Pierre Rousset: Ancora sulla crisi coreana

 

di Pierre Rousset

da Sinistra Anticapitalista

Gli Stati Uniti hanno ripreso l’offensiva in Asia orientale in occasione della crisi coreana, la Cina ha perso temporaneamente l’iniziativa. L’imperialismo USA è ben lontano dall’aver vinto, ma ha segnato punti importanti la cui portata incide sull’intera regione – e ben oltre, soprattutto per l’accelerazione della corsa agli armamenti nucleari che determina. I rapporti di forza geopolitici sono in continua evoluzione in questa parte del mondo.

A lungo annunciato, il riposizionamento degli Stati Uniti sul pivot [asse] Asia-Pacifico non era realmente avvenuto sotto la presidenza di Obama. Donald Trump ha iniziato a disimpegnarsi da questa regione chiave, uscendo dagli accordi di libero scambio in corso di negoziazione (partenariato transpacifico – TPP) e lasciando così su questo terreno campo libero alla Cina che da parte sua promuove, con un sicuro successo, il partenariato economica regionale integrale (RCEP).

In occasione della crisi coreana, Donald Trump ha assunto l’iniziativa, questa volta sul piano militare, dove la supremazia degli Stati Uniti è più schiacciante. Il personaggio è imprevedibile e il suo modo di abusare di Twitter o dell’invettiva è insieme preoccupante e risibile. La lotta di galli tra Trump e Kim non deve però nascondere l’essenziale: l’offensiva statunitense è seria, costante e comincia ad avere serie conseguenze.

In Asia orientale si era formato un punto di equilibrio conflittuale. Pechino aveva l’iniziativa nel Mar della Cina Meridionale a causa del suo peso economico e dell’occupazione militare dello spazio marittimo. Washington aveva l’iniziativa nel Nord grazie alla sua rete di basi e ai suoi alleati più o meno subordinati (Corea del Sud, Giappone). La Russia, seppur potenza siberiana, era tenuta al margine.

Tale equilibrio poteva essere solo temporaneo. Nel Sud, Washington mandava la Settima Flotta a fare rotta in prossimità delle isole artificiali costruite dalla Cina, mentre nel Nord, Pechino mandava aerei e navi a contestare le pretese giapponesi sul micro-arcipelago Senkaku / Diaoyu, saggiando in tal modo la determinazione degli Stati Uniti. Questo equilibrio instabile è ora spezzato dall’ampiezza dell’intervento statunitense sulla questione coreana, ma anche da un richiamo del Pentagono alle Filippine.

Lo spiegamento dell’offensiva statunitense

Sanzioni economiche. Fino ad ora non sono riuscite né a piegare la leadership nordcoreana né ad aprire una crisi di regime. Washington ha costantemente sottovalutato la capacità di resilienza di Pyongyang. Durante il conflitto coreano del 1950-54, gli Stati Uniti hanno ridotto il Nord in polvere e moltiplicato i crimini di guerra. La popolazione non ha dimenticato e, pur vivendo in una grande povertà, teme soprattutto una nuova aggressione devastante. È nata e si è modernizzata una élite sociale privilegiata, che fornisce una base sociale per il potere autocratico, che a sua volta l’allarga permettendo la creazione di rapporti di mercato nei pori dell’economia dirigista. Il nazionalismo etno-identitario costituisce un efficace cemento ideologico. La repressione preventiva molto efficiente impedisce l’emergere di un’alternativa all’interno del regime.

Ovviamente non è perché le precedenti sanzioni non sono bastate che un punto di rottura non sarà raggiunto domani. Questa è una delle domande «aperte» poste dall’evoluzione della situazione.

Il settimo pacchetto di sanzioni adottate dall’ONU il 5 agosto mira a privare il regime di un miliardo di dollari (850 milioni di euro) di entrate annuali dalle esportazioni. Vieta la creazione di qualsiasi nuova società mista tra imprese estere e nordcoreane; qualsiasi ulteriore investimento in quelle già esistenti; l’aumento delle quote di lavoratori nordcoreani all’estero. Impone la messa al bando dei porti di tutti i paesi alle navi nordcoreane che violeranno le sanzioni ONU; il blocco degli averi della Banca di Commercio estero di Pyongyang…

L’11 settembre è stato adottato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite un nuovo pacchetto di sanzioni, incluso un embargo parziale e progressivo sul petrolio e i suoi sottoprodotti (totale sul gas naturale). Questa volta, con poche eccezioni, tutte le imprese comuni con società nordcoreane sono vietate e quelle già esistenti devono essere chiuse entro 120 giorni. Washington sta prendendo misure contro delle banche.

