Repressione: Stati Uniti e dintorni

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Obama, i democratici e le misure di repressione

di Eric Ruder*

Un elemento di riflessione sulla logica dell’accrescersi costante della repressione in tutto il mondo. Gli Stati Uniti tracciano la strada ed erano idioti quelli che si illudevano su un possibile ruolo positivo di Obama, come se il colore della pelle contasse più dell’essere un esponente del sistema capitalista, scelto con un sistema elettorale in cui, fin dalle primarie di ciascun partito, contano soprattutto i miliardi spesi per pilotare un’opinione pubblica disinformata.

Per noi, un’analoga riflessione può partire dagli scandalosi arresti per le manifestazioni antiTAV, e dalle prime condanne per la manifestazione romana del 15 ottobre (in Appendice, una nota informativa di Checchino Antonini, che se ne intende per essere stato condannato a otto mesi per aver scritto sulle violenze al G8 di Genova…). E ne avevamo parlato riportando un ottimo articolo di Raúl Zibechi, in Grecia: aboliamo il popolo!

Altri dati sulla discutibile democrazia degli Stati Uniti, sul sito, nei molti testi dedicati a quel grande paese: ad esempio Gli Stati Uniti (ma nello stesso settore del sito ce ne sono diversi altri).

(a.m.24/2/12)

 

 

 

I colpi di manganello della polizia, l’odore dei gas lacrimogeni e lo spettacolo di arresti di massa sono diventati anche troppo abituali in parecchie città degli Stati Uniti, nell’autunno 2011 e durante questo inverno 2012.

Queste pratiche sono state la risposta delle autorità alla crescita del movimento Occupy e alla sua contestazione della ricchezza e dei privilegi politici dell’1%. Le scelte tattiche del movimento Occupy implicavano l’istallazione di accampamenti pacifici , come pure l’organizzazione di manifestazioni di massa. Si ritiene che questi due tipi di pratiche siano garantite dal Primo emendamento [della Costituzione del 1791]. Questo emendamento  è noto con il nome di Bill of Rights. Proibisce al Congresso degli Stati Uniti – e, di fatto, alla legislazione dei vari Stati come pure ai poteri esecutivi e alle istanze giudiziarie – di adottare leggi che limitino la libertà di espressione, quella della stampa o, anche, il diritto di “riunirsi pacificamente”.

Ciononostante, in poche settimane, gli esecutivi municipali delle città dalla costa orientale alla costa occidentale degli Stati Uniti hanno inviato la polizia antisommossa – che faceva un uso regolare delle sue manette di plastica (che interrompono la circolazione sanguigna ai polsi)  che prelevava dai giubbotti antiproiettile – a molestare ed arrestare i manifestanti del movimento Occupy e ad espellerli dalle strade.

Col pretesto delle preoccupazioni per la “salute e la sicurezza pubblica”, tutti i sindaci hanno ordinato alla polizia di evacuare gli accampamenti. Questa giustificazione suona strana poiché, anno dopo anno, proprio questi sindaci hanno operato tagli ai bilanci degli ospedali pubblici, ridotto gli aiuti sociali per il riscaldamento, e chiuso centri per senza tetto. Pratiche che hanno realmente messo in pericolo la “salute e la sicurezza pubblica”, e ciò per milioni di Americani.

Il numero totale di arresti di attivisti del movimento Occupy ammonta attualmente a 6477, a partire dal 17 settembre 2011.

Il trattamento di cui il movimento Occupy è stato oggetto da parte dei rappresentanti eletti e l’applicazione della legge da parte degli stessi inviano agli attivisti un messaggio senza equivoci: “Avete senz’altro diritto alla libertà di espressione, ma se cercate di farne uso, faremo tutto quel che è in nostro potere per impedirvelo!”

Questo attacco implica pure da parte dei rappresentanti eletti – di cui la maggior parte sono membri del Partito democratico, che proclama il suo sostegno ai diritti dei lavoratori – l’utilizzazione di tutte le risorse della legge per poter infierire a volontà contro i manifestanti.

