Spagna | Alcuni insegnamenti dall’esperienza di Podemos

 

 

di Brais Fernández e Miguel Urbán Crespo

Fare un bilancio dell’esperienza di Podemos risulta facile e difficile allo stesso tempo. Da un lato, se ci limitiamo ai risultati, il bilancio è senza dubbio desolante. Podemos non è stato capace di conseguire gli obiettivi per i quali era nato e si è trasformato, in termini gramsciani, in un progetto trasformista. Pur tuttavia, la sua nascita ha significato l’inizio di un inedito ciclo politico in Spagna. Dopo decenni, per la prima volta una forza politica anti-neoliberale si poneva l’obiettivo della conquista del potere politico.

La nostra analisi si sforzerà di svilupparsi lungo questa doppia interpretazione: fra il riconoscimento dell’audacia alla base della sua formazione e quello dei suoi limiti, dei suoi errori e del suo fallimento. Quella che era nata come una forza per cambiare tutto si è trasformata in una forza funzionale al sistema che gestisce. Era possibile un diverso esito? E la sua involuzione pone in discussione l’ipotesi di costruire organizzazioni politiche larghe attorno a obiettivi concreti?

Sono, questi, interrogativi più importanti di quanto potrebbe sembrare. Soprattutto se ci consideriamo parte di un movimento socialista e anticapitalista internazionale, che si sforza di ricavare insegnamenti dalle esperienze nazionali, di collegarle fra loro e di tracciare parallelismi ragionevoli che consentano una discussione e l’elaborazione di strategie comuni. Si deve partecipare attivamente a fenomeni come la campagna di Sanders, a Syriza, alla sinistra laburista di Corbyn o a movimenti come il chavismo? E sino a che punto ha senso parteciparvi? Perché questi movimenti non conseguono i propri obiettivi? Oppure, al contrario, dobbiamo collocarci ai margini di questi fenomeni? E quali sono i problemi con cui hanno a che fare queste esperienze? Cercheremo di fornire alcune possibili risposte a questi interrogativi a partire dall’esperienza di Podemos.

Alle origini di Podemos

Podemos venne fondato sulla base di un accordo “dall’alto” fra Pablo Iglesias e l’allora Izquierda Anticapitalista (attualmente Anticapitalistas, denominazione che impiegheremo d’ora in poi). Come spesso suole accadere, le ricostruzioni successive hanno “teleologizzato Podemos, presentandolo come il frutto di un’idea geniale, completa sin dall’inizio in tutti i dettagli, di un gruppo di politologi. Una versione, questa, del tutto falsa.

Sin dalle sue origini in Podemos convivevano diverse idee su quello che doveva essere il progetto. Da una parte, c’era la percezione che Izquierda Unida era un progetto del tutto insufficiente per canalizzare il malessere e le sedimentazioni lasciate dal 15 maggio [1]. Era pertanto presente l’idea della necessità di un’altra sinistra. L’esperienza del Bloco de Esquerda portoghese serviva da esempio: un’organizzazione plurale, con una forte presenza pubblica, un discorso radicale e una pratica militante strutturata attorno a un partito attivista. In questo stesso senso, anche l’emergenza elettorale di Syriza rappresentava un altro processo destinato a pesare fortemente nell’ipotesi originaria di Podemos.

Ricordiamo che nel 2014 Syriza era una sinistra radicale raggruppata, assieme a settori più moderati, attorno a un progetto anti-neoliberale. Fondata sulla base dell’esperienza militante dell’organizzazione del Foro sociale europeo di Atene, si trattava di un’esperienza che aveva compreso l’importanza di non essere subalterni al social-liberismo del Pasok nella sua gestione dei memorandum dell’austerità. Il settore anticapitalista di Podemos, dunque, elaborò la sua visione del progetto sulla base di questi esempi internazionali, anche se rapidamente si vide scavalcato.