Il cyberattacco. Sotto la presidenza Obama, è stato istituito un programma di guerra elettronica, in particolare per sabotare il programma nucleare nordcoreano. Il che può spiegare un certo numero di «fallimenti» (lanci di missili difettosi, ecc.), ma ciò non ha impedito notevoli progressi nello sviluppo delle capacità nordcoreane in questo settore.

Pressione militare. Washington ha mantenuto costantemente una pressione militare contro la Corea del Nord, in particolare attraverso le grandi manovre navali condotte congiuntamente ogni anno con l’esercito del Sud. Parecchi anni fa, era stata costituita un’unità di élite sudcoreana con il mandato di assassinare Kim Jong-un. Questa pressione è stata costantemente rafforzata con l’installazione di una base sottomarina sull’Isola di Jeju, l’invio nella zona di una portaerei, lo schieramento di batterie di missili antimissili THAAD, e infine il sorvolo delle zone costiere nordcoreane, da parte di bombardieri in formazione, il che non erano più successo dopo gli anni Cinquanta.

L’offensiva multiforme perseguita dagli Stati Uniti ha soltanto confermato al regime nordcoreano che la sua sopravvivenza dipendeva dalla sua capacità di nuocere nucleare. Non si è piegato.

Tuttavia, le politiche di Washington hanno già prodotto risultati in Corea del Sud, Giappone, Cina, Filippine e, più in generale, nello spazio geopolitico asiatico.

La sfida sudcoreana: la Corea del Sud è un elemento centrale del sistema regionale degli Stati Uniti. Ora, le elezioni del 9 maggio hanno rappresentato uno smacco molto grave per Donald Trump. In seguito ad un’immensa mobilitazione dei cittadini, che hanno occupato lo spazio pubblico, notevole per le sue dimensione e durata, il regime precedente (destra radicale, erede delle dittature del passato) è stato battuto nelle urne. La popolazione ha dato molta più importanza alle questioni interne (scandali di corruzione, repressione…) che alle tensioni militari regionali. La politica bellicosa degli Stati Uniti era, ai loro occhi, il problema di Trump, non il loro.

Il nuovo presidente, Moon Jae-in, appartiene ad una tendenza politica abbastanza significativa in Corea del Sud, che non rompe con i canoni del liberismo, ma attribuisce grande importanza alla questione nazionale, vale a dire la riunificazione del paese, in particolare attraverso negoziati (il suo partito è considerato di «centro-sinistra»). Moon si era opposto al dispiegamento accelerato di batterie di missili THAAD sul suolo della Corea del Sud e, subito dopo la sua elezione, ha sostenuto l’apertura di un dialogo con Pyongyang. Si è scontrato con un brutale rifiuto da parte di Kim Jong-un, il che ha fatto perdere ogni credibilità alla sua iniziativa diplomatica. In questa situazione e di fronte alla spirale di provocazioni e contro-provocazioni nucleari e militari tra Kim e Trump, è parzialmente rientrato nei ranghi.

L’ostilità alla politica di aggressione statunitense rimane probabilmente profonda nella popolazione sudcoreana. Il presidente Moon ha appena deciso un aiuto umanitario di 8 miliardi di dollari per la popolazione del Nord; un gesto che ha una dimensione politica. Tuttavia, le condizioni di azione del movimento antiguerra sono ora molto meno favorevoli che nello scorso maggio.

Un’occasione da cogliere per la destra giapponese. Lo stesso problema si presenta oggi in Giappone. La destra militarista al potere vuole farla finita una volta per tutte con la clausola pacifista della Costituzione, ma la popolazione, nella sua maggioranza, si oppone alla revisione. I missili nordcoreani ora sorvolano periodicamente l’arcipelago (senza per altro provocare panico).

Il primo ministro Shinzo Abe ha deciso di sciogliere la Camera dei Rappresentanti e indire nuove elezioni. Non ne ha bisogno, poiché attualmente gode di una maggioranza di due terzi in entrambe le Camere. Il suo calcolo: approfittare della situazione per riproporre la sua maggioranza nel 2018 e garantire in tal modo il proprio mantenimento al potere fino al 2021 (e far dimenticare en passant gli scandali di favoritismi della moglie).

Abe rischia poco nel decidere elezioni anticipate. L’opposizione è divisa. L’unico pericolo verrebbe da una nuova formazione politica, il Partito della Speranza (lanciato dalla signora Yuriko Koike, governatrice di Tokyo, che si riferisce all’esempio di… Emmanuel Macron). Agendo in fretta, Shinzo Abe non le lascia il tempo di radicarsi.