 

A Chicago, dove la NATO e il G20 (il club dei governi più potenti del mondo) dovranno riunirsi nell’ambito di un vertice congiunto nel maggio 2012, il sindaco della città, Rahm Emanuel, è andato ancora più lontano [Rahm Emanuel è stato eletto sindaco di Chicago nel febbraio 2011, è entrato in funzione nel maggio 2011; rappresentante democratico dal 2003 al 2009 del 5° distretto dell’Illinois alla Camera dei rappresentanti; è stato capogabinetto di Barack Obama da gennaio 2009 a ottobre 2010. Ha mantenuto sempre la doppia cittadinanza statunitense e israeliana NdR]. Tra le proposte che ha sottoposto al Consiglio municipale ne spiccano particolarmente due: di fatto il divieto per due persone di portare uno striscione o, per altri, di far uso di un megafono ; questo senza aver avuto un’autorizzazione tramite precisa domanda scritta con un mese di anticipo, costituirebbe una violazione della legge.

La sera di San Silvestro, Barack Obama ha firmato il National Defense Authorization Act, che dà al presidente il potere di porre in detenzione dei cittadini americani per una durata indefinita senza prove a carico. Si tratta di una nuova tappa degli attacchi contro i diritti e le libertà civili, che sono stati inaugurati dalla famosa “guerra contro il terrorismo” di George W.Bush, ma che è stata proseguita dall’amministrazione democratica di Barack Obama.

Durante lo stesso periodo, il governo federale ha sborsato più di 34 miliardi di dollari per equipaggiare le polizie locali, come se fossero dei piccoli eserciti, con materiale di tipo militare. Sotto pretesto di preparare questi corpi di polizia a “scenari di lotta contro il terrorismo”, persino città addormentate come Fargo – Stato del Dakota del Nord – hanno acquistato veicoli blindati, fucili d’assalto e caschi Kevlar [marchio depositato per certe fibre sintetiche molto resistenti utilizzate in particolare per l’esercito]. La contea di Montgomery, nel Texas, ha schierato recentemente un drone di sorveglianza – aereo senza pilota – del costo di 300’000 dollari, dello stesso tipo di quelli utilizzati dall’esercito americano in Pakistan e in Afganistan.

Nessuno può pensare seriamente che Fargo possa costituire un bersaglio per dei “terroristi”. Sorge allora la domanda: perché città con dei budget in crisi vorrebbero sobbarcarsi simili spese, enormi, per acquistare e mantenere tali arsenali.

La risposta: è l’emergenza di un potente movimento sociale in un’epoca di crisi sociale che costituisce una “minaccia” contro la quale è meglio prepararsi.

I politici utilizzano invariabilmente ogni possibilità per ringraziare “le nostre donne e i nostri uomini in uniforme” di proteggere le “libertà che ci sono care”. Quante volte questo tipo di retorica è stato usato per gettare il discredito su coloro che criticano la guerra?

I dispiegamenti militari degli Stati Uniti all’estero sono sempre stati accompagnati da restrizioni delle libertà civili nel paese. In effetti, il governo federale si prepara a rispondere alle mobilitazioni popolari contro i suoi obiettivi di guerra – e alla necessità di operare dei tagli di bilancio per finanziare le spese militari – con arresti, infiltrazioni [poliziesche] e la carcerazione dei “sobillatori”.

Durante la Prima Guerra mondiale, il socialista Eugene Victor Debs [1855-1926] è stato imprigionato a causa dei discorsi appassionati che ha pronunciato contro la guerra. Durante la Seconda Guerra mondiale, il governo ha adottato delle leggi contro i radicali, come lo Smith Act (1). Nel corso della guerra contro il Vietnam, l’FBI ha spiato, infiltrato e seminato la discordia in seno ai movimenti contrari alla guerra, che si battevano per i diritti civili [degli Afroamericani] e per il Black Power.

