Le gabbie salariali

Le gabbie salariali: come erano state spezzate

Il dibattito politico di  questo agosto sembra centrato sulla proposta di reintroduzione delle gabbie salariali fatta dalla Lega Nord e rilanciata (salvo successiva rapida smentita) da Berlusconi. È probabile che in realtà si tratti solo dell’ennesima sortita demagogica di Bossi a beneficio delle mandrie padane (con tanto di corna sull’elmo) non più seria e concretizzabile dell’introduzione nella scuola dell’insegnamento dei dialetti (quali? nella stessa “Padania” ce ne sono a volte decine in una sola regione…) o della trasmissione di fiction televisive in dialetto (quale? idem…).

Il pericolo quindi non è tanto nella strampalata proposta di Bossi e Calderoni, ma nelle risposte che ha avuto. Certo, tutte o quasi negative, dai sindacati alla Confindustria (ugualmente inorriditi dalla possibilità che una norma contrattuale possa essere fissata per legge), da gran parte della maggioranza e dalla totalità della cosiddetta opposizione, ma con argomenti tali che tra gli stessi lavoratori si è creata una notevole confusione.

Alcuni sondaggi hanno registrato al nord un prevalere di opinioni favorevoli alla proposta, e viceversa un rigetto generalizzato al sud (il centro si sarebbe diviso in parti più o meno eguali). Ma cosa era stato chiesto di valutare? Nella versione più rozza (ovviamente prevalente, in assenza di adeguate controproposte) l’ipotesi di aumenti salariali maggiori al nord che al sud, in base al diverso costo della vita. Ovviamente è per questo che la Confindustria si è detta subito contraria: di aumenti non ne vuole sentir parlare. E in effetti nessuno ne parla sul serio.

In realtà le gabbie o zone salariali introdotte nel 1954 registravano semplicemente una situazione esistente, estremamente articolata; nello stesso nord c’erano molte differenziazioni, ad esempio tra Milano – zona zero – e la provincia di Treviso (zona 7 e poi, dopo la riforma del 1961 che dimezzava le fasce, zona 4 extra).

Prima dell’introduzione del meccanismo, le differenze erano a volte maggiori di quelle fissate dall’accordo del 1954: ad esempio, valutando 100 la media salariale della regione che aveva allora il salario più alto (la Liguria), nel 1951 per il settore chimico la media della Basilicata era pari a 44,95, ma la stessa Lombardia, che non è solo Milano, era pari a 65,66. Viceversa per la metallurgia la regione con media più alta era la Valle d’Aosta, pari a 100, con la solita Basilicata fanalino di coda (20,20), ma la stessa Lombardia era ancora ben distaccata al 71,55, e il Veneto era a 56,37…

L’accordo del 1954 prevedeva una riduzione dei “differenziali retributivi” con un massimo del 29% tra la quattordicesima zona e quella più alta (che comprendeva solo il vecchio “triangolo industriale”, cioè Milano, Genova e Torino).

Tuttavia nel 1961, al momento della riformulazione del sistema delle zone e della riduzione dello scarto al 20%, le retribuzioni di fatto avevano differenziazioni ben superiori a quanto previsto dall’accordo: per la chimica era ancora la Liguria quella con la media più alta, ma rispetto al suo 100, c’erano in coda le Marche al 59,06, e il Veneto al 69,41. Analoghi scarti si riscontravano per altre categorie, e spesso erano in posizione sfavorita anche alcune delle regioni del nord. (Dati tratti dalla tabella 12, ricavata da dati INAIL, in: Bruno Broglia, Luciano Pallagrosi, I salari in Italia dal 1951 al 1962, Editrice sindacale italiana, Roma, sd, ma 1963).

Insomma anche prima del 1968-1969, le differenze tra una zona e l’altra erano ben maggiori di quanto stabilito nella normativa, perché c’erano situazioni (determinate dai rapporti di forza, e non dalla collocazione geografica o dall’assegnazione a una determinata zona) in cui c’erano consistenti premi di produzione, superminimi generalizzati, che accrescevano notevolmente le differenze retributive.

L’accordo del 1954 e quello del 1961 volevano congelare e regolamentare la situazione esistente, senza riuscirci che in parte. Per giunta sfuggiva a ogni indagine la situazione di una parte del mezzogiorno più arretrato, in cui gli stessi modestissimi minimi salariali non venivano rispettati.