I rapporti tra il Giappone e gli Stati Uniti sono complessi, poiché Tokyo è il principale alleato di Washington nella regione (ospita le sue basi militari più importanti) e una potenza potenzialmente concorrente. Per ora, tuttavia, Shinzo Abe appoggia Donald Trump, sostenendo che ogni tentativo di dialogo con Pyongyang sarebbe inutile.

Richiamo alle Filippine. Il presidente filippino Rodrigo Duterte, eletto nel maggio 2016, ha violentemente denunciato l’influenza degli Stati Uniti sull’arcipelago, insultando abbondantemente Obama. Si è avvicinato alla Cina (con un occhio alla sua capacità di investimenti), poi ha fatto aperture alla Russia. La crisi che scuote l’isola meridionale di Mindanao ha dato a Washington l’opportunità di ricordarle discretamente che non si cambiano le alleanze come le camicie.

Nel maggio scorso, pesanti combattimenti sono scoppiati nella città musulmana di Marawi tra le forze governative e movimenti jihadisti islamici, provocando una crisi umanitaria di grande ampiezza e dando la possibilità a Duterte di imporre la legge marziale in tutta l’isola di Mindanao [1]. Adesso c’è uno stato di guerra strisciante.

Gli Stati Uniti, sulla base di accordi di difesa tuttora validi, hanno fornito un’assistenza multiforme all’esercito filippino – i cui ufficiali sono inviati nelle accademie militari degli Stati Uniti: armamenti, pilotaggio dei droni di osservazione, informazioni tattiche, «consiglieri» armati sul posto … Tutte cose che né Cina né Russia potrebbero fare oggi.

Il regime Duterte presenta tratti dittatoriali (forse 13.000 morti in un anno in nome della « guerra contro la droga»). Il suo futuro rimane incerto. In ogni caso, gli Stati Uniti hanno appena riaffermato la loro presenza nella loro ex colonia, e l’arcipelago delle Filippine occupa una posizione strategica nel Mar della Cina Meridionale – una zona sulla quale Pechino vuole consolidare la sua egemonia. Gli altri paesi della regione non avranno mancato di notarlo.

La Cina senza iniziativa. Per ora, Pechino non è in grado di riprendere l’iniziativa sulla questione coreana. La Cina subisce la situazione. Al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, è costretta a votare, insieme alla Russia, l’inasprimento delle sanzioni contro Pyongyang. Così, tutte le imprese economiche nordcoreane sul suolo cinese, o quelle alle quali partecipano società nordcoreane, verranno sciolte. Deve arrendersi all’evidenza: la sua influenza sul regime di Pyongyang è molto scarsa, se non nulla. Se quest’ultimo crolla, rischia di vedere un giorno l’esercito statunitense accampato al proprio confine; un incubo.

Personalità cinesi lanciano grida d’allarme tramite i media internazionali. Il loro argomento è semplice: per la Cina, la Corea del Sud è molto più importante che quella del Nord. Pyongyang perderà il suo braccio di ferro con Washington. Pechino deve negoziare senza indugi con gli Stati Uniti un piano di intervento nel caso in cui il regime del nord entri in una crisi aperta; altrimenti sarà fuori gioco e la risposta alla crisi si farà esclusivamente a beneficio degli Stati Uniti.

Problema, questo tipo di negoziati (segreti o pubblici) richiede un minimo di fiducia, che non esiste e probabilmente non può esistere tra una potenza in ascesa (Cina) che richiede il suo posto al sole e una potenza affermata (Stati Uniti) che non vuole perdere niente della sua preminenza. Inoltre, Washington può contare su una forte rete di alleanze interstatali, mentre Pechino può opporgli soltanto fragili accordi puntuali con la Russia o con Paesi senza peso strategico.

La Cina mantiene una forte capacità di iniziativa internazionale in altri campi e in altri luoghi. Sulla questione coreana, tuttavia, si trova di fronte a due scelte infelici: scommettere tutto sulla resilienza del regime di Pyongyang, checché pensi della sua politica, o sperare in concessioni degli Stati Uniti nei suoi confronti, mentre sta in posizione di debolezza. Pechino non sembra aver trovato, fino ad oggi, come aprire una terza via…

La razionalità mortifera di Kim Jong-un

La responsabilità storica dell’imperialismo statunitense nella crisi coreana è evidente [2]. La guerra del 1950-1953 non aveva niente a che vedere con la difesa della democrazia (il regime filo-statunitense del Sud era una dittatura) o del diritto dei popoli all’autodeterminazione; si trattava di contrastare il regime maoista e di evitare la vittoria di una rivoluzione coreana autentica. Washington ha sempre rifiutato di firmare un trattato di pace con Pyongyang, anche quando il regime nordcoreano era ripiegato su se stesso (il «regno eremita»). Lo stato di guerra è stato quindi mantenuto con le implicazioni molto reali menzionate sopra

