, ecc.), che tuttavia esponevano al licenziamento i lavoratori che partecipavano, sia per il ritardo nell’affrontare nuovi problemi, in particolare per la rigidità di fronte alla contrattazione articolata su cui stavano spingendosi soprattutto alcuni settori dei metalmeccanici della FIM CISL.

Nel congresso tenuto a Genova nel 1949 la CGIL lanciava un “piano del lavoro” che viene celebrato ancora oggi da gran parte della sinistra, ma che a detta di Corrado Perna, oggi scrittore ed editore, ma per anni dirigente di primo piano dei chimici della CGIL, “non ebbe alcun seguito”.. Perna ne sottolinea le motivazioni, definendolo “un tentativo di aggregare attorno ad una proposta di politica economica finalizzata alla ricostruzione e alla occupazione le masse lavoratrici e, più in generale, l’insieme della nazione”.. Ma, appunto, non se ne fece nulla, a mio parere proprio per il carattere velleitario del progetto, basato sull’illusione che la classe operaia potesse avere una “funzione condizionatrice dello Stato verso i monopoli”, sottraendo ad essi, come disse nel 1955 Di Vittorio, “la possibilità di concentrare gli investimenti nelle direzioni propizie ai loro profitti”. Un po’ come pretendere di ottenere che le tigri seguano una dieta vegetariana!

Lo shok delle elezioni FIAT del 1955

La classe operaia FIAT, profondamente colpita dalla ricostruzione del potere padronale in fabbrica a cui aveva collaborato attivamente la direzione del PCI, e in particolare dai licenziamenti (preceduti dal trasferimento dalle officine di produzione ai “reparti confino”) di quelle “avanguardie” che non solo avevano salvato la fabbrica dalle distruzioni predisposte dai nazisti, ma avevano fatto da garanti al “ritorno alla normalità”, aveva comunque resistito a tutte le pressioni materiali e psicologiche, rifiutando di abbandonare la FIOM-CGIL per molti anni. Era tuttavia disorientata per la perdita rapida di tutte le conquiste fatte, e priva di indicazioni dall’interno dei reparti, per l’allontanamento di tutti gli elementi più coscienti.

Così, nelle elezioni del 29 marzo 1955 (preparate da controlli polizieschi e da gravi intimidazioni nei confronti di chi firmava per presentare la lista di classe o accettava di fare lo scrutatore) la FIOM scende dal 63% al 36%, mentre sale al 41% la FIM-CISL (che nel 1958 verrà sconfessata dalla CISL nazionale e diverrà poi il SIDA, il “sindacato giallo” di Arrighi), e avanza anche la UIL, ugualmente “collaborazionista”. Sembra la fine di un epoca, e la sconfitta definitiva dei protagonisti di una grande stagione di lotte. Bisognerà aspettare molti anni per vedere emergere una nuova generazione, certo meno preparata politicamente, ma anche più difficilmente controllabile.

La sconfitta del 1955, tuttavia, ebbe l’effetto di stimolare una drammatica discussione in un direttivo nazionale della CGIL tenutosi dal 26 al 28 aprile (meno di un mese dopo le elezioni della Commissione interna FIAT) e aperto da una relazione sinceramente autocritica di Giuseppe Di Vittorio (ripubblicata nel 1977 dal n. 49 della rivista monografica della CGIL “Proposte”).

Il grande dirigente sindacale liberava subito il campo dai tentativi di attribuire la responsabilità della sconfitta soltanto al dispotismo padronale e agli scissionisti, al ricatto delle commesse americane subordinate alla liquidazione o emarginazione di comunisti. Tutto questo naturalmente c’era, ma Di Vittorio osservava che la CGIL “non può far dipendere la sua efficienza, la sua forza, le sue possibilità d’azione, dalla buona volontà del padronato”.[10]

“È certo che, ogni volta che è possibile, il padronato tende a colpire, con tutte le sue armi, leali e sleali, legali e illegali, ogni organizzazione che tende ad intaccare i profitti del capitale per migliorare le condizioni dei lavoratori. Dobbiamo perciò attenderci sempre i colpi della reazione padronale. Una grande organizzazione come la CGIL, dunque, deve essere sempre in grado di lottare, di manovrare, di muoversi per impedire che i piani del padronato contro i lavoratori si realizzino. Diciamolo francamente: non ci siamo riusciti”.[11]

Un linguaggio oggi dimenticato, e da decenni. Non a caso questo testo è stato ripubblicato proprio nel 1977, in un momento in cui il sindacato cominciava a conoscere nuove gravi difficoltà (e gli interventi di Pugno e Foa sono pieni di accenni ai nuovi problemi di rapporto con le masse). Di Vittorio si domandava come era stato “possibile al grande padronato giungere alle forme estreme di dispotismo” di cui aveva parlato.

“Dobbiamo dire chiaramente ai lavoratori, che anche per i nostri errori il padronato ha potuto portare molto avanti la sua politica di terrorismo e di coazione. Dobbiamo dare la prova ai lavoratori che la CGIL ha il coraggio di guardare in faccia la realtà, di esaminare la propria azione, di scoprire e di denunciare apertamente i propri errori e di fare appello agli stessi lavoratori perché ci aiutino con il loro consiglio, con le loro esperienze, a superare questi errori, queste difficoltà, queste deficienze, e quindi a trovare assieme la strada che ci deve permettere di andare avanti”.[12]

Di Vittorio precisava che non si trattava “soltanto di gravi difetti nel lavoro quotidiano, di semplici lacune e insufficienze in questo lavoro”, che però indubbiamente esistevano. “Vi sono anche errori di linea, errori di politica sindacale”, anche se non sono quelli indicati dagli avversari. In particolare Di Vittorio sosteneva che la CGIL non aveva logorato inutilmente le sue forze, o “chiesto sacrifici superiori a quelli che potevano essere consentiti nella situazione data”. Negava anche che si fossero fatti troppi scioperi “politici”.[13]

In realtà, se gli scioperi politici effettivamente non erano stati moltissimi, avevano avuto la conseguenza inevitabile sia di approfondire il solco con gli stessi lavoratori aderenti alle altre organizzazioni, sia di offrire facili pretesti per i licenziamenti. Non si discute, abbiamo detto, la giustezza degli obiettivi, ma l’opportunità di mobilitazioni così fortemente caratterizzate, mentre non si riusciva a organizzare la lotta in difesa della condizione operaia colpita su tutti piani.

Gli errori di politica sindacale identificati in quella relazione erano soprattutto sul terreno dell’analisi dei processi in corso, e dei rapporti con le masse:

“Il primo errore di politica sindacale che abbiamo commesso, a mio giudizio, è quello di non aver tenuto sufficientemente conto delle profonde modifiche che si sono prodotte negli ultimi anni e si vanno producendo, specialmente nelle grandi fabbriche, per quanto concerne i metodi produttivi, la struttura delle retribuzioni e, soprattutto, i metodi assolutamente nuovi, di carattere scientifico, che il padronato ha applicato e applica per garantirsi un controllo più diretto e capillare sui lavoratori, presi individualmente, in seno alla fabbrica e fuori dell’azienda. Dobbiamo convenire che non conosciamo a fondo le condizioni reali dei lavoratori nella nuova situazione, che non abbiamo studiato il carattere delle modifiche che sono state operate in molte fabbriche, e le loro conseguenze pratiche”.[14]

Da questo discendevano “le impostazioni schematiche e generiche” che non tenevano conto “delle profonde differenze esistenti da azienda ad azienda e da settore a settore”. Qui c’era il centro dell’autocritica:

“Abbiamo preteso di andare avanti sulla base di schemi generali entro i quali pensavamo di poter comprendere tutte le questioni particolari. [€5] Di questo errore di fondo siamo responsabili prima di tutto noi del centro confederale. Non abbiamo saputo cogliere le particolarità della situazione, non abbiamo saputo cogliere le rivendicazioni più sentite, per condurre in base ad esse, lotte concrete, azienda per azienda, sia pur inquadrandole in una linea di carattere generale che legasse il tutto”.[15]

Di Vittorio osservava poi che la CGIL non aveva saputo comprendere che “l’azione padronale contro i lavoratori non è fatta solo di terrorismo, di dispotismo, di brutalità e di violenza”, ma è spesso accompagnata, soprattutto nelle grandi fabbriche, “da una azione paternalistica molto differenziata e capillare”:

“I grandi complessi monopolistici riescono a dare premi, sussidi straordinari in caso di malattia dei familiari dei lavoratori; ad accordare prestiti in caso di parto, di matrimonio e in altri casi; ad organizzare spacci più economici per l’acquisto di generi alimentari, di tessuti; a istituire colonie per bambini; a costruire case per collegare strettamente l’occupazione all’abitazione per i lavoratori, per cui alla minaccia di licenziamento si accompagna automaticamente la minaccia dello sfratto”.[16]