Questa visione conviveva con un’altra prospettiva: quella che si ispirava ai processi populisti latinoamericani, che avevano segnato la esperienza politica e di vita del gruppo organizzato attorno a Pablo Iglesias e a Errejón. Si trattava di costruire un progetto fluido, attorno a un centro di comando mediatico agile e autonomo, capace di proiettarsi elettoralmente grazie a un rapporto a distanza, ma rappresentativo, con una massa eterogenea e destrutturata. Un piccolo centro di comando mediatico capace di introdurre un cuneo nel panorama politico tradizionale o, per usare la terminologia del binomio Iglesias-Errejón, di costruire una «macchina da guerra elettorale».

Tuttavia, una delle principali caratteristiche di Podemos nella sua prima fase fu la sua capacità di smentire tutte le previsioni. In effetti, per usare un’espressione molto ricorrente, la «quantità» si trasformò in «qualità». Il volume del progetto, il suo impatto, le adesioni che si ebbero, eccetera, sorpresero i suoi fondatori. Il problema però è che questo travolgente successo fu canalizzato con più abilità dalla «ipotesi populista» che dalla «ipotesi anticapitalista», costringendo sempre quest’ultima ad agire nel quadro della prima.

Per capire le ragioni di tutto ciò, dobbiamo tener conto delle condizioni in cui è nato Podemos. Innanzi tutto, va detto che l’unica sinistra organizzata che ha partecipato alla sua fondazione è stata Anticapitalistas. Un’organizzazione di poche centinaia di militanti, scarsamente presente al di là delle grandi città e molto “confinata”, per così dire, nella tradizione della sinistra radicale, ma però con una sufficiente consapevolezza della necessità di superarsi in altri progetti, senza per questo dissolvervisi. Quanto agli altri settori dell’attivismo sociale, nei primi tempi hanno guardato a Podemos con scetticismo, quando non con ostilità, mentre la sinistra tradizionale lo considerava apertamente come un nemico.

In un certo senso, la fase iniziale dell’emergere di Podemos ricorda l’entrata della CUP [2] nel Parlament [di Catalogna]. David Fernández aveva detto allora che l’avvenimento «aveva provocato uno stress alla sinistra e spaventato la destra». Noi diremmo, inoltre, che ha generato una speranza e un’emozione essenziali per costruire una sensibilità sociale capace di connettersi con le persone in tempi eccezionali. Nonostante ciò, le basi organizzative di Podemos, il suo capitale iniziale, erano estremamente fragili e deboli per poter organizzare il torrente umano che si era liberato. (Tutt’altra storia è quella che riguarda i maggiori detrattori di Podemos, che quando presero atto del suo successo, aderirono al progetto per assicurarsi posizioni … Questa storia, di come il successo attrae gli opportunisti, deve ancora essere raccontata.)

Un altro fattore fu rappresentato dallo stato delle lotte sociali al momento della formazione di Podemos. È indubbio che esiste un rapporto tra Podemos e il 15 maggio. Podemos non avrebbe avuto successo senza il lascito del ciclo del 15 maggio. Il 15 maggio è stato, soprattutto, espressione della crisi organica del regime spagnolo: un’intera generazione, colpita dalla crisi, ha preso le distanze dai partiti tradizionali. Ma il 15 maggio e le lotte che ne derivarono stavano già attraversando una profonda crisi quando comparve Podemos. Senza un orizzonte politico, le lotte andavano esaurendosi. Podemos è stato capace di fornire un nuovo orizzonte a questo processo di fondo (vincere le elezioni e inaugurare un processo costituente [3]), ma già non si alimentava di loro e della loro radicalità. E questa sfasatura temporale ha sempre costituito un ostacolo – nonostante certa retorica – nel permettere a Podemos di collegarsi alle lotte sociali di massa. Di fatto, sebbene l’emergere del 15 maggio abbia inaugurato, per riprendere le parole di Daniel Bensaïd, una certa «illusione del sociale» – autosufficienza dei movimenti sociali e rifiuto della questione politica come conseguenza di tutta una prima fase di ascesa delle lotte -, la comparsa di Podemos ha a sua volta inaugurato una «illusione elettoralistica» in cui l’«assalto alle istituzioni» ha assorbito le energie sempre più scarse di un ciclo politico in declino.