In passato (in particolare sotto Clinton), accordi diplomatici limitati (come aiuti energetici contro il congelamento del programma nucleare) si sono dimostrati efficaci – ma Washington ha smesso più o meno rapidamente di rispettarli. Molte voci autorevoli si sono alzate quest’anno per esortare Donald Trump ad aprire negoziati con Pyongyang senza essere ascoltate. La crisi coreana permette agli Stati Uniti di riprendere l’iniziativa in Asia orientale, all’esercito americano di richiedere un aumento del suo bilancio e a Trump di fare un po’ dimenticare i suoi problemi nelle questioni interne. Perché privarsene?

Il regime nordcoreano vive effettivamente sotto minaccia e questa minaccia è oggi attiva. Vista la sorte di Saddam Hussein in Iraq o di Gheddafi in Libia, è logico che Kim Jong-un abbia concluso che gli Stati Uniti rispettano soltanto gli Stati in possesso di armi nucleari. Come molti esperti hanno sottolineato, le scelte di Pyongyang sono razionali; ma di quale razionalità parliamo?

Kim Jong-un ha reinterpretato il concetto di dissuasione nucleare dal debole al forte. Avrebbe potuto accontentarsi di una capacità «dissuasiva» destinata alla Corea del Sud e al Giappone. Pretende di minacciare direttamente gli Stati Uniti. Nonostante i progressi compiuti per quanto riguarda i missili intercontinentali, la tecnicità della bomba o le dimensioni delle testate, è ancora lontano dalla meta. Invece, contribuisce a rilanciare una corsa generale agli armamenti (che includono gli scudi antimissili), che ripristina la preminenza statunitense a lungo termine e ha conseguenze deleterie nel mondo intero.

Scegliendo l’escalation nucleare, Kim Jong-un ha rinunciato ad una altra via: fare appello nella regione alle aspirazioni popolari per la pace contro la politica guerrafondaia degli Stati Uniti. Ora, questa scelta alternativa era possibile e non era soltanto «giusta in linea di principio». Lo provano il rovesciamento della destra revanscista e l’elezione di Moon Jae-in nella Corea del Sud – o la profonda forza del pacifismo giapponese; per non parlare della fragilità di Trump negli Stati Uniti. Dal Pakistan e dall’India fino alle Filippine esistono movimenti antinucleari e antiguerra. Con la crisi coreana avrebbero potuto trovare un punto di convergenza transasiatica. Un’opportunità preziosa, perché mobilitare assieme movimenti provenienti da Sud, Sud-Est e Nord dell’Asia non è certamente scontato, poiché ognuna delle regioni ha una propria storia.

Quest’anno, all’ONU, 122 Stati hanno adottato il trattato di abolizione delle armi nucleari. Tutte queste lotte continuano oggi, ma sono indebolite dalla politica di Pyongyang.

La razionalità della politica di Kim Jong-un rimanda alla natura del suo regime autocratico, dinastico, etno-nazionalista. L’idea stessa di fare appello alla solidarietà internazionale, di promuovere lo sviluppo dei movimenti popolari antimperialisti, di costruire larghe alleanze diplomatiche, di giocare sulle divisioni interne negli Stati Uniti… gli è in modo visibile «organicamente» estranea.

Dobbiamo denunciare l’interventismo degli Stati Uniti, esigere il blocco della sua politica guerrafondaia, cercare di imporre un’immediata distensione, lottare per lo smantellamento delle sue basi e il ritiro delle sue forze armate. Non è necessario per questo presentare Kim Jong-un come un eroe della resistenza all’imperialismo!

Il grande gioco asiatico

Asia centrale (o media), Asia meridionale, Sud-Est asiatico, Estremo Oriente … Mondi musulmani, indiano e cinese… L’Asia non esiste come entità storica – se non, soprattutto dal 20° secolo, a livello geostrategico. Lì, tutto interferisce, anche solo a causa dei confini della Cina che vanno dalla Corea al Kazakistan.

La competizione Stati Uniti / Cina si svolge in tutti i continenti e in tutti i campi, ma assume una particolare densità in Asia.

