L’eredità dello stalinismo, la Libia e la Siria

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L’eredità dello stalinismo, la Libia e la Siria

“Anche l’ira contro l’ingiustizia stravolge la faccia”

Bertolt Brecht

Stimo molto Tommaso di Francesco, che considero uno dei pochi comunisti presenti nel collettivo del manifesto. Dai libri di Angelo Del Boca sul colonialismo italiano ho imparato moltissimo. Ma l’intervista che Tommaso ha fatto a Del Boca e che riporto integralmente in appendice mi ha preoccupato molto.

Naturalmente non posso che essere d’accordo con la maggior parte delle osservazioni, che sono fondate. Mi preoccupo però per l’effetto che può provocare in quei pezzi del variegato popolo di sinistra che tendono a negare l’esistenza stessa delle “primavere arabe” e a vedervi soltanto l’intervento dell’imperialismo. Che naturalmente c’è, ma che c’è sempre stato da che l’imperialismo esiste, e non sempre ha avuto successo.

La tesi di fondo, espressa chiaramente soprattutto attraverso le domande di Tommaso di Francesco, è che la Libia stia diventando una nuova Somalia in preda alle milizie islamiche. La conclusione sottintesa, era che sarebbe stato meglio che non fosse neppure cominciata la rivolta contro Gheddafi.

Mi viene in mente quel che scriveva Eric Hobsbawm quando la Russia post sovietica finì in mano a oligarchi (allevati nella nomenclatura): “forse nel 1917 era meglio non prendere il potere”- Ne avevo parlato in Rileggere Marx attraverso Lenin. Un’affermazione che mi aveva colpito, soprattutto perché negli anni della mia formazione di storico alcuni libri di Eric Hobsbawm come Primitive rebels avevano avuto un ruolo importante per me; ma ne avevo capito bene la logica leggendo con attenzione il suo celebratissimo Il secolo breve e scoprendo che molti momenti cruciali della storia del Novecento, come la rivoluzione in Francia e nella Spagna del 1936 (o la crisi prerivoluzionaria che accompagnò la resistenza antifascista in Grecia e in Italia non meno che in Jugoslavia), erano stati se non ignorati, almeno letti con l’ottica conformista del partito comunista britannico. Così uno storico, che era grande quando affrontava microfenomeni di rivolte popolari, finiva per considerare inevitabile tutto quel che era accaduto, senza prendere mai in considerazione le proposte diverse da quelle dei vincitori, che pure vi erano state in alcuni grandi “bivii della storia”. E senza capire che l’involuzione e poi il declino dell’URSS era stato facilitato proprio dalla sconfitta di molte rivoluzioni di cui il movimento comunista stalinizzato – in nome del "realismo" e dei "due tempi" – era stato responsabile non meno dell’imperialismo.

È naturalmente possibile che la Libia possa essere lacerata da una guerra civile, e che alla fine possa essere sostituita da due Stati contrapposti. Ma intanto mi sembra sbagliato bollare oggi come “separatista” la richiesta di un’autonomia della regione formulata dall’assemblea delle tribù e delle milizie della Cirenaica: prima di tutto perché ha ribadito che al governo centrale di Tripoli spetterebbero non solo politica estera ed esercito, ma anche il petrolio, nonostante sia estratto prevalentemente in Cirenaica. Non mi sembra che si tratti di una secessione, ma di una rivendicazione di una autonomia che ha una sua logica: prima della conquista italiana non esisteva la Libia, ma una Tripolitania e una Cirenaica ben distinte tra loro. Anche la storia della conquista italiana magistralmente ricostruita proprio da Angelo Del Boca lo conferma: fu la Cirenaica a resistere per vent’anni, mentre il resto del paese era stato piegato assai più facilmente.

Negare oggi l’autonomia, liquidandola come una “cospirazione” di non meglio precisati paesi arabi, può facilitare uno sbocco davvero separatista. Ricordiamoci di come l’arroganza sciovinista di Milosevic ha provocato la sconfitta prima del moderatissimo riformismo della Lega dei comunisti del Kosovo, calunniati e imprigionati, poi del blando autonomismo del mite Ibrahim Rugova, lasciando spazio infine agli estremisti dell’UCK. Ma di questo la sinistra sopravvissuta non ricorda nulla, vede solo le manovre vergognose dell’imperialismo (che vi furono) ma dimentica che non avrebbero mai avuto successo senza la sciagurata intolleranza grande-serba.