Infine, ci sono fattori più di fondo che hanno a che fare con la strutturazione politica nel tardo capitalismo. La debolezza e l’isolamento del movimento operaio producono società destrutturate e inorganiche, nelle quali i media finiscono per assumere il ruolo proprio in precedenza dei partiti: [nuovi] intellettuali organici che costruiscono il consenso e generano legami morali tra i cittadini.

La leadership di Pablo Iglesias, al di là delle caratteristiche personali, è sempre stata condizionata da questa situazione. La sua abilità nel porsi come figura di riferimento, approfittandone per avviare un processo di rottura, non è mai stata compensata da una visione strategica, ma si è piuttosto alimentata, coscientemente, delle lotte intestine. Noi di Anticapitalistas abbiamo sempre avuto consapevolezza di questa situazione, e qui vi è stato uno dei principali punti di contrasto con il nucleo dirigente di Iglesias. Per noi i Circoli [4] avrebbero dovuto essere uno spazio di auto-organizzazione popolare che (per tentativi ed errori) avrebbero potuto costruire, dal basso e collettivamente, una maggioranza sociale per affrontare la grande sfida di un processo costituente. I Circoli, dunque, come gli strumenti necessari per allargare lo spazio sociale e consentire di trasformare in egemonico un pensiero alternativo a quello rappresentato dalle élites. E come un vaccino necessario contro i rischi dell’iper-leadership.

Ma l’enorme autorità di cui beneficiarono le figure pubbliche non è mai stata utilizzata per rafforzare il progetto da un punto di vista organico. Al contrario, ebbe come unico obiettivo quello di emarginare e annientare i settori che, all’interno di Podemos, si sforzavano di canalizzare la pressione delle masse e di formare un’organizzazione di nuovo tipo. Il processo di autorganizzazione basato sui Circoli è stato la prima vittima della «Macchina da guerra elettorale», che ha consolidato il modello di iper-leadership a scapito della creatività e della sperimentazione democratica che presupponeva il torrente sociale inizialmente raggruppatosi in Podemos.

In questo senso, possiamo dire chiaramente che le decisioni di un piccolo nucleo hanno condizionato lo sviluppo di tutto il progetto. Il paradosso è che quando questo nucleo si è reso conto di essere andato troppo oltre e ha cercato disperatamente di correggere la rotta, aveva già distrutto le condizioni che avrebbero potuto renderla possibile. Prima che Podemos facesse la sua scelta attuale (governare con il PSOE e, in cambio, accettare un ruolo subalterno nel quadro di un’egemonia social-liberale), vi furono vari tentativi di riorganizzare il progetto dal basso e, in una certa misura, di correggerne le debolezze. Ma era ormai troppo tardi: il tempo era scaduto.

A nostro avviso, c’è una tensione tra la verità leninista (le organizzazioni si costruiscono se c’è stato prima un sufficiente accumulo di forze) e quella luxemburghiana (le organizzazioni si costruiscono durante i processi in corso), che, nel caso di Podemos si risolse nel peggiore dei modi. Né il nucleo politico iniziale di Podemos disponeva di un’accumulazione di forze militanti sufficiente a strutturare il processo cui aveva dato inizio, né il processo aveva l’obiettivo di correggere questo deficit. Le limitazioni dell’epoca si combinarono nel peggior modo possibile con le decisioni soggettive.

La strategia

C’è stato un momento, ormai lontano, in cui la possibilità che Podemos vincesse le elezioni sembrava reale. Questa effervescenza, questa «ubriacatura collettiva», ha molto semplificato i problemi relativi a un cambiamento politico in una democrazia capitalista occidentale. Il dibattito strategico finì col ridursi a due questioni. Al suo apogeo, l’intera prospettiva di Podemos consisteva nel vincere le elezioni e aprire un processo costituente «per decidere tutto». Durante il suo declino, tutto il dibattito si è ridotto alla decisione se governare o no con il PSOE. E nella fase di decadenza, su quanti ministeri toccavano a Podemos in un governo a guida socialista. Per riassumerlo sinteticamente, Podemos è nato per «assaltare il cielo» e ha finito per «salvare i mobili».