Dopo l’implosione dell’URSS, si sono verificati rovesciamenti di alleanze piuttosto spettacolari. Ieri, Washington e Pechino sostenevano insieme Islamabad contro New Delhi, appoggiata da Mosca. Oggi gli Stati Uniti privilegiano l’India. La Cina, da parte sua, assicura la sua presenza in Pakistan con importanti investimenti legati alla costruzione di un «corridoio» che le conferisce un accesso privilegiato all’oceano.

In Asia meridionale, oltre alla lotta d’influenza Stati Uniti / Cina, la competizione Cina / India è decisiva, dallo Sri Lanka al Nepal o all’Afghanistan.

L’India, la Cina e gli USA sono oggi in concorrenza diretta in Birmania, apertasi di recente agli investimenti stranieri [3].

L’Asia sudorientale è paralizzata diplomaticamente dalle divisioni tra Stati clienti della Cina (Laos, Cambogia, Brunei) o la Thailandia sotto la sua influenza; Vietnam violentemente opposto a Pechino; Malesia e Singapore, che occupano nicchie importanti nel mercato mondiale ma subiscono la pressione economica cinese; il gigante indonesiano che vive ancora nel tempo ideologico della guerra fredda…

Gli equilibri geostrategici in Asia stanno diventando sempre più instabili. Se la Cina ha per ora perso l’iniziativa nell’Est del continente, ha invece avviato un gigantesco progetto di espansione verso Sud e Ovest: lo sviluppo di due nuove «vie della seta» (in riferimento alle vecchie rotte commerciali che collegavano l’Asia all’Europa), la via marittima che porta all’Africa e al Medio Oriente, la via terrestre al Kazakistan e l’Europa orientale.

Questo progetto è soltanto nella sua fase iniziale ed è troppo presto per sapere che cosa diventerà effettivamente; ma simboleggia il livello di ambizione della Cina di Xi Jinping.

Per l’abolizione delle armi nucleari!

Stiamo assistendo a due movimenti contraddittori.

Da un lato, la corsa alle armi nucleari è ripresa alla grande. Lo illustra l’impatto della crisi coreana in Cina. Fino ad allora, Pechino considerava che il possesso di un numero relativamente limitato di missili e testate gli permetteva di essere membro del club esclusivo delle potenze detentrici riconosciute e di applicare la dottrina (perversa) di deterrenza del debole al forte .

La diffusione dei missili antimissilistici THAAD nella Corea del Sud ha cambiato la situazione. Il loro campo d’azione copre in effetti una gran parte del territorio cinese, e non solo il nord della penisola, neutralizzando in larga misura l’arsenale esistente. Pechino deve dunque dotarsi di una flotta di sottomarini strategici (come la Russia) per disperderlo negli oceani. Per fare questo, deve modernizzare i suoi sottomarini e renderli meno «rumorosi», modificare il suo sistema di comando, miniaturizzare le sue testate e così via. Tutte cose non scontate; ma la decisione di principio sembra presa.

Il caso della Corea del Nord dimostra anche che la proliferazione continua oltre i detentori ufficiali (ci sono già Israele, Pakistan, India… domani il Giappone?).

Se l’arma esiste, un giorno verrà utilizzata, è una certezza. Stati come gli USA o la Francia lo prevedono. La peggiore minaccia nucleare per il mondo non viene ovviamente da Pyongyang e dal suo microarsenale, ma da Washington, una superpotenza in questo campo. Ascoltate Trump …

La controtendenza si esprime con l’adozione all’ONU, lo scorso luglio, del trattato per l’abolizione delle armi nucleari, ora aperto alla ratifica e alla firma degli Stati – e boicottato dalle potenze [ 4].

Chi ha sentito parlare di questo trattato-avvenimento in Francia? Il consenso nucleare francese uccide persino l’informazione. Ad eccezione di alcuni paesi (Giappone, India, Pakistan…), la sinistra radicale non si è impegnata nei movimenti per il disarmo, limitandosi nel migliore dei casi a petizioni di principio.

La crisi coreana potrebbe essere l’occasione per un esame di coscienza da parte nostra, preludio di un investimento politico serio su un tema veramente vitale …

Traduzione di Anne Marie Mouni

da Europe Solidaire Sans Frontières

Note

[1] Pierre Rousset, ESSF (articolo 41406), Filippine: la battaglia di Marawi, la crisi di Mindanao e il ruolo della solidarietà

[2] Vedi Pierre Rousset, ESSF (articolo 41214), La crisi coreana e la geopolitica nell’Asia nordorientale: dal passato al presente

[3] Pierre Rousset, ESSF (articolo 42024), Birmania: la politica di pulizia etnica contro i Rohingya, il regime birmano e enjeux geopolitici

[4] ESSF (articolo 41871), UN: Trattato sul divieto delle armi nucleari.