Non bastava denunciare queste “elargizioni” come forme di coercizione indiretta, ma chiarire che “questi vantaggi – a volte considerevoli – non sono in nessun modo benefiche concessioni dei padroni dei grandi monopoli, ma costituiscono un preciso diritto dei lavoratori”. Non era mancata solo la propaganda, ma “un’azione sindacale differenziata, tendente a trasformare tutto ciò che vuole apparire una concessione propagandistica in un diritto che spetta al lavoratore”. Infatti, “se l’azienda è in grado di concedere dei miglioramenti, a qualsiasi titolo e sotto qualsiasi forma, significa che riesce a realizzare alti profitti”. Quindi, accanto alle rivendicazioni salariali, rivendicare anche la colonia per i bambini, la casa, il sussidio straordinario, il prestito, per trasformare quello che assume l’aspetto di una concessione paternalistica in un diritto sacrosanto. Si coglieva poi un altro grave limite della CGIL:

“Dobbiamo studiare, d’altra parte, i nuovi metodi introdotti in alcune fabbriche, in legame con la ‘produttività’ come viene concepita dagli americani. Di questi esperimenti noi non abbiamo sufficientemente discusso. […] Non solo non siamo riusciti a scatenare un movimento di opposizione contro questi metodi, e quindi ad elaborare una piattaforma di rivendicazioni che si potesse opporre positivamente ad essi, ma non ci siamo preoccupati di raccogliere notizie, dati, informazioni, segnalazioni. Queste sono deficienze gravi. Quando non si conoscono le situazioni reali, non si possono avere che delle impostazioni generiche, schematiche, che non convincono nessuno”.[17]

Dopo avere ribadito, a scanso di equivoci, che la responsabilità di questa “mancanza di conoscenze precise e documentate”, anche sui nuovi metodi delle human relations, ricadeva in primo luogo sul centro confederale, Di Vittorio accennava una assai più circoscritta autocritica a proposito della parola d’ordine del “controllo democratico sui monopoli”, limitandosi a “riconoscere che, in molti casi, abbiamo condotto la lotta per questo obiettivo senza alcun legame, o con scarsi legami, con le rivendicazioni particolari dei lavoratori occupati in questo o quel settore dominato dal monopolio”.[18] In realtà questa parola d’ordine, che si riallacciava al “controllo sindacale” proposto da Buozzi e D’Aragona in accordo con Giolitti nel 1920, era di fatto impraticabile, dato che già allora i “monopoli” (che come la FIAT, erano spesso anche multinazionali), sfuggivano ad ogni “controllo democratico” e potevano essere colpiti soltanto da lotte basate sugli interessi concreti della maggioranza dei lavoratori, come accadrà quando inizierà il nuovo ciclo di lotte.

La riflessione autocritica investiva poi il “diaframma” che si era creato “fra i nostri attivisti di base e le masse, fra queste e le direzioni dei sindacati”. Dopo un elogio sincero agli “eroi oscuri del nostro movimento”, che hanno accettato “con slancio, senza esitazioni, di rischiare il licenziamento, di subirlo, soffrendo la miseria e la fame pur di non piegarsi al padrone”, Di Vittorio aggiungeva:

“Una organizzazione sindacale come la nostra non può accontentarsi di essere in contatto solo con lo strato attivo della classe operaia. Il sindacato, per adempiere ai suoi compiti elementari, ha il dovere di organizzare e di portare avanti la grande massa dei lavoratori, compresi quelli che non hanno ancora una coscienza di classe formata. […] Abbiamo posto più volte l’esigenza di una democratizzazione profonda della vita del sindacato: non prendere decisioni dall’alto, fare numerose assemblee nelle quali non parlino solo i dirigenti, ma soprattutto i lavoratori, anche quando potrebbero dire cose non del tutto gradite ai dirigenti. […] Affermiamo dalla tribuna del Comitato direttivo che non ci sentiamo, non ci sentiremo mai staccati dalle migliaia di lavoratori che, subendo la violenza padronale, in contrasto con i loro interessi e con la loro volontà, hanno votato contro la CGIL”.[19]

Quel momento cruciale di svolta, che non risolveva tutti i problemi, ma avviava una ricerca che metteva in movimento forze nuove nel sindacato, e apriva una “lotta fra due linee”, per usare un’espressione di Vittorio Foa, fu merito della capacità di Di Vittorio di affrontare realisticamente il trauma, e soprattutto di ascoltare le voci che auspicavano il rinnovamento (gran parte della CGIL di Torino, la FIOM di Milano e di molte altre province, l’Ufficio studi diretto da Trentin, la Federbraccianti, ecc.). Abbiamo riportato stralci così ampi dalla relazione di Di Vittorio, sia per l’efficacia con cui egli analizza alcuni dei limiti del sindacato, sia per sottolineare il metodo, inconsueto allora e ancor più oggi, nel sindacato ma anche nei partiti della sinistra, di assumersi la principale responsabilità degli errori, anziché scaricare l’autocritica sulle spalle dei quadri intermedi e della base, incapaci di capire e quindi applicare una linea sempre giusta.

Ricordando quel drammatico direttivo, Foa ha tracciato un quadro efficace del grande dirigente:

“Di Vittorio era un uomo affascinante, di una capacità di suggestione enorme; era un bracciante pugliese che aveva fatto la seconda elementare e che poi aveva studiato per conto suo. Era un capo-popolo, cioè aveva una specie di rapporto carismatico con la gente, e chi ha lavorato con lui ha subìto la sua suggestione in modo fortissimo”.[20]

Secondo Foa, per la sua formazione e la sua esperienza diretta, “Di Vittorio non capiva la fabbrica, non conosceva l’industria. La sentiva, ma non la conosceva nei suoi termini precisi”. Per questo quei dirigenti che premevano “per il ritorno alla fabbrica, ai problemi operai”, temevano che nella relazione non ci fosse l’autocritica necessaria e un segnale di svolta. Invece ci fu, ed è una testimonianza del fiuto politico del grande dirigente sindacale.

Certo molti degli errori, delle incoerenze, delle ambiguità, erano una conseguenza di scelte del passato, di una contraddizione profonda dovuta alla linea del PCI dalla “Svolta di Salerno” in poi, che aveva fatto disperdere molte energie in nome della “strategia dei due tempi”, cioè della collaborazione di classe, dell’accettazione della ricostruzione dello Stato borghese, in tutti i paesi in cui la spartizione del mondo in aree di influenza prevedeva il mantenimento dell’economia capitalista, con il condimento di una fumosa “democrazia progressiva”.. Su questo Di Vittorio non seppe o non volle aprire la riflessione autocritica.

Ma la sua scelta del Comitato direttivo di aprile del 1955 permise, tra l’altro, di ricucire i rapporti con i settori classisti della CISL, che avevano guadagnato spazi affrontando problemi reali sottovalutati dalla CGIL: negli anni successivi sarà possibile ricostruire momenti di unità d’azione nelle lotte.

Di Vittorio e i “fatti di Ungheria” del 1956

Di Vittorio punterà d’altra parte a ricostruire l’autonomia della CGIL su vari terreni. Anche in questo quadro va vista la sua ferma critica dell’intervento sovietico in Ungheria nel novembre 1956, che si attirò le ire di Togliatti, ma che, oltre ad essere sacrosanta, preservava l’unità della CGIL messa in pericolo dalle prime avvisaglie di un possibile centro-sinistra (in particolare dopo l’incontro di Pralognan tra Nenni e Saragat).

Molti militanti del PCI pensarono a Di Vittorio come una possibile alternativa a Togliatti, a cui rimproveravano i colpevoli silenzi sui crimini dello stalinismo rivelati (anche se parzialmente e con metodo discutibile) dal “Rapporto segreto_94 di Chrusciov al XX Congresso del PCUS. In ogni caso, prima della sua morte improvvisa, avvenuta al termine di una riunione di quadri a Lecce il 3 novembre 1957, Di Vittorio aveva proposto e ottenuto che l’VIII congresso del PCI approvasse la fine della concezione del sindacato come “cinghia di trasmissione” del partito. Anche questo spiega l’eccezionale partecipazione di massa ai funerali, tenutisi a Roma, in un clima di grande commozione.

