Libia: neocolonialismo

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Neocolonialismo

“Il manifesto” ha ricordato il centesimo anniversario dell’invasione colonialista della Libia con una pagina curata da Manlio Dinucci, sostanzialmente corretta nella rievocazione dell’impresa di un secolo fa, anche se un po’ riduttiva nella spiegazione delle cause, e insufficiente nella ricostruzione degli schieramenti politici italiani e delle ragioni per cui questa aggressione banditesca ottenne un sostegno abbastanza massiccio. Il dato più importante è che quella guerra fu preparata da un’intensa campagna di stampa senza precedenti, che intossicò l’opinione pubblica facendo credere che la popolazione della Tripolitania non attendesse che di essere liberata dal “giogo turco” e che il paese fosse floridissimo e pronto ad accogliere una colonizzazione italiana. Una campagna che servì da prova generale per quella che nel 1915 portò l’Italia a partecipare nella “Grande Guerra” forzando ancora lo stesso Parlamento.

Ma nell’insieme, la ricostruzione di quelle vicende lontane fatta da Manlio Dinucci è accettabile. Quello che è scandaloso invece è il parallelo forzato (e campato in aria) tra le due guerre, fatto sopravvalutando nell’una e nell’altra il ruolo degli “agenti segreti” infiltrati, e del “reclutamento di capi arabi disponibili a collaborare” nel 1911, e immaginando che questo sia avvenuto anche nel 2011. Nel 1911 i pochi contatti stabiliti attraverso le campagne archeologiche in cui operavano in incognito alcuni ufficiali topografi, o attraverso gli sportelli del Banco di Roma, non salvarono l’esercito italiano dalla prima sconvolgente batosta di Sciara Sciat appena poche settimane dopo lo sbarco. E nel 2011, come spiegare il tenace rifiuto di autorizzare lo sbarco di truppe di terra NATO da parte del pur discutibile e ambiguo “governo provvisorio” del CNT, se questo fosse soltanto un’accozzaglia di “agenti segreti”?

Per Dinucci l’unico attore sulla scena è l’imperialismo, la cui strategia “consiste nel demolire gli stati che sono del tutto o in parte fuori del controllo degli Stati Uniti e delle maggiori potenze europee, soprattutto quelli situati nelle aree ricche di petrolio e/o con una importante posizione geostrategica”. [Ricavo questa definizione e le due successive da una relazione di Manlio Dinucci a una conferenza sulla Libia tenuta a Roma il 19 settembre].

Ma era così fuori controllo la Libia? E forse negava il suo petrolio ai paesi imperialisti? Macché, anzi si prestava a cooperare con loro anche per fermare le correnti migratorie subsahariane…

Caso mai più utile la seconda parte della definizione: “Si privilegiano, nella lista delle demolizioni, gli Stati che non hanno una forza militare tale da mettere in pericolo, con una rappresaglia, quella dei demolitori”. La Libia effettivamente non era una grande potenza militare, ma non per mancanza di armi: gliele hanno vendute fino a pochi giorni prima dell’inizio dei bombardamenti. Quello che mancava era la fedeltà al regime e la coesione dell’esercito, umiliato dopo le sconfitte nelle insensate guerre del Ciad, e sostituito sempre più da corpi speciali e mercenari.

Secondo Dinucci “l’operazione [di demolizione] inizia infilando dei cunei nelle crepe interne, che ogni Stato ha. Nella Federazione Jugoslava, negli anni ’90, vennero fomentate le tendenze secessioniste, sostenendo e armando i settori etnici e politici che si opponevano al governo di Belgrado. In Libia, oggi, si sostengono e si armano i settori tribali e religiosi ostili al governo di Tripoli.”

Che l’imperialismo punti sempre a dividere e a trovare dei quisling è vero. Da sempre (ma è vero anche che non sempre riesce a farlo, deve poter approfittare di una particolare debolezza dovuta a errori dei governanti locali). Ma Dinucci sorvola completamente su come è cominciata questa vicenda. Per lui, in Libia non c’è mai stata una situazione rivoluzionaria o almeno una protesta popolare repressa nel sangue da Gheddafi. Niente, il solo protagonista è l’imperialismo e le sue pedine. Altro che “primavera”, anzi: “maledetta primavera”, come scrive un altro compagno che vede solo le manovre. La rivoluzione non ha vinto, quindi non c’è mai stata. Lo stesso criterio varrà per la Siria? E per Tunisia ed Egitto, se il dualismo di poteri tra esercito e movimento di massa sarà risolto con un nuovo massacro? Possibile che Dinucci non si accorga che l’obiettivo dell’aggressione imperialista non era Gheddafi, ma intervenire per bloccare la dinamica delle rivoluzioni arabe?

È sintomatico che Dinucci usi la stessa logica per spiegare la dissoluzione della Jugoslavia vedendovi solo le “manovre” dell’imperialismo, che ovviamente c’erano come sono sempre esistite almeno per tutto il XX secolo, ma facendo sparire le cause prime dell’esplosione: lo sfacelo economico di tutte le repubbliche jugoslave, indebitate fino al collo da una politica dissennata nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Fu questo che spinse i vari governanti a puntare sul diversivo sciovinista, per scaricare le responsabilità sui dirigenti delle “repubbliche sorelle”. Più o meno tutti. Casomai Milosevic, che per Dinucci invece era il solo bersaglio dell’imperialismo, aveva qualche colpa in più, dato che nel 1989 aveva reinventato la storia della battaglia di Kosovo Polje di cinque secoli prima, e denunciato assurdamente un “genocidio albanese sui serbi” per cancellare i diritti dei kosovari, i cui dirigenti appartenevano allora al suo stesso partito, la Lega dei comunisti. (Rinvio su questo al secondo capitolo del mio libro L’Italia nei Balcani. Clicca qui).

Quello che mi preoccupa è la cecità nei confronti dei processi rivoluzionari iniziati in tutto il mondo arabo, e che naturalmente non hanno affatto la vittoria assicurata (ma quale rivoluzione vera la ha avuta?). Ma vanno sostenuti, difesi, prima di tutto con un’informazione corretta, e non riducendo le loro vicende a un teatro in cui si muovono solo marionette manovrate dall’imperialismo. Con una visione che in definitiva ricalca un certo disprezzo eurocentrico (o un involontario “neocolonialismo culturale”) verso chi si muove diversamente da come vorremmo.

E mi fa orrore che, poco più di vent’anni dopo la dissoluzione del sistema sorto intorno all’URSS, si sia cancellata quasi ogni memoria di quella crisi endogena, che vide sciogliersi come neve al sole enormi partiti che di comunisti non avevano che il nome, e vide apparire nuovi dirigenti, tutti filo capitalisti, ma tutti allevati e selezionati nella burocrazia staliniana. Mi fa orrore, perché così si evita ogni riflessione sulla pericolosità e fragilità di quel sistema burocratico, basato sulla doppia e tripla verità, e diventato da tempo tutt’altro che antagonista rispetto all’imperialismo. A cui si attribuisce così un’onnipotenza che non ha mai avuto, meno che mai ora…

(a.m. 5/10/11)