Io stesso ho conosciuto, durante l’occupazione delle Fucine Meridionali a Bari nel 1968, un operaio a cui era stato affidato il compito di fare gli acquisti collettivi per la mensa degli occupanti, dato che era abituato a trovare gli spacci più economici e clandestini. La ragione era che per anni aveva lavorato in una fabbrichetta della provincia, senza ricevere dal padrone altro che gli assegni familiari (che sono pagati dallo Stato) e aveva finito per fare un figlio all’anno per “cavarsela”… Ovviamente sulla busta paga figurava il minimo contrattuale, che il padrone tratteneva per sé. Per anni ho raccontato l’episodio come una cosa strana del passato, finché ho scoperto che questo sistema è tornato in uso, nel basso Salento, ma anche nel capoluogo e in altre città del sud per gli insegnanti regolarmente abilitati assunti dalle scuole private, e costretti ad accontentarsi degli assegni familiari se hanno figli, e comunque solo dei punti, mentre il preside-evasore trattiene tutto quel che figura in busta paga. Con l’indifferenza più totale dei sindacati, confederali o autonomi che siano…

Probabilmente non si farà nulla che assomigli alle vecchie zone salariali. Ma più insidiosa è la cialtronesca proposta di Sacconi, ripetuta anche da più parti a livello sindacale, di un “federalismo contrattuale”, che privilegerebbe per gli aumenti salariali la contrattazione aziendale (oggi difficilissima al nord come al sud nelle aziende sotto attacco all’occupazione) o una contrattazione a livello di territorio che è puro fumo e che in nessun caso intaccherebbe le differenze esistenti. Già all’epoca delle gabbie c’erano sacche di arretratezza a poche decine di chilometri dalla zona zero.

CISL e UIL si sono affannate a rifiutare ogni regolamentazione del sistema salariale fissata per legge, definendola un metodo degno dell’Unione Sovietica. Eppure lo SMIC in Francia è definito per legge, e quando c’è una situazione di estrema frammentazione dei lavoratori, una vertenza generale per strappare un minimo imposto per legge è assai più realistica di ogni chiacchiera sulle vertenze territoriali.

La verità è che le vertenze aziendali negli anni Sessanta sono state preziose per rompere l’immobilismo stabilito dagli stessi contratti di categoria, per far vedere che la lotta poteva pagare, per far esplodere le tensioni latenti (penso al caso della statua del conte Marzotto rovesciata a Valdagno nell’aprile 1968), ma non erano di per sé risolutive. Per giunta allora si era una fase di piena occupazione e di radicalizzazione crescente di nuove leve operaie di origine cattolica, oggi è praticamente impossibile ripetere quell’esperienza.

D’altra parte, molti dei risultati dell’Autunno caldo sarebbero stati impensabili senza la straordinaria forza unificante della lotta contro le gabbie salariali, che fu retta con tenacia in gran parte delle regioni penalizzate dalla differenziazione, ma vide nella fase finale entrare in lotta anche la classe operaia delle tre città della zona zero (non solo perché al suo interno moltissimi erano provenienti dal sud). Scioperavano per solidarietà, ma anche per comprensione della necessità di difendere sé stessi difendendo chi era rimasto nelle regioni di provenienza. Veniva così smentita la presunta “passività del sud”, con cui i burocrati per due decenni avevano giustificato i loro cedimenti e arretramenti, e alimentato una forma blanda di razzismo antimeridionale.

La lotta per eliminare le gabbie salariali era stata avviata dai vertici confederali senza molta convinzione, sapendo che non era risolutiva e non eliminava la maggior parte delle differenze di fatto. La disponibilità delle confederazioni a trattare una forte gradualità nell’applicazione era stata confermata d’altra parte dall’accordo per le partecipazioni statali (firmato già nel dicembre 1968), e da un gran numero di accordi separati aziendali, ma la risposta operaia era stata fortissima, perché appariva, e di fatto era, una battaglia per la giustizia e l’eguaglianza. La mobilitazione nel settore privato aveva continuato a crescere e imposto la proclamazione di uno sciopero generale per il 12 febbraio 1969, il primo dopo quello che nel 1948 aveva provocato la scissione della CGIL.

Se ricostruiamo quella fase, si capisce quanto siamo andati indietro nel corso degli ultimi decenni, non solo con accordi sciagurati che hanno svenduto conquiste fondamentali come la scala mobile, o con la passività confederale di fronte allo smantellamento programmato delle grandi roccaforti operaie. Non si tratta solo del mutamento dei rapporti di forza, come si ripete. Questo c’è stato, ma non è un fenomeno “naturale”, è la conseguenza di errori e complicità.

Quello che colpisce, e non riguarda solo le grandi confederazioni, ma anche tutta la sinistra (anche quando sembrava che esistesse, e comunque era rappresentata nelle istituzioni), è soprattutto l’assenza di qualsiasi campagna per contrastare gli argomenti padronali, martellati incessantemente dalla grande stampa, dalle televisioni, dai governi, da amplificatissime nullità dei due campi (come Brunetta o Ichino)…

Non abbiamo formule segrete per ripartire, tranne una: smettere di mentire e di ripetere le ricette proposte dall’avversario. Non è fatalità l’accumularsi di sconfitte, ma la conseguenza di una progressiva cancellazione di tutte le tradizioni di lotta, perfino di ogni ricordo di come erano state strappate le grandi conquiste del Novecento. (a.m. 13 agosto 2009)

 

In Appendice, una ricostruzione del contesto in cui si sviluppò la lotta contro le gabbie.