I contratti del 1959

Il rilancio dell’attività sindacale negli anni Sessanta ha come premessa la ripresa economica che si delinea nel corso e soprattutto alla fine del decennio precedente, ma che è caratterizzata da un grave ritardo nell’adeguamento dei salari, che sono al limite della sussistenza. Tra il 1948 e il 1955 la produzione industriale è aumentata del 95%, mentre la disoccupazione è rimasta ferma al livello di due milioni di unità: la ragione è che chi lavora è costretto a orari stressanti, dovuti al ricorso sistematico agli straordinari. I profitti dichiarati sono aumentati dell’86% tra il 1950 e il 1955, mentre i salari reali (cioè a parità del potere d’acquisto della moneta) sono aumentati solo del 6% tra il 1948 e il 1955. La denuncia viene dalla CGIL, ma anche dalle ACLI, che assumono un ruolo più critico (e meno collaterale alla Chiesa) rispetto al passato, e denunciano le divisioni sindacali come causa principale della scarsissima forza contrattuale, attribuendone la responsabilità principale agli accordi separati al ribasso firmati da CISL e UIL.

Pesano anche le grandi correnti migratorie che portano soprattutto a Torino e Milano masse ingenti di lavoratori costretti ad abbandonare le campagne, prevalentemente ma non solo meridionali, e che hanno grossi problemi di adattamento nelle grandi città del nord, dove vivono in condizioni di alloggio orribili, e sono guardati con sospetto dalle precedenti generazioni operaie, quasi come i settori “leghisti” guardano oggi i migranti. Vivono separati tra loro, senza le mogli (e questo determinerà un aumento pauroso di una tristissima prostituzione, spesso alimentata da donne provenienti dalle stesse zone), e stentano a trovare collegamenti con l’associazionismo di sinistra e con le stesse parrocchie. Bisognerà arrivare al 1968-1969 perché l’emarginazione e le umiliazioni subite li trasformino in una componente essenziale dell’ondata di radicalizzazione e di vera e propria rivolta operaia.

Intanto si delineano i primi modesti fermenti unitari tra i metalmeccanici, prima a Brescia, dove si tenterà il primo sciopero unitario tra FIM e FIOM, seguito da una ristretta minoranza di lavoratori, ma che getta le basi di un’intesa. La stessa esperienza si ripeterà poi a Milano, mentre a Torino si consumerà la rottura della CISL con la FIM torinese: il segretario generale della CISL nel 1958 dichiara che non avrebbe presentato candidati per l’elezione della Commissione interna alla FIAT se l’azienda non avesse garantito concretamente la libertà e la segretezza del voto.

Il risultato momentaneamente è deludente: su 117 membri CISL della Commissione interna oltre 100 lasciano la loro organizzazione e costituiscono un vero e proprio sindacato giallo, che assumerà dapprima il nome di Liberi Lavoratori Democratici, e diventerà poi il SIDA, Sindacato Italiano dell’Automobile, (oggi ribattezzato FISMIC). Nelle elezioni del marzo, la FIM scende da 28.000 a 7.000 voti, mentre gli iscritti in tutta la provincia si riducono a poco più di mille. Ma è la premessa della ricostituzione dell’unità, almeno a livello di metalmeccanici.

Naturalmente gli ostacoli che rimangono non sono pochi. In primo luogo derivano dalla diversa collocazione rispetto al governo. Quando Fanfani nel 1958 costituisce il primo governo DC-PSDI “di aspirazione al centro-sinistra”, Giulio Pastore entra a farne parte come ministro, lasciando la segreteria della CISL a Bruno Storti. D’altra parte Pastore, se aveva condotto l’attacco alla scandalosa collusione con l’azienda dei membri CISL della commissione interna FIAT, aveva continuato ad usare, ad esempio nel congresso della CISL del 1959, toni pesanti contro la CGIL, per le sue scelte antigovernative. Anche se ammetteva che il governo “per la sua formula, è lontano, moltissimo lontano, dalle simpatie e dalle aspettative dei lavoratori”, e che il padronato  con le sue interferenze e pratiche antisindacali mirava “ad alterare e corrompere la lealtà dei lavoratori verso il loro sindacato”, sosteneva che “quando diciamo che il colore distrugge l’unità dei lavoratori e il vero sindacalismo, vediamo nella CGIL appunto un non sindacato”. Qualcosa che fa venire in mente l’atteggiamento attuale di Pezzotta contro Cofferati…

D’altra parte la correzione di linea anche da parte della CGIL fu lenta, e comportò il mantenimento del centralismo confederale (e quindi dell’esposizione al ricatto di CISL e UIL) anche nei confronti della lotta di categorie che avevano già avviato processi unitari democratici dal basso, come i metalmeccanici. Così, quando alla fine del 1959 venne rinnovato il loro contratto, a trattare con le controparti furono le confederazioni e non i sindacati di categoria. E i risultati furono deludenti, sia sul terreno salariale, sia e soprattutto sui problemi di potere come il controllo sui cottimi, le qualifiche e l’intervento sui nuovi sistemi di produzione. Forte fu la delusione dei lavoratori. Ma all’orizzonte c’era un avvenimento, tutto politico, che avrebbe rivelato che entravano in scena nuove generazioni operaie non bruciate dalle esperienze precedenti.

Le lotte del luglio ’60, sintomo della radicalizzazione di una nuova generazione

Nel 1960, caduto il monocolore Segni, che aveva preso il posto del governo Fanfani, un altro esponente della sinistra DC a cui apparteneva anche Pastore, tentò con lte appoggio del presidente Gronchi di costituire un governo con l’appoggio esterno indispensabile dei voti fascisti. Anche Gronchi aveva beneficiato di una certa indulgenza della sinistra, grazie alla quale era stato eletto alla presidenza della Repubblica. I voti fascisti erano stati contrattati, offrendo in cambio la possibilità di tenere un congresso del MSI a Genova, forse la città più antifascista d’Italia, e comunque l’unica che si era liberata da sola, costringendo un generale tedesco ad arrendersi a un operaio comunista. I durissimi scontri di piazza videro protagonisti in molte città dei giovanissimi non iscritti alle organizzazioni tradizionali della sinistra, e che per questo fu più difficile frenare. Furono chiamati. i “ragazzi dalle magliette a strisce” (era l’indumento di moda allora tra i giovani proletari), perché nessuno sapeva bene chi fossero.

A Roma ad esempio continuarono a scontrarsi con la polizia nella zona di Porta San Paolo per molte ore dopo che i dirigenti della federazione del PCI avevano data per conclusa la manifestazione, invitando (inascoltati) tutti i militanti a tornare a casa. Molti di quei ragazzi quella stessa sera si riunirono nella sede del PCI di Testaccio e chiesero di aderire alla FGCI, ignorando ovviamente il ruolo frenante che avevano avuto i dirigenti del partito. Anche a Genova c’erano giovanissimi proletari accanto a un nucleo deciso di operai comunisti con esperienze partigiane e decisi a vendicare le sconfitte del periodo precedente. Insieme praticarono forme di lotta estremamente violente: dalle barricate ottenute saldando ai binari i tram, alla cattura di alcuni automezzi della Celere. Quei giovani erano in genere edili o lavoratori dispersi in piccole fabbriche senza organizzazione sindacale, e la loro radicalizzazione sul terreno politico generale avrebbe avuto difficoltà a tradursi in lotta sul posto di lavoro, ma erano un sintomo importante di un mutamento di clima.

La nuova generazione operaia, non meno di quella studentesca, si alimentava anche di simboli e punti di riferimento internazionali: dapprima, anche senza un vero impatto di massa, la rivoluzione algerina, poi quella cubana, che ebbe una fortissima eco e poi, successivamente, quella vietnamita.

In tutti i casi, veniva rivalutata la lotta armata e comunque non parlamentare. La vittoria cubana poi colpiva al cuore l’argomento sempre usato dai riformisti del PCI e del PSI subito dopo la Resistenza per mettere a tacere chi proponeva obiettivi e forme di lotta anticapitalistiche: “non si può, perché altrimenti arriveranno gli americani…”.. Cuba aveva dimostrato che “si poteva”, anche in un paese “così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti”… La simpatia si consolidò nel 1961, quando la giovane rivoluzione piegò l’aggressione dei mercenari a Playa Giròn, e l’anno successivo quando Cuba diede una lezione di dignità alla stessa Unione Sovietica durante la “crisi dei missili”.