In verità, lungo tutta la storia americana, il riconoscimento del diritto  “alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità” che figura nella Dichiarazione di Indipendenza [degli Stati Uniti, testo che risale al 1776] non è mai avvenuto di buona voglia, ma è stato piuttosto concesso a malincuore. Sin dall’inizio [della storia degli Stati Uniti indipendenti], i “Padri fondatori” ebbero paura del “regno delle folle” e hanno cercato di limitare il diritto di voto degli uomini – e solo degli uomini – riservandolo il più possibile a dei proprietari come loro, ai quali si poteva dare fiducia per il loro “giusto discernimento”.

 

Nel corso della Rivoluzione americana, John Adams, [secondo presidente degli Stati Uniti tra il 1797 e il 1801] mise in guardia contro ogni tentativo di “estendere la qualità degli elettori. Altrimenti, non ci saranno più limiti […].Le donne chiederanno di votare. I giovani tra i 12 e i 21 anni penseranno che i loro diritti non sono sufficienti, e ogni uomo, che non ha nemmeno un soldo, rivendicherà una capacità uguale a qualsiasi altro uomo di pronunciarsi sugli atti dello Stato. Ciò finirà per confondere e distruggere tutte le distinzioni e per abbassare tutti i ranghi allo stesso livello”. [Lettera a James Sullivan, 26 marzo 1776].

Alexander Hamilton, un altro “Padre fondatore”, ha espresso il suo accordo con l’approccio di Adams. “Ogni comunità è divisa tra i pochi e la moltitudine”, ha scritto. “I primi sono composti dai ricchi e da chi ha origini nobili; la seconda dalla massa del popolo”. La soluzione avanzata da Hamilton: mentre le masse “turbolente”, sprovviste di proprietà, “giudicheranno e formuleranno le leggi raramente”, i ricchi dovranno disporre di una “partecipazione distinta e permanente nel governo[degli affari del paese]”.

Questa avversione contro una democrazia piena e intera non è particolare dei democratici autoproclamati d’America. “ Il suffragio universale metterebbe in pericolo tutti gli scopi per i quali esiste il governo”, ha scritto lo storico britannico del XIX secolo e politico conservatore Lord  Macaulay. E aggiungeva:”E sarebbe completamente incompatibile con l’esistenza della civiltà”.

Per afferrare la relazione complessa tra democrazia e capitalismo, sarebbe necessaria una messa in prospettiva storica. Non è il momento di farlo qui. Ma un elemento può essere sottolineato: non bisogna confondere in modo semplicistico democrazia e diritti democratici. In questo sistema, la proprietà privata enorme e concentrata – dalle grandi banche, assicurazioni fino alle grandi imprese industriali o di distribuzione – si eleva come un limite netto all’estensione dei diritti democratici della maggioranza dei salariati. Da qui la viva reazione repressiva di fronte a coloro che, tendenzialmente, mettono in questione il potere gigantesco – economico, e quindi anche politico – dell’1%.      

 

* Il testo, in francese, è apparso sul sito www.alencontre.org. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà (Ticino)

1.  Approvato nel 1940, sotto F.D.Roosevelt, lo Smith Act – o Alien Registration Act – implicava: 1. la persecuzione penale contro coloro che affermavano che bisognava rovesciare il governo; il che permise di arrestare dei socialisti rivoluzionari, dei comunisti (staliniani) e anche alcuni fascisti. 2. A questo si aggiungeva l’obbligo per tutti i residenti che non fossero cittadini americani di iscriversi presso l’amministrazione federale; più di 4,7 milioni hanno dovuto farlo. Il trattamento applicato ai residenti – compresi i cittadini americani – di origine giapponese è più noto: campi di internamento, ecc.