 

 

Appendice (da La rinascita del sindacalismo nel secondo dopoguerra)

Le lotte del 1968 e la svolta sindacale

(…) Un anno prima della data d’inizio dell’Autunno caldo la lotta contro le “gabbie salariali”, che penalizzavano i salari nel sud, raggiunge una straordinaria forza di mobilitazione e spazza via un’altra leggenda diffusa dai riformisti: “dobbiamo moderare le nostre rivendicazioni perché i lavoratori del sud sono arretrati, sono influenzati dalla destra, non lottano…”

Per piegare il padronato ci vorranno in molte province ben 14 giorni interi di sciopero e quindi di decurtazione di un salario già modestissimo; la mancanza di strutture sindacali di fabbrica in quasi tutto il sud rendeva infatti impossibile ogni forma di sciopero articolato o di poche ore, e imponeva il blocco totale della fabbrica dall’esterno per 24 ore con picchetti formati da operai di altre fabbriche, e soprattutto da militanti di gruppi rivoluzionari. Nel corso di quella lotta si gettarono le basi per ricostruire gli organismi sindacali distrutti da una repressione pluridecennale, ed emersero anche nel Mezzogiorno nuove generazioni combattive. Alcuni scioperi nazionali a sostegno della lotta del Mezzogiorno cementarono una nuova unità tra nord e sud, facilitata d’altra parte dalla massiccia presenza di lavoratori meridionali nelle fabbriche del nord.

Tuttavia anche nel sud sintomi importanti di una crescita della combattività operaia si erano avuti anche in precedenza in alcune lotte aziendali, in genere come risposta a una provocazione aziendale (è il caso delle OMECA di Reggio Calabria alla fine del 1967, dell’ATI e delle Fucine Meridionali di Bari nell’estate 1968). Dopo l’esperienza galvanizzante della lotta contro le gabbie salariali, si moltiplicarono le lotte di fabbriche anche piccole per ottenere l’elezione della commissione interna, qualche aumento salariale, la mensa. Per piegare la resistenza tenace dei padroni fu necessario in genere il blocco totale dello stabilimento dall’esterno, a volte di due o tre settimane, ovviamente possibile solo ottenendo la solidarietà concreta dei lavoratori di altre fabbriche della zona o dello stesso settore produttivo. In alcuni casi anche al sud vi furono vertenze su piattaforme avanzate: ad esempio al Pignone Sud di Bari, uno stabilimento di oltre 1000 tra operai e impiegati del gruppo ENI, nell’aprile 1969 fu fatto saltare il cottimo con una lotta tenace che strappò anche il diritto di assemblea in fabbrica. Per regolare le prime assemblee, molto caotiche, fu eletta una “presidenza” basata su delegati di reparto revocabili, che di fatto fu uno dei primi Consigli di fabbrica in Italia.

E’ in questo quadro che si colloca la vicenda contrattuale del 1969, che assume una straordinaria importanza per la sincronizzazione del rinnovo dei contratti delle maggiori categorie dell’industria, che anche per le ottuse resistenze del padronato erano stati rinviati fino a coincidere negli stessi mesi del 1969 diventando quel grande avvenimento politico ricordato come l’Autunno caldo. Si mobilitò un numero senza precedenti di lavoratori, proprio grazie alla concretezza delle piattaforme, che avevano al centro consistenti aumenti salariali uguali per tutti, la riduzione d’orario a 40 ore e la parità normativa tra operai e impiegati. Quello che è meno noto è che quelle piattaforme furono il frutto di una battaglia di minoranze consistenti e decise, che provocarono il capovolgimento dell’atteggiamento delle burocrazie sindacali.

Basti pensare che nel VII Congresso della CGIL, che si tenne a Livorno dal 16 al 21 giugno 1969, tutte le proposte che di lì a poco più di un mese sarebbero state raccolte dai principali sindacati di categoria furono respinte o rinviate a tempi futuri. Il segretario generale Agostino Novella aveva ad esempio esplicitamente respinto nella sua relazione “ogni forma astratta di egualitarismo salariale” (cioè gli aumenti uguali per tutti rivendicati dai rivoluzionari), e aveva rinviato le 40 ore a tempi futuri, proponendo per giunta che dovessero “articolarsi secondo le situazioni specifiche” (cioè, in parole povere, dove la forza operaia è troppo grande e i padroni sono disposti a concessioni, va bene, gli altri si arrangino). Ogni eventuale riduzione d’orario soprattutto avrebbe dovuto “anche prendere in alcuni casi forme diverse, strutture diverse”. Il progetto era spezzettare e lasciar disperdere la forza operaia.