La radicalizzazione della FIM CISL

Il progressivo spostamento a sinistra di settori della CISL deve essere  considerato un effetto indiretto della radicalizzazione cattolica, già segnalata per quanto riguarda le ACLI, originariamente fiancheggiatrici della corrente democristiana prima della scissione del 1948, e che poi non a caso, nel 1972, videro alcuni dirigenti significativi, a partire dal presidente Livio Labor, tentare di creare un Movimento Politico dei Lavoratori, per alcuni aspetti collocato alla sinistra del PCI.[21]

Ma il fenomeno era assai più ampio, ovviamente, e si era espresso largamente nel Concilio Vaticano II, che era stato al tempo stesso il riflesso e l’amplificatore di un movimento profondo, manifestatosi con le “comunità di base”, dal Brasile di mons. Helder Camara ai preti operai francesi e alla Toscana dell’Isolotto e di don Milani. Un movimento che non poteva quindi non avere ripercussioni anche sul sindacalismo cattolico, che aprì – soprattutto ma non solo tra i metalmeccanici – le sue porte a giovani intellettuali che si dedicarono a un lavoro di formazione che doveva portare la FIM (assai più aperta su questo terreno della FIOM, in cui il peso dell’apparato del PCI aveva una funzione frenante) ad avere un ruolo di avanguardia. Un sottoprodotto politico del fenomeno fu qualche anno dopo il “Gruppo Gramsci”, nato dalle scuole di formazione della FIM, e che ebbe agli inizi degli anni Settanta un ruolo interessante e positivo soprattutto a Torino e Milano, con la partecipazione di intellettuali di un certo peso come Giovanni Arrighi e Romano Màdera, e di straordinari quadri operai come Tino Tizzoni, operaio dell’Alfa Romeo e dirigente politico complessivo del gruppo. Ma questa è la storia di un periodo successivo, ed esula in parte dal nostro tema. In ogni caso va detto che nell’ondata rivoluzionaria del 1968-1969 e degli anni successivi (qualcuno preferisce definirla “prerivoluzionaria”, anche se una situazione può essere definita “rivoluzionaria” indipendentemente dall’esito finale (che dipende dal fattore soggettivo, in base all’ampiezza e profondità delle forze che si radicalizzano e rifiutano l’ordine esistente), i giovani operai e intellettuali cattolici ebbero un peso che non sempre viene riconosciuto adeguatamente.

Lotte contrattuali del 1962 e l’assalto alla sede UILM a Piazza Statuto[22]

L’altro fattore che fu determinante fu l’entrata in scena di giovani operai – in genere immigrati dal sud e mal adattati al clima esistente – che si definivano “incazzati” e vennero bollati come “provocatori”. Nel 1962 si apriva la lotta per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. La piattaforma varata dai sindacati chiedeva la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore, il prolungamento del periodo di ferie, la riduzione del cottimo e dello straordinario, la possibilità per le organizzazioni sindacali di contrattare tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Sulle azioni di lotta previste pesava la grande incognita costituita dal comportamento dei lavoratori della Fiat i quali, a cominciare dal fallimento dello sciopero indetto nel 1953 contro la “legge truffa”, non avevano più aderito alle iniziative non solo di carattere politico ma anche sindacale.

Ormai da anni agli scioperi indetti dalla FIOM partecipava solo una piccola parte dei lavoratori, quelli più politicizzati e sindacalizzati, ormai del tutto isolati dal resto della classe operaia. Aveva profondamente trasformato l’organigramma produttivo, applicando su vasta scala il modello tayloristico; tale trasformazione aveva consentito l’assunzione di migliaia di operai comuni, provenienti dalla provincia torinese, dal veneto e poi dal meridione, che non possedevano più le caratteristiche politiche e sociali legate alla figura dell’operaio professionale e di mestiere, quello che aveva costituito l’ossatura dell’avanguardia politica e sindacale alla Fiat.

In questo contesto lo sciopero del 6 febbraio 1962 indetto dalla FIOM torinese in tutto il gruppo Fiat per appoggiare una piattaforma rivendicativa che chiedeva le 40 ore settimanali, il sabato festivo, 70 lire di aumento salariale, contrattazione dei tempi e degli organici, rivalutazione delle qualifiche, si rivelava un insuccesso, e così pure lo sciopero nazionale del 13 giugno, indetto alla Fiat solo dalla FIOM e dalla FIM e ostacolato dagli altri due sindacati, UILM e SIDA; solo il 19 giugno si rompeva il ghiaccio, e per la prima volta scioperava un gruppo consistente, che cominciava a crescere e a coinvolgere gli esitanti. Era un avvenimento eccezionale, perché non si trattava più di avanguardie isolate, ma di una “minoranza di massa” composta non solo dal vecchio nucleo operaio che aveva resistito alla repressione, ma da “gruppi di giovani, non collegati in buona parte alle organizzazioni sindacali, riunitisi in forme spontanee tra di loro”[23]. A questo punto, finalmente, le adesioni allo sciopero successivo del 23 giugno furono numerose, circa 60 mila lavoratori, tra i quali alcuni impiegati. Il 4 luglio, vista l’interruzione delle trattative tra Confindustria e sindacati, venivano proclamate una serie di agitazione per i giorni seguenti. Contemporaneamente la Fiat si diceva disposta ad aprire un confronto, per chiudere a livello aziendale la vicenda contrattuale, coi “liberi sindacati”, ovvero UIL, SIDA e CISL, con esclusione della CGIL. La CISL rifiutava, UIL e SIDA vi partecipavano e concludevano un accordo separato. Subito divampava la polemica tra i sindacati, “La Stampa” titolava UIL e SIDA si accordano con la Fiat e invitano gli operai a non scioperare, in fabbrica decine di aderenti ai due sindacati strappavano le tessere con rabbia, per protesta. Lo sciopero del 6 luglio riusciva completamente nei vari stabilimenti Fiat. Spontaneamente alla SPA Stura un corteo di circa seicento operai lasciava la fabbrica e si dirigeva verso Piazza Statuto, collocata al centro della città, dove c’era la sede della UIL, per protestare contro l’accordo appena firmato. Fra i partecipanti alla manifestazione molti erano gli iscritti a quel sindacato, sdegnati da un comportamento che non condividevano. Giunti in piazza si radunavano sotto la sede della UIL, fischiavano e urlavano contro il “contratto bidone” e contro alcuni sindacalisti, tentavano di penetrare all’interno della sede, altri lanciavano pietre contro le finestre. Intanto una folla di curiosi, fatta anche di giovani meridionali che abitavano nelle vie limitrofe, si radunava per assistere allo spettacolo.

Fischi, urla e pernacchie si levavano quando arrivava la polizia, applausi invece per gli operai raccolti sotto la sede della UIL. Nel primo pomeriggio avveniva la prima carica per disperdere i dimostranti e la folla che si era radunata per guardare. Era l’inizio di una serie ripetuta di scontri che si protrassero per tre giorni avendo come epicentro Piazza Statuto. I dimostranti si ritiravano nelle vie laterali, scappavano a piccoli gruppi in direzioni diverse; poi, quando la polizia ritornava al centro della piazza, ricomparivano. A nulla valsero i tentativi fatti dai dirigenti della Camera del lavoro, tra cui Sergio Garavini, o del PCI, come Giancarlo Pajetta giunto appositamente da Roma, per convincere i manifestanti a sciogliersi e a ritirarsi dalle vie adiacenti la piazza. Gli scontri, che erano iniziati il sabato pomeriggio, si protrassero per altri due giorni e cessarono del tutto solo alle due di mattina di martedì 10 luglio. In tre giorni di scontri 1251 persone erano state fermate, 90 erano state arrestate e processate per direttissima, un centinaio denunciate a piede libero, 169 gli agenti feriti.

Comprendere ciò che era accaduto in quei giorni non era facile. Sindacati e partiti di sinistra, dopo un abbozzo di analisi, cedettero facilmente al ricorso a vecchie  categorie da Sant’Uffizio attribuendo la causa di tutto ai “facinorosi”, ai “provocatori”, agli elementi “che nulla avevano a che fare con la classe operaia”, ai “gruppuscoli estremisti” e via di seguito fino a giungere a sostenere che la manifestazione, da un certo punto in poi, era stata alimentata da elementi fascisti. Quanto era accaduto rifletteva la situazione nuova che si era venuta a creare dentro la fabbrica, con la massiccia immissione di nuovi lavoratori dequalificati, e nella città. Una città la cui composizione popolare e di classe risultava profondamente mutata a causa della massiccia immigrazione meridionale che aveva occupato quartieri fatiscenti del centro storico, dove centinaia di famiglie e di giovani meridionali vivevano in condizioni simili a quelle del proletariato londinese raccontate da Engels nel saggio sulla Questione delle abitazioni. Un nuovo proletariato, separato anche linguisticamente da quello tradizionale della città che parlava piemontese anche nelle sue istituzioni sindacali (Camera del lavoro) e partitiche, si accumulava nei quartieri portandosi dietro una rabbia e una tensione incapace di orientarsi e incanalarsi verso le tradizionali forme organizzative del movimento operaio. Va anche detto che l’atteggiamento di sufficienza e di condanna verso questi strati sociali, considerati alla stregua di sottoproletari, selvaggi, incolti, marginali, manifestato dalle organizzazioni sindacali e della sinistra torinese nei confronti di quella rivolta di piazza non facilitava certamente l’incontro e la presa di contatto. Averli etichettati come provocatori fascisti, come elementi facilmente preda dei loro istinti violenti e aggressivi non contribuiva certo a favorire la loro presa di coscienza, così scriveva un comunista torinese, purtroppo una voce isolata[24].

