Qualche ministro non è ipocrita

Più volte ho caratterizzato questo governo Letta-Alfano-Napolitano come ipocrita, per le balle sul lavoro, sulle tasse rinviate, ecc. Ma sulla questione della spesa militare c’è un ministro che non accetta la reticenza, e ribadisce che dopo il rinvio “tecnico” bisogna spendere di più per “armare la pace”: Mario Mauro…

 

Ideologia bipartisan e cacciabombardieri

Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci  – il manifesto 27/6/13

Nonostante la sola sospensione di sei mesi dell'acquisto e la conferma dell'adesione al programma dei nuovi cacciabombardieri, qualcosa si è inceppato. Qualcosa si è inceppato nel pendolo che, con perfetto movimento bipartisan, ha fino ad oggi regolato la partecipazione italiana al programma statunitense del Joint Strike Fighter, il nuovo caccia della Lockheed Martin, ribattezzato F-35 Lightning. Perché è stato il governo D'Alema nel 1998 a firmare il primo memorandum d'accordo per partecipare al programma Jsf. È stato quindi il governo Berlusconi a firmare nel 2002, per mano dell'ammiraglio Di Paola (allora direttore nazionale degli armamenti), l'accordo che impegna l'Italia a partecipare al programma come partner di secondo livello. È stato nel 2007 il governo Prodi a perfezionarlo e a decidere l'acquisto di 131 caccia. È stato nel 2009 di nuovo un governo Berlusconi a deliberare l'acquisto dei 131 caccia. È stato nel 2012 il governo Monti a «ricalibrare» l'acquisto degli F-35 da 131 a 90 per dimostrare che tutti, di fronte alla crisi, devono stringere la cinghia. È stato nel 2013 il governo Letta a far capire, per bocca del ministro della difesa Mario Mauro, che gli aerei da acquistare dovrebbero essere più di 90 poiché c'é un precedente impegno parlamentare ad acquistarne 131.
Merito della mozione di Sel e M5S, che ha dato voce a quanti da anni si oppongono alla partecipazione italiana al programma dell'F-35, è quello di aver inceppato il meccanismo del consenso bipartisan. Per fare ciò si è fatto leva fondamentalmente sull'enorme costo dell'aereo, in gran parte ancora da quantificare, al quale – abbiamo già documentato sul manifesto – si aggiungono i costi operativi (almeno un miliardo e mezzo di dollari annui) e quelli ancora più ingenti per gli ammodernamenti e per i sistemi d'arma sempre più sofisticati. Restare nel programma significa quindi firmare un assegno in bianco, da pagare con denaro pubblico sottratto alle spese sociali.
Non ci si può però limitare alla questione del costo. Intervenendo ieri alla Camera, il ministro Mauro ha ribadito che gli F-35 sono necessari per sostiture i Tornado, gli Amx e gli Av-8b, arrivati al termine del loro ciclo di vita, aerei che hanno finora garantito l'«azione della difesa» che porta l'Italia a «ripudiare la guerra come strumento per la risoluzione delle controversie» e che allo stesso tempo rende necessario «il mantenimento al massimo dell'efficienza delle Forze armate». La questione di fondo su cui è chiamato a esprimersi il parlamento, sottolinea il ministro, è la seguente: «È pensabile ed è possibile, se amiamo la pace e vogliamo amare la pace, in alcune circostanze, armare le ragioni della pace?».
È questa la sfida da raccogliere non solo in parlamento ma nel paese. La questione dell'F-35 è infatti indissolubilmente legata alla politica militare, strumento della politica estera. Dobbiamo dire no all'F-35 perché è un pozzo senza fondo che ingoia miliardi di euro, pagati con denaro pubblico, perché sottrae risorse alle spese sociali per arricchire i grossi azionisti delle industrie belliche. Ma allo stesso tempo perché è concepito – lo spiega la stessa aeronautica militare – per «la proiezione in profondità del potere aereo», ossia per le guerre di aggressione. Altro che umanitarie. E perché rende l'Italia, tecnologicamente e militarmente, ancora più dipendente dagli Stati uniti.
Come abbiamo già detto, i piloti e i tecnici dell'F-35 saranno formati negli Stati uniti e verranno di conseguenza a dipendere dalla U.S. Air Force più che dall'aeronautica italiana. Gli F-35 «italiani» saranno integrati nel sistema C4 (comando, controllo, comunicazioni, computer) Usa/Nato: saranno quindi di fatto inseriti nella catena di comando del Pentagono. Sarà questo a decidere il loro impiego in una guerra e ad assegnare loro le missioni da compiere. Va ricordato a tale proposito che le 90 bombe nucleari statunitensi, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre, saranno trasformate in nuove bombe nucleari a guida di precisione, particolarmente adatte ai nuovi caccia F-35.
Questo caccia di quinta generazione serve quindi non ad «armare le ragioni della pace» ma ad armare le ragioni della guerra. Serve ad una politica militare ed estera che, nell'alveo di quella Usa/Nato, assume caratteristiche sempre più aggressive, camuffate dal paravento delle «missioni di pace». Violando quell'articolo 11 della Costituzione che il ministro Mauro (laureato all'Università Cattolica del Sacro Cuore) ha la faccia tosta di recitare.