Che ci siano in Libia agenti del Qatar o dell’Arabia Saudita che possono tentare di approfittare della situazione confusa, mi pare probabile e ovvio, e sicuramente ci sono anche più diretti rappresentanti di interessi di diverse potenze imperialiste (Italia compresa), mentre è tutt’altro che scontato che riescano nel loro intento.

Caso mai mi preoccupa un po’ che la conclusione dell’intervista a Angelo Del Boca esprima preoccupazione per le ripercussioni di questo “enorme disordine” non solo sulle elezioni di giugno, ma sull’Italia, “che sta cercando nuovi scambi industriali e di recuperare investimenti e ruolo”. E prosegue: “Dopo le mega-promesse di Gheddafi, nulla sarà più facile”, tanto più perché “c’è la questione della famosa litoranea che dovevamo costruire in 25 anni: adesso i nuovi dirigenti della Libia chiedono che venga fatta in cinque anni e con un esborso enorme di finanziamenti”. Mi preoccupa, ma non mi sorprende: di Angelo Del Boca avevo apprezzato tutti i libri storici, ma non quello autobiografico (Il mio Novecento), da cui emergeva spesso un giudizio troppo benevolo verso molti politici italiani, e un sostanziale moderatismo. Insomma sapevo già che egli era un riferimento prezioso per la lotta contro il colonialismo classico, non per l’opposizione al neocolonialismo.

In realtà temo che questa intervista finisca per ricollegarsi a quella campagna di delegittimazione delle rivoluzioni arabe condotta più esplicitamente da altre firme del Manifesto come Maurizio Matteuzzi (con cui ho polemizzato più volte, ad esempio in Finite le rivoluzioni?) o Marinella Correggia, che ha sistematicamente sottolineato a senso unico le violenze del fronte anti Gheddafi e ora anti Assad.

Violenze che ci sono state e ci sono, ripeto, ma di cui mi sembra incredibile ci si serva per minimizzare o negare quelle del regime, e che ci si possa stupire del loro manifestarsi. Mi domando quale guerra – non solo civile – ha mai evitato feroci vendette sui nemici caduti prigionieri: in genere si ricordano quelle subite; ad esempio gli italiani si indignano per le spietate esecuzioni tedesche a Cefalonia, non per quelle fatte dalle nostre truppe nella stessa penisola balcanica. E si è messa a lungo la sordina sulle fucilazioni di prigionieri italiani in Sicilia da parte delle truppe statunitensi dopo la conquista del campo di aviazione di Biscari: silenzio, per decenni, perché quelle erano ormai diventate truppe “alleate”.

Sorvoliamo qui sul diritto di rapina e di stupro accordato tanto alle truppe coloniali maghrebine che combattevano in Italia sotto la bandiera francese, quanto a quelle sovietiche in Germania, Ungheria e altri paesi ex nemici o perfino alleati (come la Jugoslavia), e ancor più i casi estremi dell’occupazione giapponese della Cina. Io stesso ne ho parlato più volte ritornando sul caso delle foibe, presentato periodicamente come un unicum, un concentrato inaudito di barbarie, mentre quelle esecuzioni sommarie erano state soprattutto nel 1943 una risposta a una precedente utilizzazione da parte fascista contro la minoranza slovena. Insomma le violenze si accompagnano sempre alla guerra: lo dico non per essere indulgente, o giustificare, ma per indignarmi contro un uso selettivo della denuncia di una particolare forma di violenza per delegittimare chi l’ha praticata, assolvendo così la controparte.