Naturalmente, tutto ciò accompagnandolo sempre con una retorica trionfalistica intrisa di un culto dell’immediatezza, dipendente dai tempi scanditi dai social e dai media. Così, il cosiddetto problema della «comunicazione» s’è trasformato in un’ossessione, in cui ciò che era urgente veniva sempre prima di ciò che era importante. Un tatticismo senza strategia, che ha ottenuto risultati a breve termine e prodotto problemi a medio termine. E, come ha scritto Sun Tzu, «le tattiche senza strategia sono il rumore prima della sconfitta». Perché non possiamo dimenticare che, nonostante il fatto che Podemos abbia conseguito livelli di rappresentanza significativi quali la sinistra spagnola non aveva ottenuto da decenni, le sue ipotesi strategiche fondamentali – di non subordinazione al PSOE, di rottura del regime e di processi costituenti – sono scomparsi dall’orizzonte politico della formazione viola [5].

Tra i dibattiti di fondo con ricadute pratiche nei quali Podemos ha dato prova di una grande debolezza, ne segnaleremo tre fondamentali.

In primo luogo, una tremenda ingenuità nei confronti della questione dello Stato. La visione politicista, tipica della politologia mainstream, considera lo Stato come un apparato fluido, come «un rapporto sociale», ma senza ricavarne implicazioni strategiche. Il grado di asprezza con cui lo Stato ha risposto all’emergere di Podemos non è stato tanto alto sotto l’aspetto coercitivo, quanto sotto quello ideologico. In Podemos non ci sono mai state una seria discussione e una proposta di strategia su cosa significasse che lo Stato era una «condensazione del rapporto di forze tra le classi». Gli apprezzamenti opportunistici sulla patria e sulla polizia, con i quali si cercava di compensare in modo superficiale e, appunto, opportunistico questo deficit, hanno nascosto la questione di fondo: l’incapacità di individuare e conquistare gli elementi chiave dello Stato, che avrebbero consentito di instaurare un rapporto di forze costituenti all’interno di esso.

Diciamolo chiaramente: la magistratura, la polizia e l’esercito, per la loro composizione politico-ideologica e di classe, sono organi strutturalmente reazionari che possono essere neutralizzati solo accerchiandoli con forze sociali vive, attive e antagoniste. I lavoratori della sanità, dell’istruzione e della pubblica amministrazione costituivano la base potenziale sulla quale strutturare un processo di cambiamento costituente che contasse anche all’interno dello Stato. Questi settori erano anche i più propensi ad appoggiare ciò che sosteneva il primo Podemos. Nulla è stato fatto per organizzarli e dotarli di forza politica: quando si vinsero alcune elezioni, come nei municipi, non si disponeva né di un piano né della forza per affrontare le sfide che l’«assalto alle istituzioni» presupponevano.

In nessun momento si sono ricavate lezioni dall’esperienza del governo Syriza, dalle sue difficoltà non solo nel dover fare i conti con un apparato statale ostile ma, soprattutto, nel saper sviluppare una politica anti-austerità nel quadro del rapporto di forze con l’Unione europea (dove il Meccanismo europeo di stabilità era in pratica una macchina bellica in grado di rovesciare governi e politiche che non rispettassero lo schema di austerità: un pericolo che ora si profila all’orizzonte del governo di coalizione in Spagna).

Dopo Syriza e la Grecia, l’esempio successivo è rappresentato da quegli stessi “municipi del cambio” che vennero eletti ​​con lo slogan «Sì, si può» [Sí se puede] e hanno finito per fare proprio i criteri di gestione della miseria consentiti dalle regole di bilancio, con un rassegnato «Non si può», preludio per molti di essi alla successiva sconfitta elettorale. Ma l’aspetto più pericoloso di questa situazione non è stata tanto la sconfitta in sé, quanto il non volerla riconoscere: ovvero, la capacità di fare di necessità virtù, proclamando vittorie fittizie che nascondono le difficoltà e le contraddizioni dei processi di cambiamento e che impediscono di trarne insegnamenti politici. Una logica di fuga in avanti, che ti allontana dalla tua base sociale, rafforzando i meccanismi di rappresentanza a scapito delle dinamiche d’organizzazione popolare.