 

Appendice

 

JSF-LOCKEED MARTIN

Il mega-business del complesso militar-industriale

– Manlio Dinucci

L'azienda capofila del programma F-35 è la Lockheed Martin, compagnia aerospaziale e di «sicurezza globale» con 120mila dipendenti e vendite nette per 50 miliardi di dollari annui. La stessa che costruisce i satelliti e le stazioni terrestri del Muos, una delle quali a Niscemi.
La «squadra» statunitense dell'F-35 comprende 1.400 industrie fornitrici e 32.500 addetti in 46 stati degli Usa. Tra i fornitori c'è anche l'Alcoa Defense, che fabbrica per i caccia F-35 elementi strutturali di primaria importanza (trasversali alla fusoliera in corrispondenza delle ali e interni alle ali).
Secondo i piani della Lockheed Martin, l'F-35 «porterà oltre 380 miliardi di dollari all'economia statunitense e altri miliardi come esportazioni». Gli interessi in gioco sono quindi enormi.
In Italia, le oltre venti industrie coinvolte – Alenia Aeronautica, Galileo Avionica, Datamat e Otomelara di Finmeccanica e altre tra cui la Piaggio – funzionano come reparti della «grande fabbrica» dell'F-35. Sotto la direzione della Lockheed Martin, che concede alle singole industrie solo il know how delle parti dell'aereo che producono: all'Alenia Aermacchi, ad esempio, quello per la produzione delle ali negli stabilimenti di Foggia e Nola (NA) e di Cameri (NO). Il know how complessivo, soprattutto quello relativo al software del caccia, resta di esclusiva competenza della Lockheed.
In Gran Bretagna la partecipazione industriale è capeggiata dalla Bae Systems, compagnia britannica largamente basata negli Stati uniti. Altre compagnie che partecipano al programma F-35 sono GE Aviation, Martin-Baker, Cobham, Ultra Electronics, Survitec, Goodrich, Rolls-Royce and SELEX Galileo.
In Turchia, la cui industria aerospaziale lavora da oltre 25 anni per la Lockheed Martin, viene fabbricato uno dei maggiori componenti strutturali del caccia ed è stata aperta una gara per ulteriori forniture.
La rete produttiva si estende anche ad altri paesi: Canada, Australia, Olanda, Danimarca, Norvegia e altri.
Si delinea così il progetto complessivo: quello di rafforzare il predominio delle industrie aerospaziali statunitensi nei paesi alleati, le cui industrie vengono integrate sotto la direzione della Lockheed Martin.
È questo un aspetto largamente sottovalutato anche tra gli oppositori dell'F-35. I favolosi guadagni prospettati comporteranno, in tutti i paesi partecipanti al programma, Stati uniti compresi, colossali esborsi di denaro pubblico che entreranno nella casse di industrie private e quindi, soprattutto, in quelle dei grossi azionisti. Si crea così una rete di potenti interessi a sostegno del progetto, in grado di influire sui governi e sui parlamenti.
Questa rete di interessi serve non solo a fini economici, ma contemporaneamente a fini politici e militari, fornendo sostegno alla strategia statunitense, assicurando che siano sempre gli Stati uniti ad avere la leadership sugli alleati. L'F-35 è quindi non solo un sistema d'arma. È uno strumento di influenza politica, economica e militare.
E quando i primi caccia F-35 diverranno operativi, sorgerà automaticamente l'esigenza di dimostrare le loro capacità in una guerra. Come è stato fatto con il Rafale francese che, non a caso, è stato nel 2011 il primo caccia a bombardare la Libia per procurarsi acquirenti sul mercato internazionale degli armamenti.
Manlio Dinucci