    Queste misure non devono sorprendere gli Svizzeri che non realizzano che il Controllo abitanti, quale istituzione elvetica e patriottica, non ha uguale se non nelle analoghe istituzioni sotto il regime nazista e staliniano. Questo Controllo abitanti obbligava, ancora non molto tempo fa, un “Friburghese” che andava a vivere a Ginevra di dichiararsi subito al Controllo abitanti di Ginevra. Riceveva un permesso di dimora per Svizzeri, rinnovabile!

    Quanto agli aspetti del Controllo abitanti “riservati” agli “stranieri” e alla “polizia degli stranieri” che l’accompagna, lasciano apparire l’Alien Registration Act come una misura più che “giusta”. Ora, il suo carattere anticostituzionale è stato riconosciuto (negli Stati Uniti) nel 1957. Ma non è stato abrogato.

 

 

Appendice

Sulle condanne per il 15 ottobre

 

Contro di loro non ci sarebbero prove ma si sono visti appioppare le condanne più pesanti tra quelle inflitte, finora, per gli scontri del 15 ottobre. Quel giorno Giuseppe e Lorenzo, diciannovenni, avevano deciso di unirsi ai trecentomila indignati che manifestavano contro le politiche di austerità della Bce. La prima manifestazione della loro vita.

Di loro la procura possiede solo le immagini girate da un ragazzino dal terrazzo di casa sua, in via Carlo Botta, dietro via Merulana. Lui e la madre erano stati in finestra per ore, preoccupati per la sorte della macchina parcheggiata sotto casa. E’ la voce della donna a urlare che quei ragazzi, immortalati a mani alzate mentre si lasciano arrestare docilmente, non c’entrano nulla con gli scontri. «Non sono loro che dovete prendere, questi stavano buoni. Non sono loro che dovete prendere». Spontaneamente, madre e figlio, porteranno il video in questura e confermeranno quelle parole: da almeno un quarto d’ora – fa fede la videocamera – erano seduti su quel gradino. Credevano di aver trovato un angolo tranquillo da cui cercare un varco per prendere una metreo, raggiungere la macchina e tornare nella provincia romana. Giuseppe è uno studente di istituto tecnico, Lorenzo giardiniere, precario. Famiglie modeste ma che li seguono molto. Nessuno dei due è un attivista in senso stretto. A trascinarli in piazza, la propria condizione materiale e il tam della rete sulla nascente indignazione italiana.

L’unico atto d’accusa è il verbale degli agenti, che però in aula non li avrebbero riconosciuti. Un verbale che descrive la scena di un gruppo di 200 facinorosi respinti da S.Giovanni in via Merulana e nelle strade limitrofe. Un gruppo sempre più assottigliato fino a diventare una squadra di calcio. Gli arresti furono undici.

Lorenzo ha preso cinque anni, Giuseppe quattro. Il reato è lo stesso, resistenza aggravata a pubblico ufficiale, ma per pm e gup la differenza sta nel fatto che Lorenzo, timoroso di eventuali lanci di lacrimogeni, s’era portato una mascherina antigas che gl’hanno trovato nello zaino. «Una sentenza pesantissima e che potrebbe rovinar loro la vita – dice la loro legale, Maria Luisa D’Addabbo – ora dovremo attendere i trenta giorni che s’è riservato il gup per pubblicare la sentenza e capire quali siano i gravi indizi di colpevolezza in base ai quali è stata comminata una sentenza di una sproporzione incomprensibile».

La prima condanna a 3 anni e 4 mesi per gli scontri fu inflitta il 17 novembre a Giovanni Caputi. La seconda condanna è stata emessa il 9 febbraio al romeno Robert Scarlat, al quale sono stati inflitti due anni di reclusione per resistenza pluriaggravata e lesioni personali gravi. Alemanno – a stretto giro di agenzie – esprime il suo vivo apprezzamento per quello che sembra un madornale errore giudiziario mentre – dalla parte opposta dell’etica e della politica – Paolo Ferrero, segretario Prc – registra la pessima aria che tira a poche ore dalla manifestazione No Tav di sabato prossimo.

(Checchino Antonini)