C’è stato tra l’altro anche un episodio minore, usato da destra e da sinistra per screditare l’intera resistenza al regime di Gheddafi e ricondurla esclusivamente a una variante di al Qaeda: un recentissimo oltraggio al cimitero cristiano ed ebraico a Bengasi, con la distruzione di un certo numero di lapidi di militari britannici caduti nella seconda guerra mondiale. Era una risposta (stupidissima) alla profanazione delle copie del Corano sequestrate e bruciate da militari statunitensi in una prigione afghana: ma l’orrore è stato manifestato a senso unico, e proiettato da sinistra su chiunque ha combattuto il regime: tutti integralisti… Si dimenticava semplicemente che proprio a Bengasi, nel 2006, quindi sotto Gheddafi, c’erano stati 11 morti nei moti di protesta contro l’Italia per la provocazione di Calderoli che aveva indossato una maglietta con disegni satirici oltraggiosi verso l’islam. L’intolleranza anticristiana c’era prima e c’è oggi, ma non può essere presentata come l’elemento caratterizzante di tutto quel che è avvenuto in Libia quest’anno.

Che queste letture a senso unico di episodi poco significativi le facciano i grandi manipolatori dell’opinione pubblica, non mi stupisce, mi rattrista se lo stesso metodo viene applicato anche da chi dovrebbe contrapporsi ad essi. E faccio subito alcuni altri esempi concreti sulla Libia: tutti quelli che avevano espresso dubbi sull’esistenza di una rivoluzione libica, hanno subito assunto come prova della loro tesi l’uccisione di Gheddafi già prigioniero, e poi l’oltraggio al suo corpo, e perfino la processione della popolazione per vederne i resti in un obitorio di Misurata. Quest’ultimo episodio, per metà ascrivibile alla mania contemporanea (certo non solo libica) di “essere presenti” a un avvenimento storico e documentarlo col cellulare, e per metà al comprensibile desiderio di accertarsi che fosse davvero morto chi aveva ordinato i feroci bombardamenti su quella città ribelle, non provava proprio nulla. Ricordiamoci del vilipendio al corpo di Mussolini a piazzale Loreto, esteso anche a quello di Claretta Petacci (la cui esecuzione tra l’altro non era neppure stata ordinata dal CLN).

È orribile, ma toglie forse legittimità alla resistenza antifascista? La giustificazione prevalente di quell’episodio abitualmente insiste sul fatto che in quello stesso luogo erano stati appesi poco prima i corpi di diversi partigiani impiccati : ma è un ragionamento insufficiente, bisogna avere il coraggio di dire che chi partecipò a quell’atto lo faceva perché subiva le conseguenze di venti anni di spoliticizzazione e di barbarie fasciste. Ogni rivoluzione (e quella che abbatté il fascismo a partire dagli scioperi del marzo 1943 fu una vera rivoluzione) per definizione coinvolge milioni di essere umani senza esperienze politiche, che fino al giorno prima erano influenzati dall’ideologia dominante. E a volte riproducono i comportamenti contro i quali erano insorti.

Tornando alla morte di Gheddafi, a me colpiva sia l’ipocrisia dei grandi mass media borghesi che usavano le circostanze della sua uccisione per delegittimare i vincitori come “incontrollabili” e preparare – se necessario – un intervento per disarmarli, sia la cecità di quei pezzi residui di sinistra che non si accorgevano di queste campagne orchestrate dai vari giornalisti “specializzati in terrorismo” come Guido Olimpio o Lorenzo Cremonesi, e concludevano che in Libia non c’era stata nessuna rivoluzione, ma solo una rivolta tribale manipolata dall’imperialismo.

Lo stesso sta accadendo oggi con la Siria. Su questo avevo pubblicato sul sito sia una presa di posizione di Sinistra critica rispetto a un appello di alcune organizzazioni pacifiste (Siria, la solidarietà e il no alla guerra), sia una precisazione successiva di Piero Maestri e Fabio Ruggiero (Siria, stiamo con chi lotta). Le condivido totalmente.