La seconda questione sulla quale Podemos è naufragata è stata quella dell’economia politica. Il gruppo dirigente di Podemos, prigioniero dei propri pregiudizi post-marxisti, ha sempre considerato la società come un terreno di gioco politicista, in cui il potere economico era un potere esterno da combattere e non il rapporto sociale che determina l’intera società. Senza disporre, all’inizio, di un proprio programma economico (al di là qualche slogan di fondo, come la nazionalizzazione delle banche, il controllo cittadino, il non pagamento del debito e/o la nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia), Podemos ha finito rapidamente col fare proprie concezioni keynesiane, occultate da una nuova operazione di marketing mirante a “socialdemocratizzare” l’immagine del partito per farlo apparire come una forza di governo.

Questo revival eurocomunista è entrato in urto con l’orientamento generale del movimento di fondo su cui si basava Podemos: puntare al cuore del capitale finanziario. La battaglia principale si è spostata verso una visione superficiale dell’aspetto istituzionale, inteso come una gara per conquistare posizioni nell’apparato rappresentativo dello Stato. Questo spostamento ha influito negativamente sui rapporti di forza, generando illusioni di vittoria e rendendo impossibili rapporti virtuosi tra il livello istituzionale e la mobilitazione popolare. L’esempio del Consiglio comunale di Madrid, dove Manuela Carmena (sindaca sostenuta da Podemos e successivamente passata all’”errejonismo“[6]) ha realizzato, in nome del “progresso”, la più grande operazione immobiliare-finanziaria al servizio della banca mai prima avvenuta in Spagna, è un buon esempio dei risultati di questa visione delle cose.

Infine, le particolarità nazionali dello Stato spagnolo hanno rappresentato un vero campo minato per Podemos. In Spagna vi sono nazioni senza Stato che esprimono movimenti indipendentisti di massa, come i Paesi Baschi e la Catalogna. In altre nazioni, come la Galizia, c’è un forte sentimento nazionale. Ma la crisi del sistema politico spagnolo ha esteso questo sentimento di ingiustizia territoriale praticamente a tutte le regioni dello Stato. Nella sua prima fase, Podemos ha saputo incanalare questo sentimento verso l’idea di un processo costituente. Ma, quando abbandonò questa prospettiva, il malessere è tornato al suo alveo territoriale (con l’eccezione della Catalogna, dove l’aspirazione costituente si combinò con l’aspirazione sovranista).

Oggi Podemos potrebbe finire con lo scomparire dalla maggior parte dei territori della Spagna; e un significativo indice di ciò sono stati i recenti risultati elettorali in Galizia, dove il suo spazio è stato occupato da partiti che hanno posto al centro della loro azione politica la questione nazionale-territoriale, apparendo un’opzione più credibile per sfidare il regime del ’78 [7]. Il rifiuto di Podemos di esplorare fino in fondo la natura confederale e plurinazionale dei popoli di Spagna lo ha lasciato senza spazio tra i progetti centralisti della destra, il progetto di Stato delle autonomie del PSOE e i nuovi o vecchi nazionalismi periferici che, oggi, costituiscono la principale opposizione o alternativa al sistema politico spagnolo.

Alcune conclusioni

Podemos ha subito un processo trasformistico. Questo processo ha due facce. Da un lato, Podemos ha cessato di essere un partito a vocazione antisistema e costituente, finendo per occupare lo spazio che tradizionalmente è stato quello del Partito comunista nel sistema politico spagnolo, ma senza i legami che quest’ultimo aveva con il movimento operaio: un partito di sinistra, vagamente riformista, difensore dell’ordine politico esistente, adattato alla politica economica della classe dirigente. Podemos, d’altra parte, ha allentato i legami con la forza sociale che lo espresse e, oggi, non è altro che qualche portafoglio ministeriale con una certa base elettorale.