Gli scontri a Milano durante le lotte contrattuali del 1965-1966

Cresceva su vari terreni la spinta a cercare forme diverse da quelle imposte dalla burocrazia riformista: nel 1966 le lotte per il rinnovo dei contratti di lavoro, pur limitate dalla piattaforma moderatissima imposta dai burocrati, si inasprirono, e in molti casi gli attacchi della polizia ai picchetti e ai cortei trovarono una risposta decisa, che diventarono davanti allo stabilimento milanese dell’Alfa Romeo di Portello quasi una guerriglia di strada. Al tempo stesso gli operai guardavano con attenzione alle prime lotte violente e dissacranti degli universitari. Nell’aprile 1966, ad esempio, quando i fascisti (protetti come sempre dalla polizia, anche se il governo era di centro-sinistra), attaccarono l’Università di Roma uccidendo uno studente, Paolo Rossi, e poi ferendo altri tra cui chi scrive, gruppi di robusti lavoratori del gas presidiarono di notte i dintorni l’università con l’obiettivo (realizzato) di “dare una lezione” agli aggressori fascisti.

La lotta per il rinnovo contrattuale del 1966 si era tuttavia conclusa con un risultato misero, ed anzi assai pericoloso, perché gli accordi prevedevano che le lotte aziendali potessero contrattare solo una percentuale irrisoria del salario: in questo modo, pensavano burocrati e padroni, non ci sarà più nessuna lotta aziendale tra un contratto e l’altro, perché non varrà la pena di lottare per tanto poco. Ma avevano fatto i conti senza l’oste, cioè con la crescita politica di molti operai, dentro e fuori le organizzazioni tradizionali.

Verso la fine del 1967 e soprattutto nel 1968 si moltiplicarono le lotte aziendali e a volte di reparto contro il cottimo, contro la nocività e i ritmi di lavoro, riscoprendo forme di lotta dimenticate, che disarticolavano la produzione e scardinavano l’autorità dell’intera gerarchia di fabbrica. L’industria italiana “tirava”, e per fermare le lotte, una parte del padronato accettò di pagare un certo prezzo, tentando di monetizzare il disagio operaio. Così saltarono o vennero aggirate le clausole del contratto che dovevano bloccare la contrattazione aziendale.[25]  La pressione operaia per una controffensiva dopo i risultati deludenti dei contratti del 1966 si manifestò anche spingendo le confederazioni a proclamare per la prima volta uno sciopero generale di 4 ore per la rivalutazione delle pensioni. Lo sciopero, fissato per il 15 dicembre, fu revocato in extremis sotto la pressione della CISL e della UIL, “cinghie di trasmissione” del governo. Qualche sindacato di  categoria della CGIL tra cui quello dell’INPS, tentò di mantenerlo, e la vicenda provocò un lungo strascico di dimissioni ed espulsioni.

Verso il 1968-1969

La radicalizzazione iniziata col luglio 1960 e poi sviluppatasi con le caratteristiche a cui abbiamo accennato, influì soprattutto sulle organizzazioni tradizionali. I primi gruppi extraparlamentari di tendenza maoista o operaista, e quelli bordighisti relativamente rivitalizzatisi avevano troppe rigidità per riuscire a pesare. Un ruolo importante in quegli anni ebbe invece la FGCI, che si spostò sempre più a sinistra, sia per l’evoluzione di quadri della generazione precedente come Luciana Castellina, sia per l’iniziativa dell’area trotskista “entrista” della sezione italiana della IV Internazionale, che nella prima metà degli anni Sessanta ebbe un ruolo dirigente nazionale della “tendenza” di sinistra nel PCI, conquistando una effettiva egemonia in città come Roma, Milano, Torino, Perugia, Catania, Venezia, ecc., dove spesso era trotskista lo stesso segretario provinciale.

Uno dei terreni essenziali scelti per differenziarsi dal partito era quello della solidarietà internazionalista, e delle forme di lotta da usare in essa (ad esempio a Roma i dirigenti del PCI erano furiosi per i tentativi di raggiungere l’ambasciata americana nel corso delle manifestazioni per il Vietnam, che ovviamente provocavano aspri conflitti con la polizia)[26], ma la FGCI si proiettava anche verso le prime lotte operaie. Ciò accadeva perfino a Roma, dove pure la classe operaia era assai ridotta (ma c’era una tradizionale combattività degli edili, e vi fu un importante e prolungata occupazione della fabbrica chimica ICAR-LEO), e più sistematicamente a Torino e soprattutto a Milano, dove Avanguardia Operaia, prima di diventare un gruppo politico, fu lo strumento di intervento della sinistra trotskista della FGCI e dello stesso partito.

La svolta dei sindacati metalmeccanici e chimici nel luglio 1969, con il cambiamento improvviso delle piattaforme, che accoglievano quanto proposto dalle minoranze rivoluzionarie e che  invece era stato respinto appena un mese prima nel Congresso della CGIL di Livorno, non può essere compresa senza tenere conto da un lato delle straordinarie lotte aziendali che rompevano il rigido quadro stabilito dai contratti del 1966, dall’altro di questa convergenza politica tra operai combattivi spesso ancora iscritti ai partiti tradizionali e i giovani militanti rivoluzionari che avevano animato le lotte studentesche del 1968.

Le lotte aziendali rompono il quadro della concertazione

Verso la fine del 1967 e soprattutto nel 1968 si erano infatti moltiplicate le lotte aziendali e a volte di reparto contro il cottimo, contro la nocività e i ritmi di lavoro, riscoprendo forme di lotta dimenticate, che disarticolavano la produzione e scardinavano l’autorità dell’intera gerarchia di fabbrica. L’industria italiana “tirava”, e per fermare le lotte, una parte del padronato accettò di pagare un certo prezzo, tentando di monetizzare il disagio operaio. Così saltarono o vennero aggirate le clausole del contratto che dovevano bloccare la contrattazione aziendale.[27]  La pressione operaia per una controffensiva dopo i risultati deludenti dei contratti del 1966 si manifestò anche spingendo le confederazioni a proclamare per la prima volta uno sciopero generale di 4 ore per la rivalutazione delle pensioni. Lo sciopero, fissato per il 15 dicembre 1968, fu revocato in extremis sotto la pressione della CISL e della UIL, “cinghie di trasmissione” del governo. Qualche sindacato di categoria della CGIL tra cui quello dell’INPS, tentò di mantenerlo, e la vicenda provocò un lungo strascico di dimissioni ed espulsioni.

Intanto in alcune aziende nel corso della preparazione delle lotte erano comparsi organismi nuovi, come i CUB (comitati unitari di base), che affiancavano e aggiravano le vecchie commissioni interne e i sindacati, pur essendo composte in molti casi in prevalenza da iscritti al sindacato “fuori controllo”. Tuttavia questi organismi pagarono presto il prezzo dei conflitti nella nuova sinistra, diventando di fatto “cinghie di trasmissione” o “scuole di comunismo” di questo o quel gruppo. Ad esempio alla Pirelli a una certo punto ci furono, con lo stesso nome, due CUB, uno legato ad Avanguardia Operaia, l’altro a Potere Operaio e agli “spontaneisti”.

Già nel 1968, soprattutto a Torino, per iniziativa di gruppi di operai vicini al PSIUP, compaiono i primi delegati di reparto o di linea, che si diffonderanno negli anni successivi. Il rifiuto di gran parte dei gruppi rivoluzionari di impegnarsi nell’estensione e generalizzazione dell’esperienza in nome del principio antiautoritario “siamo tutti delegati” o di una diffidenza settaria verso un organismo “poco controllabile” lascerà tuttavia maggiore spazio a una successiva manipolazione dei consigli da parte dei vertici burocratici, di cui parleremo successivamente.

.Le lotte del 1968 e la svolta sindacale

Un anno prima della data d’inizio dell’Autunno caldo la lotta contro le “gabbie salariali” che penalizzavano i salari nel sud, raggiunge una straordinaria forza di mobilitazione e spazza via un’altra leggenda diffusa dai riformisti: “dobbiamo moderare le nostre rivendicazioni perché i lavoratori del sud sono arretrati, sono influenzati dalla destra, non lottano…”

Per piegare il padronato ci vorranno in molte province ben 14 giorni interi di sciopero e quindi di decurtazione di un salario già modestissimo; la mancanza di strutture sindacali di fabbrica in quasi tutto il sud rendeva infatti impossibile ogni forma di sciopero articolato o di poche ore, e imponeva il blocco totale della fabbrica dall’esterno per 24 ore con picchetti formati da operai di altre fabbriche, e soprattutto da militanti di gruppi rivoluzionari. Nel corso di quella lotta si gettarono le basi per ricostruire gli organismi sindacali distrutti da una repressione pluridecennale, ed emersero anche nel Mezzogiorno nuove generazioni combattive. Alcuni scioperi nazionali a sostegno della lotta del mezzogiorno cementarono una nuova unità tra nord e sud, facilitata d’altra parte dalla massiccia presenza di lavoratori meridionali nelle fabbriche del nord.