Ma vorrei aggiungere qualcosa sull’origine di questa tenace negazione dell’esistenza delle “rivoluzioni” arabe, che – come osserva Piero Maestri – è una conseguenza dell’abitudine che troppi hanno a ragionare in termini “geopolitici”, che quindi guarda ai risultati “oggettivi” e ai vantaggi immediati che possono ricavarne gli interessi imperialistici. D’altra parte gli effetti a breve termine degli stessi processi rivoluzionari possono sembrare scoraggianti. Se questi hanno portato a elezioni libere, che sono state vinte dagli islamisti, e non hanno prodotto partiti rivoluzionari, perlomeno visibili, significa per molti che non avevano – appunto – caratteristiche rivoluzionarie…

Ma provate a immaginare cosa si poteva pensare della rivoluzione russa tra aprile e novembre 1917: la quasi totalità dei partiti russi consideravano Lenin un pazzo, il capo di un gruppuscolo insignificante, o lo ritenevano veramente un agente dell’imperialismo tedesco, che in effetti ne aveva facilitato il rientro in Russia sperando di poterne ricavare vantaggi. Si sbagliavano…

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Tutti i paesi imperialisti avevano i loro veri agenti nella Russia, e li manterranno anche dopo la rivoluzione di ottobre, e per diversi anni. Quanto al “disordine” che sconcerta Del Boca, non mancava proprio, e già nel corso del 1918 il potere sovietico si esercitava ormai solo su una piccola porzione di territorio, non maggiore del vecchio Granducato di Moscovia, mentre si contendevano il paese molti capi militari e civili, sponsorizzati e foraggiati da questa o quella potenza, e a volte contemporaneamente da due Stati ancora in guerra tra loro, ma interessati a impossessarsi delle preziose risorse del paese. E la violenza cieca, accompagnata spesso dall’antisemitismo non solo tra i “bianchi”, è stata descritta mirabilmente da Isaac Babel nel suo L’armata a cavallo. Anche Sholochov, sia pure con qualche reticenza, dato che scriveva in epoca già staliniana, ha ricostruito successivamente nel Placido Don l’alternarsi degli scontri tra fazioni, i cambiamenti di fronte di interi villaggi e raggruppamenti di cosacchi. Lo stesso Trotskij, organizzatore geniale dell’Armata Rossa, ne ha descritto la caoticità e i problemi in molte pagine autobiografiche, oltre che nelle raccolte di specifici Scritti militari.

Più difficile trovare testimonianze sulla ferocia della guerra civile, dalle due parti. Per anni io stesso stentavo a rendermene conto, tanto era stata sistematica la cancellazione delle tracce di quanto era accaduto realmente. E avevo finito per credere che molte descrizioni di rappresaglie crudeli, e di esplosioni di barbarie, fossero solo invenzioni della controparte, per attribuire ai rivoluzionari le sue innegabili colpe. Per giunta la rivoluzione e la guerra civile sono state ricostruite – soprattutto dal cinema post rivoluzionario dei Bonrdarciuk – in modo agiografico, come una marcia trionfale verso la vittoria al canto degli inni rivoluzionari, ma anche manicheo, presentando il male come concentrato da una parte sola. Mi ha aiutato poi la sistematicità dello studio dei documenti e della memorialistica, e anche una maggiore conoscenza di altre rivoluzioni, come quella francese e quella cubana, che pure conobbero momenti terribili, per non parlare di quella cinese, su cui tuttavia è stata più forte la sistematica mistificazione (e più grande l’accecamento dei maoisti acritici).

Scoprire che ogni rivoluzione è sorta da grandi spinte ideali ma è stata fatta da uomini in carne ed ossa che si portavano dietro i loro pregiudizi e l’ideologia che avevano assorbito nella società in disgregazione, in cui erano immersi fino al giorno prima, è necessario perché consente di distinguere il vecchio e il nuovo che si intrecciano e si combattono negli stessi uomini. Su questo si sono fatti giganteschi passi all’indietro nell’ultimo decennio grazie alle sciagurate mitizzazioni della “non-violenza” fatte dallo stesso Fausto Bertinotti, contro cui ho polemizzato più volte (ad esempio in Metafisica della non violenza o ricostruzione storica? , Le premesse del crollo del PRC e Non violenza).