Senza dubbio, la nuova crisi in atto implica che dovranno essere costruiti nuovi strumenti antisistemici, pur se in circostanze molto diverse. Il problema attuale è che ci troviamo all’inizio di una lunga ricostruzione ma, allo stesso tempo, impegnati in una corsa contro il tempo per far fronte a una crisi distruttiva non solo sociale ma anche ecologica (e la pandemia di coronavirus è solo un antipasto di ciò che può provocare il collasso del clima se non facciamo nulla). Questa situazione ci ripropone un interrogativo fondamentale: un’organizzazione rivoluzionaria dovrebbe scommettere ancora una volta su un ampio progetto anti-neoliberista e antiregime, come era all’inizio Podemos?

Per noi la risposta è chiara: è sì. Podemos è stata una scommessa arrischiata e audace che ci ha permesso di fare politica (se intendiamo per politica, come diceva Lenin, il momento in cui milioni di persone entrano in movimento). Ovviamente, ci sono momenti di flusso e di riflusso, momenti in cui la politica rivoluzionaria è l’arte di resistere e mantenere viva la speranza. Ma sempre con la vocazione di prepararsi a ciò che Bensaïd chiamava «i salti»: sempre con una lenta impazienza.

Alle prese con una sinistra radicale reificata, che rifiutava i processi viventi perché si crede capace di indirizzarli da sé, l’esperienza di Podemos ha permesso a un settore del socialismo anticapitalista di lottare per imprimere un corso politico trasformatore a un «movimento reale». I risultati non sono stati quelli attesi, ma abbiamo cercato di spiegare come ciò sia stato l’esito di una lotta politica il cui risultato non era predefinito, sebbene fosse sovradeterminato dalle sue condizioni di partenza. Dobbiamo fuggire dalla tentazione di rifugiarci nella «illusione del sociale», prodotto da una sconfitta politica che ci invita a cercare uno spazio più accogliente e con meno contraddizioni. In breve: tornare semplicemente a fare quello che facevamo prima di Podemos non può essere una soluzione.

Tra l’altro, perché siamo entrati in un’epoca storica convulsa, in rapida accelerazione, in cui gli scoppi sociali e il malcontento politico si combinano con una profonda involuzione di civiltà. Il governo progressista [8] in Spagna è un governo che mostra tutti i limiti intrinseci al governare sotto l’egemonia del social-liberalismo. Al di là della propaganda per consumo interno, il governo PSOE-Podemos non è stato in grado di varare alcuna riforma progressista significativa: il famoso reddito minimo vitale è un clamoroso fallimento (solo il 6 % di chi lo ha richiesto lo riceve), le casse dello Stato stanno prosciugandosi perché le tasse sui ricchi non sono state aumentate (preludio all’austerità e ai tagli), il governo è incapace di porre un freno alle chiusure di società strategiche (giacché si rifiuta di porne in discussione la proprietà), e neppure in settori come l’istruzione pubblica o la sanità, al di là di una propaganda sempre meno credibile, si nota l’esistenza di un concreto progetto anti-neoliberista. Questo governo non è stato nemmeno in grado di abrogare la riforma del lavoro, una richiesta storica del movimento operaio, inclusa nell’accordo di governo.

La situazione è, senza dubbio, preoccupante: il fallimento e la viltà politica del progressismo potrebbero comportare lo sviluppo di opzioni reazionarie, che cavalchino la disaffezione e la delusione politica. La debolezza dello Stato e delle forze politiche che propongono miglioramenti politici «senza lotta di classe» apre la via a ogni sorta di opzioni mostruose. Questa circostanza, unita alla profonda crisi economica, sociale ed ecologica del capitalismo (la più importante della nostra era), ci propone un panorama desolante: se la storia continua a svolgersi nel suo corso naturale, la logica conclusione è il disastro. La necessità di una frenata di emergenza apre la strada alla necessità di un’apertura permanente.