Tuttavia anche nel sud sintomi importanti di una crescita della combattività operaia si erano avuti anche in precedenza in alcune lotte aziendali, in genere come risposta a una provocazione aziendale (è il caso delle OMECA di Reggio Calabria alla fine del 1967, dell’ATI e delle Fucine Meridionali di Bari nell’estate 1968). Dopo l’esperienza galvanizzante della lotta contro le gabbie salariali, si moltiplicarono le lotte di fabbriche anche piccole per ottenere l’elezione della commissione interna, qualche aumento salariale, la mensa. Per piegare la resistenza tenace dei padroni fu necessario in genere il blocco totale dello stabilimento dall’esterno, a volte di due o tre settimane, ovviamente possibile solo ottenendo la solidarietà concreta dei lavoratori di altre fabbriche della zona o dello stesso settore produttivo. In alcuni casi anche al sud vi furono vertenze su piattaforme avanzate: ad esempio al Pignone Sud di Bari, uno stabilimento di oltre 1000 tra operai e impiegati del gruppo ENI, nell’aprile 1969 fu fatto saltare il cottimo con una lotta tenace che strappò anche il diritto di assemblea in fabbrica. Per regolare le prime assemblee, molto caotiche, fu eletta una “presidenza” basata su delegati di reparto revocabili, che di fatto fu uno dei primi Consigli di fabbrica in Italia.

E’ in questo quadro che si colloca la vicenda contrattuale del 1969, che assume una straordinaria importanza per la sincronizzazione del rinnovo dei contratti delle maggiori categorie dell’industria, che anche per le ottuse resistenze del padronato erano stati rinviati fino a coincidere negli stessi mesi del 1969 diventando quel grande avvenimento politico ricordato come l’Autunno caldo. Si mobilitò un numero senza precedenti di lavoratori, proprio grazie alla concretezza delle piattaforme, che avevano al centro consistenti aumenti salariali uguali per tutti, la riduzione d’orario a 40 ore e la parità normativa tra operai e impiegati. Quello che è meno noto è che quelle piattaforme furono il frutto di una battaglia di minoranze consistenti e decise, che provocarono il capovolgimento dell’atteggiamento delle burocrazie sindacali.

Basti pensare che nel VII Congresso della CGIL, che si tenne a Livorno dal 16 al 21 giugno 1969, tutte le proposte che di lì a poco più di un mese sarebbero state raccolte dai principali sindacati di categoria furono respinte o rinviate a tempi futuri. Il segretario generale Agostino Novella aveva ad esempio esplicitamente respinto nella sua relazione “ogni forma astratta di egualitarismo salariale” (cioè gli aumenti uguali per tutti rivendicati dai rivoluzionari), e aveva rinviato le 40 ore a tempi futuri, proponendo per giunta che dovessero “articolarsi secondo le situazioni specifiche” (cioè, in parole povere, dove la forza operaia è troppo grande e i padroni sono disposti a concessioni, va bene, gli altri si arrangino). Ogni eventuale riduzione d’orario soprattutto avrebbe dovuto “anche prendere in alcuni casi forme diverse, strutture diverse”. Il progetto era spezzettare e lasciar disperdere la forza operaia.

Anche Vittorio Foa, che rappresentava allora il PSIUP, e più in generale la “sinistra sindacale”, evitò in quel Congresso di prendere posizione sulla richiesta semplicissima (e per questo mobilitante) degli aumenti uguali per tutti e della riduzione secca e immediata d’orario. Molte voci (dai metalmeccanici di Brescia, dai siderurgici, dai chimici) rivendicavano la riduzione immediata alle 40 ore e anzi a 36 ore per siderurgici, chimici e in genere nei settori con forte nocività ambientale, ma la “Commissione sindacale” del congresso che doveva discutere le piattaforme concluse che le 40 ore settimanali dovevano essere realizzate “anche gradualmente”, eufemismo per dire che dovevano essere introdotte solo gradualmente e lentamente, come nei contratti precedenti (nel 1966 si era ottenuta la riduzione di un’ora in tre anni, mezz’ora nel novembre 1968 e mezz’ora nel maggio 1969, ovviamente con nessun effetto diretto sull’occupazione).[28]

La logica della frammentazione della forza operaia e dello scaglionamento della riduzione d’orario per consentire al padronato di prepararsi al suo riassorbimento, come è noto saltò. Nelle lotte aziendali di cui abbiamo appena parlato, non solo si erano ottenuti importanti successi normativi e salariali (spesso inversamente proporzionali per attenuare le differenze), ma erano emerse nuove direzioni sindacali di fatto in molte aziende importanti, in genere ancora formalmente all’interno dei sindacati confederali, ma contrapposte alla loro linea di collaborazione di classe.

Alla fine di luglio del 1969 una grande assemblea si riunì al Palasport di Torino per concordare l’atteggiamento dei rivoluzionari nei contratti e per regolare altre questioni (ad esempio lì si consumò la rottura definitiva tra il gruppo dirigente della nascente Lotta Continua e Potere Operaio). La quasi totalità degli interventi erano caratterizzati da uno schematismo estremista che escludeva ogni possibilità di un recupero di quelli che venivano definiti gli “obiettivi operai” da parte delle burocrazie sindacali, e dava per liquidato definitivamente il PCI.

Chi proponeva un’analisi più realista fu accolto freddamente e persino fischiato quando diceva che gli “obiettivi operai” che tutti proponevamo non erano veramente “incompatibili con il sindacato”, come si affermava, e che quindi la burocrazia poteva anche farli suoi. D’altra parte a degnarsi di leggere gli organi dei partiti riformisti si potevano cogliere i sintomi di un imminente mutamento, che avvenne già nello stesso fine settimana in cui si riuniva l’assemblea di Torino: le assemblee dei delegati metalmeccanici e chimici raccoglievano la spinta partita dalle avanguardie delle fabbriche più politicizzate. Erano passate appena sei settimane dal Congresso della CGIL e la linea decisa in quell’alto consesso veniva bruscamente cambiata.

I burocrati si erano “convertiti”? Erano stati messi formalmente in minoranza? Nulla di tutto questo. Ma alcuni clamorosi insuccessi dei vertici sindacali nelle assemblee di alcune fabbriche importanti, avevano fatto capire che non avevano più davanti dei gruppetti ideologizzati e staccati dalla classe, ma quadri operai maturi e stanchi dei compromessi. In particolare l’assemblea della Borletti al Cinema Nazionale di Milano (non si era ancora riconquistato il diritto di assemblea in fabbrica) aveva respinto quasi all’unanimità la piattaforma ufficiale del sindacato, votando per i forti aumenti uguali per tutti, le 40 ore subito e la parità completa e immediata operai-impiegati.

I vertici sindacali, pur avendo ampi settori di operai meno politicizzati che li seguivano ancora, e pur non essendo vincolati da quelle assemblee che avevano convocato come “consultive”, capirono che se volevano recuperare il controllo della classe operaia non dovevano lasciar crescere un’opposizione di quel tipo. Così i contratti ebbero finalmente una piattaforma pagante e consistente, e mobilitarono milioni di lavoratori, e per il momento le minoranze rivoluzionarie che avevano proposto quegli obiettivi restarono spiazzate da quella giravolta. Le loro critiche ai vertici non potevano essere comprese dai milioni di lavoratori entrati per la prima volta in lotta e che erano contenti che “il sindacato” proponesse una lotta così concreta, senza sapere come e per merito di chi ci si era arrivati. Il prestigio recuperato consentì poi ai vertici di firmare un accordo di compromesso, che scaglionava parte delle conquiste nell’arco dei tre anni.