La violenza non è una caratteristica intrinseca delle rivoluzioni, ma un prodotto della vecchia società che cerca di sopravvivere ad ogni costo. Ma non è neppure un optional: fronteggiarla è una necessità per sopravvivere. La rivoluzione russa aveva vinto in modo quasi incruento, cogliendo di sorpresa l’imperialismo; ha dovuto poi difendersi da un’aggressione internazionale senza precedenti, in condizioni difficilissime per il tradimento delle socialdemocrazie dei paesi più sviluppati, che avrebbero potuto bloccare l’aggressione nel 1918-1919. Se la rivoluzione russa non avesse resistito, avremmo avuto non una democrazia ma la dittatura ferocemente antisemita di Kornilov. La soluzione di Hobsbawm (“forse nel 1917 era meglio non prendere il potere”) era impraticabile, soprattutto perché le rivoluzioni non si decidono a tavolino, esplodono quando quelli che “stanno sotto” non accettano più la loro condizione. L’alternativa, da sempre, è solo quella di rassegnarsi a portar pietre per costruire piramidi…

Anche a questo pensavo scrivendo il titolo di questo articolo: l’eredità di decenni di dominazione stalinista sul movimento operaio ha reso più difficile non solo conoscere il passato, ma anche riconoscere nel presente i sintomi di una rivoluzione in atto. È molto pericoloso: il nostro nemico questi sintomi li conosce bene, e non manca di agire per soffocarli sul nascere, come ha fatto infinite volte. Guai a noi se ne ricavassimo la conclusione di rinunciare per questo alla lotta contro i tiranni e alla solidarietà con chi li combatte…

(a.m. 11/3/12)

 

Appendice

Del Boca: La Libia è una nuova Somalia.

Tommaso Di Francesco – giornalista de Il Manifesto – Intervista allo storico Angelo Del Boca

Nena news http://nena-news.globalist.it/?p=17650, 

«L’autonomia armata dell’Est getta il Paese, già diviso dalle fazioni che hanno deposto Gheddafi, nel caos a tre mesi dal voto di giugno. Per l’Onu i diritti umani sono violati. Interessi italiani a rischio»

Roma, 09 marzo 2012, Nena News – Una assemblea delle tribù e delle milizie della Cirenaica riunito a Bengasi due giorni fa ha dato vita al Consiglio provvisorio di Barqa (Cirenaica) chiedendo la piena autonomia della regione da Tripoli. Mustafa Abdel Jalil, presidente del Cnt fino alle prossime elezioni di giugno, ha definito l’iniziativa la «sedizione dell’est» accusando non meglio precisati «paesi arabi» di avere fomentato la «cospirazione» e, ieri, ha minacciato: «Devono sapere che gli infiltrati e i fedelissimi dell’ex regime tentano di utilizzarli e noi siamo pronti a dissuaderli. Anche con la forza». E anche Hamid Al-Hassi, capo militare del Consiglio di Barqa ammonisce: «Siamo pronti a dare battaglia. Siamo dunque a quel rischio di guerra civile che lo stesso Jalil paventava di fronte all’anarchia delle milizie che spadroneggiano in Libia. Ne parliamo con Angelo Del Boca, storico della Libia e del colonialismo.

La Libia sembra diventata quella «nuova Somalia», in preda alle milizie islamiche» che profetizzava Gheddafi, linciato solo nell’ottobre scorso, poche settimane prima della fine della guerra aerea della Nato fatta «per proteggere i civili»…