Anche Vittorio Foa, che rappresentava allora il PSIUP, e più in generale la “sinistra sindacale”, evitò in quel Congresso di prendere posizione sulla richiesta semplicissima (e per questo mobilitante) degli aumenti uguali per tutti e della riduzione secca e immediata d’orario. Molte voci (dai metalmeccanici di Brescia, dai siderurgici, dai chimici) rivendicavano la riduzione immediata alle 40 ore e anzi a 36 ore per siderurgici, chimici e in genere nei settori con forte nocività ambientale, ma la “Commissione sindacale” del congresso che doveva discutere le piattaforme concluse che le 40 ore settimanali dovevano essere realizzate “anche gradualmente”, eufemismo per dire che dovevano essere introdotte solo gradualmente e lentamente, come nei contratti precedenti: nel 1966 si era ottenuta la riduzione di un’ora in tre anni, mezz’ora nel novembre 1968 e mezz’ora nel maggio 1969, ovviamente con nessun effetto diretto sull’occupazione. Sul dibattito nel congresso si veda: I congressi della CGIL, vol. VIII, Editrice sindacale italiana, Roma, 1970, tomo I, pp. 66-67, 454 e passim.)

La logica della frammentazione della forza operaia e dello scaglionamento della riduzione d’orario per consentire al padronato di prepararsi al suo riassorbimento, come è noto saltò. Nelle lotte aziendali di cui abbiamo appena parlato, non solo si erano ottenuti importanti successi normativi e salariali (spesso inversamente proporzionali per attenuare le differenze), ma erano emerse nuove direzioni sindacali di fatto in molte aziende importanti, in genere ancora formalmente all’interno dei sindacati confederali, ma contrapposte alla loro linea di collaborazione di classe.

Alla fine di luglio del 1969 una grande assemblea si riunì al Palasport di Torino per concordare l’atteggiamento dei rivoluzionari nei contratti e per regolare altre questioni (ad esempio lì si consumò la rottura definitiva tra il gruppo dirigente della nascente Lotta Continua e Potere Operaio). La quasi totalità degli interventi erano caratterizzati da uno schematismo estremista che escludeva ogni possibilità di un recupero di quelli che venivano definiti gli “obiettivi operai” da parte delle burocrazie sindacali, e dava per liquidato definitivamente il PCI.

Chi proponeva un’analisi più realista fu accolto freddamente e persino fischiato quando diceva che gli “obiettivi operai” che tutti proponevamo non erano veramente “incompatibili con il sindacato”, come si affermava, e che quindi la burocrazia poteva anche farli suoi. D’altra parte a degnarsi di leggere gli organi dei partiti riformisti si potevano cogliere i sintomi di un imminente mutamento, che avvenne già nello stesso fine settimana in cui si riuniva l’assemblea di Torino: le assemblee dei delegati metalmeccanici e chimici raccoglievano la spinta partita dalle avanguardie delle fabbriche più politicizzate. Erano passate appena sei settimane dal Congresso della CGIL e la linea decisa in quell’alto consesso veniva bruscamente cambiata.

I burocrati si erano “convertiti”? Erano stati messi formalmente in minoranza? Nulla di tutto questo. Ma alcuni clamorosi insuccessi dei vertici sindacali nelle assemblee di alcune fabbriche importanti, avevano fatto capire che non avevano più davanti dei gruppetti ideologizzati e staccati dalla classe, ma quadri operai maturi e stanchi dei compromessi. In particolare l’assemblea della Borletti al Cinema Nazionale di Milano (non si era ancora riconquistato il diritto di assemblea in fabbrica) aveva respinto quasi all’unanimità la piattaforma ufficiale del sindacato, votando per i forti aumenti uguali per tutti, le 40 ore subito e la parità completa e immediata operai-impiegati.

I vertici sindacali, pur avendo ampi settori di operai meno politicizzati che li seguivano ancora, e pur non essendo vincolati da quelle assemblee che avevano convocato come “consultive”, capirono che se volevano recuperare il controllo della classe operaia non dovevano lasciar crescere un’opposizione di quel tipo. Così i contratti ebbero finalmente una piattaforma pagante e consistente, e mobilitarono milioni di lavoratori, e per il momento le minoranze rivoluzionarie che avevano proposto quegli obiettivi restarono spiazzate da quella giravolta. Le loro critiche ai vertici non potevano essere comprese dai milioni di lavoratori entrati per la prima volta in lotta e che erano contenti che “il sindacato” proponesse una lotta così concreta, senza sapere come e per merito di chi ci si era arrivati. Il prestigio recuperato consentì poi ai vertici di firmare un accordo di compromesso, che scaglionava parte delle conquiste nell’arco dei tre anni. (…)