 

Lo scontro per controllare i consigli dei delegati

I primi consigli dei delegati veri e antagonisti sorti per iniziativa dei quadri sindacali di base più radicali, furono annegati presto in una marea di consigli promossi dall’alto, e che recuperavano gran parte dei vecchi quadri sindacali. Secondo Pierre Carniti, allora segretario di una FIM CISL che guardava alla CFDT francese, i veri consigli creati “dal basso” non erano nel 1970 più di cento, mentre già ce n’erano 1500 organizzati dalla burocrazia sindacale per prevenire le iniziative incontrollabili. Il processo non fu semplice né lineare: i settori più lungimiranti della burocrazia sindacale dovettero lottare per far accettare la loro tattica all’insieme del sindacato. La CGIL ad esempio si pronunciò a favore dei consigli di fabbrica solo alla fine del 1970, dopo quasi due anni di sperimentazione, portata avanti soprattutto dai dirigenti del settore metalmeccanico e chimico, che avevano anche realizzato interessanti forme di unità organica. L’inquietudine della burocrazia nasceva dal fatto che i primi Consigli autorganizzati avevano un peso grandissimo per l’importanza delle fabbriche in cui si erano sviluppati, e per il grande spazio che in essi avevano delegati non iscritti alle tre confederazioni. Ad esempio alla FIAT Mirafiori di Torino, nell’autunno 1970, su 199 delegati solo 70 erano iscritti ai sindacati (di essi solo 28 aderivano alla FIOM-CGIL).[29]

Inoltre il rinnovamento sindacale si realizzò con una misura alla lunga pagante, ma a breve termine traumatizzante per molti sindacalisti: l’incompatibilità tra cariche sindacali e incarichi politici elettivi o interni ai partiti. Migliaia di quadri comunisti, socialisti e democristiani furono costretti a scegliere (quasi sempre i più vecchi decisero di lasciare il sindacato), e furono sostituiti da giovani emersi nelle lotte.

L’ansia di cambiamenti politici che si era manifestata nelle grandi manifestazioni operaie che scandirono la lotta contrattuale, fu indirizzata verso una serie di “lotte per le riforme” del tutto inconsistenti, che servirono solo a far sprecare energie e ore di sciopero, e a smorzare gli entusiasmi operai.

La nuova sinistra tardò a comprendere quel che accadeva e a recuperare un ruolo analogo a quello che aveva preceduto la definizione delle piattaforme contrattuali, anche per le sue continue lotte fratricide. Delusi dalle lotte per le riforme, la maggior parte dei delegati e degli operai combattivi più vicini alla “nuova sinistra” si impegnarono sul terreno delle lotte aziendali e di reparto, proprio quando c’era più bisogno di una proposta politica complessiva. La preparazione delle piattaforme contrattuali per i rinnovi del 1972 videro la nuova sinistra, che era cresciuta numericamente e si era radicata in parecchie fabbriche, rinunciare rapidamente ai suoi obiettivi e in particolare alla battaglia per ridurre l’orario a 35 ore, che sarebbe stata possibile per la grande forza che ancora aveva la classe operaia e avrebbe imposto nuove assunzioni. Passando dall’estremismo vacuo e parolaio a un eccesso di “realismo” gruppi come Avanguardia Operaia, il Manifesto e la stessa Lotta Continua si adattarono a un ruolo di fiancheggiatori della “sinistra sindacale”. Qualche settore più lucido di essa (ad esempio il segretario milanese della FIM Cisl Sandro Antoniazzi) glielo rimproverò, ma comunque si rinunciò alla lotta per la riduzione d’orario in un momento in cui sarebbe stata vincente e avrebbe determinato condizioni più favorevoli per le lotte future. Ci furono tentativi importanti anche nel gruppo dirigente dei chimici, ma la combinazione tra opportunismo dei vertici confederali e il localismo miope dei “gruppi” fece perdere l’occasione.

Molte “avanguardie” d’altra parte si disinteressarono del tutto ai contratti, ritenendo che l’unico terreno utile era quello settoriale, di fabbrica o anche solo di reparto, in cui la burocrazia pesava meno e il padronato cedeva spesso facilmente. Peccato che lo facesse nella certezza che avrebbe recuperato presto sul terreno politico generale, come avvenne infatti – dopo molti tentativi parziali – con lo scontro emblematico del 1980 alla FIAT.

 

Il sospetto “spontaneismo” della sinistra sindacale

Il ruolo decisivo nel disinnescare la carica politica dell’ondata operaia la ebbero non i vecchi burocrati sindacali democristiani o stalinisti, ma i più giovani esponenti del rinnovamento dei vertici sindacali provenienti dalla sinistra cattolica, dallo stesso PCI e dal PSIUP, ma tutti più facilmente assimilabili a una specie di nuovo anarcosindacalismo. In genere erano iscritti a un partito, ma erano pronti a giurare sull’autonomia del sindacato, e disposti a lasciare le redini sciolte all’estremismo e al localismo delle lotte di reparto, pur di mantenere il controllo delle lotte contrattuali, più direttamente politiche. Erano stati loro ad arginare il movimento dei consigli dei delegati, estendendolo per svuotarlo della sua carica potenzialmente politica, riducendo i Consigli ad ambigua “struttura di base” del sindacato (ambigua sia perché largamente composta da non iscritti, sia perché unitaria mentre i sindacati restavano divisi, ma anche perché ad onta di tutte le decisioni i veri consigli come quello dell’Alfa Romeo o di Mirafiori continuavano a proiettarsi fuori della fabbrica e su un terreno più politico che sindacale).

Sono stati sempre questi nuovi quadri sindacali imbevuti di anarcosindacalismo a pilotare i nuovi quadri di base inesperti verso il terreno della frammentazione e dello scontro locale, lasciando di fatto a loro quello politico generale. Il loro leader principale, Bruno Trentin, ha in diversi casi fatto riferimento all’austromarxismo, e in effetti l’idea di ridurre i consigli a strutture di base del rinnovamento del sindacato e della stessa democrazia borghese evitandone la generalizzazione e la proiezione politica nazionale (cioè il dualismo di potere) era stata formulata da Otto Bauer e Max Adler nel 1918-1919, e soprattutto messa in pratica evitando in Austria come in Germania “il pericolo” di uno sbocco rivoluzionario.[30]

Abbiamo già accennato che l’incomprensione della natura contraddittoria della burocrazia operaia impedì a gran parte della “nuova sinistra” di origine studentesca di pesare nel 1969 come aveva influito nella sua preparazione. Ma le sue concezioni impedirono anche sul terreno studentesco di raccogliere i frutti dell’ondata di lotte precedenti. In Italia non si riuscì a far emergere un movimento politico degli studenti, sia perché a proporlo esplicitamente fummo veramente in pochi, sia per il tenace rifiuto di ogni “delega” che allora e nelle ondate successive impedì ogni unificazione nazionale, sia per un diffusissimo localismo che rifiutava ogni dimensione nazionale, sia per la frammentazione estrema in 4 o 5 grandi “gruppi”, più qualche decina di gruppi intermedi o a dimensione cittadina o regionale.[31]

Inoltre, dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nell’agosto 1968, la maggior parte dei dirigenti studenteschi, anche di origine trotskista o guevarista, approdarono al maoismo più o meno dogmatico o sofisticato, liquidando in blocco Cuba come marionetta dell’URSS, e di riflesso buttando alle ortiche il fronte unico caldeggiato da Guevara a livello internazionale, ed approdando al metodo dell’ingiuria settaria e dell’affermazione delle proprie idee a suon di chiavi inglesi sulle teste dei compagni di altre tendenze. A maggior ragione per alcuni anni apparve inconcepibile ogni proposta di fronte unico rivolto ai partiti tradizionali della sinistra, a cui ci si contrapponeva con frasi reboanti ed evitando di fatto ogni dialogo con la stessa base, mentre si costruivano organismi contrapposti agli stessi Consigli di fabbrica, lasciando questi ultimi nelle mani della burocrazia sindacale che tentava di riconquistarli e subordinarli alla propria strategia. A tanta rigidità nei rapporti interni alla sinistra rivoluzionaria e con quella riformista, corrispose tuttavia presto – a partire dal 1972 – quel “realismo” (in realtà minimalismo) che portò, dopo la rinuncia alla pregiudiziale antisindacale e anticonsigli del periodo ascendente delle lotte, a un’entrata nei sindacati del tutto subalterna alla “sinistra sindacale” centrista e anarcosindacalista, che contribuì alla dispersione del grande patrimonio di militanti emersi nelle lotte di quel biennio.

Inoltre in molti casi, gli stessi operai conquistati dai gruppi venivano “usati” per iniziative esterne alla fabbrica e alle tematiche operaie. Sergio Bologna ha scritto a questo proposito che “mentre il movimento, a Milano – tra la fine del 1971 e il 1972 – sulla questione Valpreda, era ancora in grado di portare 20-30.000 persone in piazza, lasciava completamente soli i compagni della Pirelli a gestirsi l’attacco sulla cassa integrazione”.[32]  Sono d’accordo, ma aggiungo che, se la “questione Valpreda” almeno era politica, e centrale in quegli anni, spesso la diserzione dallo scontro avveniva per questioni assai più particolari. Ad esempio ricordo personalmente, avendo militato tra il 1972 e il 1981 a Milano, quanti rifiuti vennero a proposte di iniziative comuni sui contratti o su temi politici generali o internazionali, soprattutto dai gruppi di origine “operaista”, che sostenevano candidamente che “il nostro Vietnam è l’occupazione delle case di via Tibaldi”, o l’autoriduzione delle bollette. E la stessa straordinaria e multiforme sinistra dell’Alfa Romeo, alla cui attività ho partecipato quotidianamente per quasi dieci anni, era in certi momenti più sensibile a una mobilitazione contro uno sfratto nel vicino quartiere di Quarto Oggiaro che a una battaglia per cambiare la piattaforma contrattuale dei metalmeccanici.[33]

Ma ormai siamo usciti dal tema delle origini del movimento del 1968-1969, anticipando la discussione sulle cause della sua dispersione e della sua incapacità di pesare politicamente, che sarà meglio riprendere  sviluppandola più organicamente in un bilancio complessivo del decennio che si concluse con l’assassinio di Aldo Moro, precipitando poi, di arretramento in arretramento, fino alla catastrofe della FIAT. (Agosto 2002).