L’attuale deriva di Podemos e la sua trasformazione in un partito debole e sempre più insignificante non ne invalida l’esperienza, ma piuttosto contiene insegnamenti per altri processi simili che senza dubbio si produrranno. Preparare un’organizzazione rivoluzionaria. Accumulare quadri. Unirsi alle lotte. Rafforzarsi il più possibile di modo che, quando arriverà il momento, essere sufficientemente forti per tracciare la via alla voglia di cambiamento. In ogni caso, si tratta di procedere nell’incertezza, con quei dubbi che, come diceva Miguel Romero [9], non sono nostri nemici. Il nostro nemico è la rassegnazione.

Note

[1] La data del 15 maggio 2001 (15M nel testo) è utilizzata per indicare l’ondata di mobilitazioni degli Indignados, iniziata nella primavera dello stesso anno con l’occupazione delle piazze nella maggior parte delle città spagnole, seguite nei mesi e anni successivi dalle “maree” (mareas) di mobilitazioni, di scioperi e di manifestazioni su temi come la sanità, la pubblica istruzione, la precarietà, gli sfratti…

[2] La CUP, Candidatura d’Unitat Popular, è la principale organizzazione della sinistra indipendentista catalana. David Fernández, citato più sotto, è uno dei tre deputati che la CUP elesse per la prima volta al Parlamento di Catalogna, nel 2012.

[3] “Processo costituente” è l’espressione impiegata per riassumere la prospettiva d’una prolungata mobilitazione popolare di base, autorganizzata, per definire e imporre una nuova Costituzione in Spagna, in sostituzione di quella negoziata con l’apparato statale franchista nel 1978.

[4] I Circoli locali (Círculos) erano concepiti come le strutture territoriali di base di Podemos, nei quali si raggruppavano fisicamente gli aderenti. Sono arrivati a organizzare fino a circa 40.000 iscritti, da confrontare con i circa 400.000 «aderenti elettronici», sui quali si appoggiava essenzialmente il gruppo dirigente di Pablo Iglesias.

[5] Il viola è il colore del simbolo di Podemos.

[6] Da Íñigo Errejón, uno dei fondatori di Podemos e il suo più autentico interprete delle teorie populiste elaborate da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Dopo aver collaborato strettamente con Pablo Iglesias, entrò in dissidio con quest’ultimo, fino a fondare (2019) un proprio movimento (Más Madrid, poi allargatosi a Más País), con risultati elettorali deludenti.

[7] Il riferimento è al Bloco Nacionalista Galego, che nelle recenti elezioni regionali (2020) è balzato al 20 % dei voti, mentre la coalizione capeggiata da Podemos è precipitata al 4 %.

[8] La locuzione «governo di progresso» è quella cui ricorrono PSOE e Podemos per caratterizzare la coalizione governativa cui hanno dato vita.

[9] Miguel Romero, “el Moro” (1945-2014), fu uno dei fondatori della Liga Comunista Revolucionaria prima e di Izquierda Anticapitalista poi, nonché editore della rivista «Viento Sur». Suoi testi (Il dibattito sul Fronte Unico e Il trotskismo negli anni ’60 e ’70), sotto forma di pdf, possono essere scaricati da questo sito.

Gli autori

Brais Fernández, militante di Anticapitalistas, fa parte della redazione di «Viento Sur».

Miguel Urbán Crespo, militante di Anticapitalistas ed eurodeputato, è stato fra i fondatori di Podemos.

Titolo originale: Algunas lecciones de la experiencia de Podemos, da «Jacobin América latina»:

https://jacobinlat.com/2020/10/26/algunas-lecciones-de-la-experiencia-de-podemos-2/

Traduzione dallo spagnolo di Cristiano Dan. Le Note, tutte redazionali, sono in buona parte tratte dalla versione francese dell’articolo pubblicata in «Inprecor», n° 679-680, novembre-dicembre 2020.

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