In un certo senso sì, proprio una nuova Somalia. Per 42 anni Gheddafi era riuscito, più con le cattive che con le buone, a tenere insieme il Paese e a guidarlo in mezzo a burrasche non da poco. Morto lui sembra che tutto vada nel disastro. Perché le milizie non mollano le armi, il governo provvisorio fa di tutto per raccoglierle ma non ce la fa. Siamo arrivati addirittura al pronunciamento da Bengasi per dividere il paese, fatto non in maniera provvisoria, perché a capo di questo fantomatico governo c’è addirittura Ahmed Al Senussi, pronipote d re Idris. Quindi non è solo una divisione amministrativa ma soprattutto politica. Al Senussi è un personaggio poco noto perché sono passati tanti anni dal colpo di stato con cui Gheddafi depose re Idris, è stato per molti anni nelle galere del raìs per avere tentato un golpe contro di lui nel 1970, poi è stato liberato negli anni Ottanta. Ma certo rappresenta almeno la memoria della monarchia libica. Non dimentichiamo che in Cirenaica la rivolta l’hanno fatta con la bandiera dei Senussi, della monarchia. Lì è scoppiata la vera resistenza che ha dato filo da torcere agli italiani e alla fine, quando gli inglesi hanno deciso di consegnare la Libia a un personaggio di rilievo, l’hanno messa nelle mani di Al Senussi, re Idris, nato e vissuto a Tobruq. Inoltre la Senussia oltre ad essere stata una organizzazione politica è anche una confraternita religiosa con più di cento anni di vita.

Che cos’è la Cirenaica quanto a interessi petroliferi della Libia?

Diciamo che i porti più importanti sono proprio in Cirenaica che presenta il più alto numero di giacimenti e di raffinerie, a Ras Lanuf con 220mila barili al giorno, a Marsa el Brega e a Tobruq. Certo ce ne sono anche in Tripolitania e nella Sirte, molti pozzi sono anche in mare, ma la parte principale di queste «oasi del petrolio» sono proprio in Cirenaica. Ricca, non dimentichiamolo, anche di acqua. Il grande progetto di Gheddafi, il famoso River, il fiume sotterraneo – che anche gli insorti chiesero alla Nato di non bombardate – scorre da Kufra fino al mare, prosegue lungo tutta la costa e risale da Tripoli verso Gadames. È costato circa 30 miliardi di dollari e non si sa quanto durerà quest’acqua. È una enorme bolla sotterranea dalla quale attingono tutte le aree vicine, così gigantesco che è stata costruita una fabbrica per allestire manufatti addatti alla canalizzazione. È il rubinetto della Cirenaica e della Libia. Chi lo controlla controlla il Paese. Quindi non ci sono solo gli introiti petroliferi ma questo «rubinetto» di una fonte come l’acqua decisiva quanto se non più del petrolio. Un’acqua che ha creato una fertilità che da tempo ha dato quasi l’autonomia alimentare alla Libia, trasformando il litorale nell’orto che produce per i sei milioni di abitanti.

Quale «paese arabo» potrebbe esserci «dietro»questo pronunciamento della Cirenaica? Shalgam, l’autorevole ambasciatore all’Onu della Libia, prima con Gheddafi e poi passato agli insorti, ripete che non vuole «una Libia controllata dal Qatar»…

Indubbiamente il Qatar è interessato. C’era un inserto straordinario di Le Monde la scorsa settimana tutto dedicato ai nuovi interessi strategici della petromonarchia del Qatar, sul Medio Oriente, in Africa e nel mondo intero dove ha comprato terre ovunque. Il Qatar punta ad avere riserve di petrodollari enormi. E non dimentichiamo che fra le milizie che combattevano contro Gheddafi c’erano alcune centinaia – migliaia per altre fonti – di militari del Qatar. E hanno anche capacità d’intelligence e di forniture di armi.

L’unico accordo possibile in Libia è sull’Islam, che finirà nella nuova Costituzione. Per il resto, le milizie spadroneggiano in armi e cresce il ruolo degli integralisti islamici con il capo militare di Tripoli Belhadj…

Peggio. Il rapporto dell’Onu conferma le denunce di Amnesty International, le stragi contro i vinti, le carcerazioni arbitarie, con quasi 8.000 i detenuti, la pratica diffusa della tortura contro i civili lealisti. Mi chiedo come in questo enorme disordine si potrà arrivare alle elezioni di giugno, così vicine. E si aprono problemi per l’Italia che sta cercando nuovi scambi industriali e di recuperare investimenti e ruolo. Dopo le mega-promesse di Gheddafi, nulla sarà più facile. E poi c’è la questione della famosa litoranea che dovevamo costruire in 25 anni: adesso i nuovi dirigenti della Libia chiedono che venga fatta in cinque anni e con un esborso enorme di finanziamenti.