[1] Citato in Giorgio Galli, Storia del PCI, Schwarz, Milano, 1958, p. 236.

[2] L’Unità, ed. milanese, 16 settembre 1945.

[3] Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, Laterza, Bari, 1973, p. 452.

[4] Valerio  Castronovo, FIAT 1899-1999. Un secolo  di storia italiana, Rizzoli, Milano, 1999,  pp. 723-724.

[5] Giorgio Amendola, Lotta di classe e sviluppo economico, Editori Riuniti, Roma, pp. 30-32.

[6] Ampi stralci del verbale di quella riunione sono riportati da Liliana Lanzardo, Classe operaia e partito comunista   alla  FIAT. La strategia della collaborazione di classe. 1945-1949, Einaudi, Torino, 1971, p. 242.

[7] E. Gianbarba, La scala mobile, storia e problemi, in “Rassegna sindacale”, a. V, n. 17, giugno 1959.

[8] “Bollettino della CdL di Milano”, 1° ottobre 1945, citato in Giorgio Galli, Storia del partito comunista italiano, Schwarz, Milano, 1958, p. 268.

[9] Livio Maitan, La strada percorsa. Dalla Resistenza ai nuovi movimenti: lettura critica e scelte alternative, Massari, Bolsena, 2002, pp. 99-100.

[10] Giuseppe Di Vittorio, Il coraggio dell’autocritica, in “Proposte”, n. 49, aprile 1977 (ma in realtà dell’ottobre di quello stesso anno), p. 29.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 30.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, pp. 30-31.

[17] Ivi, p. 31.

[18] Ibidem.

[19] Ivi, p. 32.

[20] Ivi, p. 25.

[21] Il MPL si presentò alle elezioni politiche del 1972, e contribuì involontariamente al crollo psicologico della sinistra, che essendo troppo frammentata, non ottenne nessun seggio, pur avendo un numero di voti non trascurabile. Alcuni dei partecipanti a quell’esperienza si unirono poi agli spezzoni del “Manifesto” e del PSIUP, ugualmente in crisi, contribuendo alla nascita del PdUP.

 

[22] Questa parte della relazione utilizza largamente il  capitolo su Gli anni della riscossa operaia scritto da Dieo Giachetti per il libro Cento… e uno anni di Fiat. Dagli Agnelli alla General Motors, a cura di Antonio Moscato, Massari editore, Bolsena, 2000.

[23] Lorenzo Gianotti, Trent’anni di lotte alla Fiat (1948-1978), Bari, De Donato, 1979, p. 134.

[24] Cfr. Renzo Gambino, Le esperienze della lotta dei metalmeccanici torinesi, “l’Unità”, 10 novembre 1962. Su questo episodio e sul giudizio dato a caldo dai sindacati e dalla sinistra torinese Vittorio Foa, ad esempio, fece in seguito autocritica riconoscendo che la posizione del sindacato allora fu “netta e sbagliata” e che Piazza Statuto fu in qualche modo “il preannuncio della protesta del 1968” (Il Cavallo e la torre, Einaudi, Torino, 1991, p. 260). Giorgio Benvenuto nel 1971 arriverà a dire che “la rivincita dei lavoratori italiani inizia a Piazza Statuto a Torino” (Le tappe di sviluppo del processo unitario fra i metallurgici, in “Quaderni di rassegna sindacale”, n. 29, 1971). Su Piazza Statuto vedi il libro di Dario Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto, Feltrinelli, Milano, 1979.

[25] Una documentazione preziosa sulla crescita delle lotte aziendali è contenuta nel volumetto La contrattazione aziendale e di gruppo nel 1968, a cura dell’Ufficio sindacale della CGIL (Roma, Ufficio stampa della CGIL, 1969). L’introduzione ammetteva che le lotte aziendali avevano “permesso, nei fatti, il superamento dei vincoli procedurali previsti dai contratti”, cioè, in altra parole, avevano fatto saltare tutto il quadro predeterminato tra vertici sindacali e Confindustria per ridurre la conflittualità.

[26] In un caso, potei udire chiaramente Giancarlo Pajetta dichiarare al Questore che quelli che stavano tentando di forzare il blocco che impediva l’accesso all’ambasciata degli Stati Uniti erano “elementi estranei al partito” di cui non rispondeva, mentre erano in realtà i dirigenti romani della FGCI (tra cui Augusto Illuminati, Paolo Flores d’Arcais, Franco Russo, ecc.) e due redattori de “l’Unità” (Edgardo Pellegrini e Silverio Corvisieri).

[27] Una documentazione preziosa sulla crescita delle lotte aziendali è contenuta nel volumetto La contrattazione aziendale e di gruppo nel 1968, a cura dell’Ufficio sindacale della CGIL (Roma, Ufficio stampa della CGIL, 1969). L’introduzione ammetteva che le lotte aziendali avevano “permesso, nei fatti, il superamento dei vincoli procedurali previsti dai contratti”, cioè, in altra parole, avevano fatto saltare tutto il quadro predeterminato tra vertici sindacali e Confindustria per ridurre la conflittualità. 

 

[28] I congressi della CGIL, vol. VIII, Editrice sindacale italiana, Roma, 1970, tomo I, pp. 66-67, 454 e passim.

[29] Sull’esperienza dei delegati ebbe un grande successo il numero 24 del dicembre 1969 dei “Quaderni di rassegna sindacale” pubblicato dalla CGIL e diretto da Aris Accornero,  che fu più volte ristampato, e che descriveva le prime esperienze realizzate alla Pirelli, alla Castor, alla Montedison, alla Rex, alla Zoppas, nel biellese e alla stessa FIAT. Della stessa rivista che era di fatto l’organo della sinistra sindacale non solo della CGIL, segnaliamo in particolare alcuni numeri, tra cui il n. 26 del giugno 1970 su L’orario di lavoro, con un articolo di Fausto Bertinotti interessante per cogliere alcune premesse del suo pensiero attuale, e il n. 31-32 su Il sindacato in Italia 1960-70. (luglio ottobre 1971).

[30] Sull’austromarxismo e la sua grande influenza in Italia, rinvio a La “terza via” dell’austromarxismo, che è la lunga introduzione a un breve e illuminante saggio di Roman Rosdolsky pubblicato nel 1979 dalla Celuc libri di Milano col titolo un po’ generico di Socialdemocrazia e tattica rivoluzionaria.

[31] I maggiori gruppi della nuova sinistra, a cui si aggregavano volta a volta i minori, erano sempre in lotta tra di loro, formando coalizioni temporanee ed eterogenee finalizzate esclusivamente ad evitare il prevalere di uno di essi. E’ stato paragonato alle lotte fratricide tra i principati italiani del Quattrocento, contro quello che sembrava sul punto di affermare la sua egemonia unificando l’Italia. Tale conflittualità appariva incomprensibile a chi proponeva un fronte comune dei rivoluzionari, per poter lanciare credibilmente una proposta di fronte unico ai partiti riformisti, soprattutto perché le maggiori organizzazioni della nuova sinistra (Avanguardia operaia, Lotta Continua, Il Manifesto, Movimento dei Lavoratori per il socialismo) non avevano realmente grandi divergenze teoriche sia nel riferimento al maoismo, sia nell’atteggiamento sul sindacato (estremista fino al 1972, poi sostanzialmente “codista” nei confronti della sinistra sindacale quando questa cominciò ad offrire spazi per un inserimento di quadri).

[32] Citato in Piero Bernocchi, Per una critica del ’68, Massari editore, Roma, 1998, p. 82.

[33] Tuttavia va detto che la sinistra rivoluzionaria dell’Alfa Romeo ebbe anche alcuni momenti di altissimo dibattito e una certa capacità di restare unita nonostante i periodici tentativi settari di questo o quel gruppo. Per un certo periodo negli anni Settanta pubblicò anche un interessante giornale di fabbrica, La sinistra, che si autofinanziava vendendo circa 1000 copie, e su cui varrebbe la pena di ritornare.