Tanuro: collassologia, tutte le derive ideologiche sono possibili

Collassologia, produttivismo, marxismo, ecosocialismo, sinistra anticapitalista.

da Ballast, TANURO Daniel

Intervista inedita per il sito di Ballast.

I numerosi effetti del disordine climatico sono sotto i nostri occhi. La non linearità del processo rende incerte le proiezioni future, ma non c’è alcun dubbio che il modello economico dominante è una delle principali cause. Ingegnere agronomo e autore de L’Impossibile capitalismo verde, Daniel Tanuro sostiene un’alternativa ecosocialista: una rottura radicale con il produttivismo – che ha a lungo impregnato le correnti socialiste maggioritarie. Ma dall’urgenza alla catastrofe non c’è che un passo, che la collassologia compie senza esitare: i suoi sostenitori affermano che il collasso della civiltà che noi conosciamo avverrà in un futuro molto prossimo, e che è già troppo tardi per agire al riguardo. Tanuro non è d’accordo; ne discutiamo.

Ballast – Una volta hai scritto che «l’ecosocialismo è un’altra cosa che un’etichetta nuova su una bottiglia vecchia ». Che cos’ha di singolare questa parola?

Daniel Tanuro – Una rottura radicale con l’idea che il socialismo sarebbe necessario per «liberare le forze produttive materiali dai freni capitalisti», permettere il loro «sviluppo illimitato», condizione dell’emancipazione umana tramite il «dominio della natura». È vero che in Marx, ricercatore dal pensiero aperto, le formule prometeiche sono sia inquadrate, sia controbilanciate altrove, da un naturalismo sincero e da un‘analisi che mette a nudo il carattere distruttivo del capitalismo. Nel Capitale, egli scrive che «la sola libertà possibile è che l’uomo sociale, i produttori associati, gestiscano razionalmente il loro scambio di materia con la natura e lo facciano nelle condizioni più degne, le più conformi alla natura umana». John Bellamy Foster vede in questa formula il segno di una «ecologia di Marx». Ma, intanto, questa «ecologia» è un cantiere collaterale appena iniziato dallo stesso Marx. In secondo luogo, e soprattutto, i marxisti posteriori hanno abbandonato questo cantiere per ricadere nelle formule stereotipate e meccaniciste del «progresso». Ci sono alcune eccezioni – Walter Benjamin è la più notevole – ma sono rimaste marginali. La degenerazione staliniana non è sufficiente a spiegare questa realtà. La critica deve scavare più a fondo. Bisogna, senza anacronismo ma senza compiacimento, estirpare le concezioni che hanno ingombrato il marxismo di «scorie produttiviste», come diceva Daniel Bensaid. Questo lavoro ha assunto oggi un’importanza considerevole, per la semplice ragione che una risposta socialista non produttivista è la sola alternativa alla catastrofe ecologica che cresce sotto i nostri occhi.

B – Tu ritieni che Naomi Klein, nella sua opera Tout peut changer,[Una rivoluzione ci salverà], oscilla «tra un’alternativa anticapitalista autogestita e decentralizzata di tipo ecosocialista ed ecofemminista […], e un progetto di capitalismo verde regolato, basato su un’economia mista rilocalizzata, e impregnato di un’ideologia della cura e della prudenza». Questa fluttuazione è anche presente nei partiti della sinistra critica che, nel mondo, aspirano al potere?

T – «Una risposta socialista non produttivista è la sola alternativa alla catastrofe ecologica che cresce sotto i nostri occhi »

Tutta la «sinistra critica», come dici tu, si trova di fronte a questo terribile dilemma: c’è un abisso tra il programma anticapitalista molto radicale che è oggettivamente indispensabile per arrestare la catastrofe ecologica da un lato, e il livello di coscienza dell’immensa maggioranza dell’umanità dall’altro. Ma Naomi Klein, nel suo libro, ha l’immenso merito di riconoscere subito la difficoltà: «Io non ho alcun dubbio sulla necessità di misure radicali, scrive, ma mi interrogo tutti i giorni sulla loro fattibilità politica». Nel contesto della tua domanda, questa «fluttuazione» mi sembra piuttosto positiva. Da un lato, questa lucida franchezza manca a molti partiti; dall’altro, Klein non si lascia rinchiudere nella «fattibilità politica»: anche se fa – a torto – l’elogio della «Energiewende [1]» tedesca (nel contesto nordamericano è perdonabile!), insiste spoprattutto – a giusto titolo! – sull’importanza strategica dell’azione diretta non violenta contro i progetti fossili-estrattivisti, e fa appello a un coordinamento internazionale della «Blockadia [2] ». Su questi due punti, lei è più avanti, più rivoluzionaria e più coerente che la maggior parte dei partiti della «sinistra critica». Poiché puntano al potere, questi partiti minimizzano la radicalità delle misure da pendere. In particolare, aggirano l’assoluta necessità di ridurre la produzione materiale e i trasporti per raggiungere i livelli ncecessari di riduzione dei gas serra.

È la critica maggiore che si deve rivolgere, ad esempio, alla proposta di Green New Deal, avanzata negli Stati Uniti da Alexandria Ocasio-Cortez. La stessa critica va rivolta, nel mio paese, al PTB [Partito del lavoro del Belgio], che ha avuto un successo importante ma che di fronte allo sconvolgimento climatico si limita a promettere trasporti gratuiti e una «rivoluzione dell’idrogeno»[3]. Una cosa è avanzare rivendicazioni parziali, corrispondenti al livello di coscienza, allo scopo di avviare un processo di radicalizzazione con la lotta, e di cominciare quindi a gettare un ponte sull’abisso; altra cosa è far credere che la concretizzazione di tali rivendicazioni parziali da parte di un governo qualsiasi basterà a impedire che la catastrofe si trasformi in cataclisma. Perché non è vero. Per avere una possibilità su due di rimanere sotto 1,5°C di riscaldamento senza ricorrere a tecnologie da apprendisti stregoni, bisogna che le emissioni nette di CO2 diminuiscano del 58% da qui al 2030, del 100% da qui al 2050, e siano negative oltre quella data. È rigorosamente impossibile raggiungere questi obiettivi, e anche solo avvicinarvisi, snza una rottura anticapitalista rivoluzionaria. Si ritrova qui la questione chiave della crescita.

B – Da due secoli, il produttivismo ha conquistato storicamente un grande numero di correnti di sinistra [4]. Che posto accordi a questa nozione nella tua riflessione?

T – È vero che le concezioni «produttiviste» sono state storicamente egemoni a sinistra. Ma bisogna mettersi d’accordo sul termine. Il sistema sovietico deve essere considerato senza dubbio produttivista, ma si trattava di un produttivismo burocratico assurdo: era radicato nella difesa dei privilegi parassitari della casta al potere, non nei rapporti di produzione. Questo produttivismo non ha a che vedere con il pensiero di Marx più di quanto l’Inquisizione abbia a vedere con il messaggio di Gesù Cristo. Dalle prime pagine del Capitale, il suo confronto tra i due movimenti M-D-M e D-M-D’ [5], conduce Marx alla conclusione che il secondo, che definisce il capitale, implica necessariamente una tendenza allo sviluppo senza fine. Questa tendenza è al cuore del capitalismo, poiché deriva dal suo obiettivo fondamentale – la produzione di (plus)valore astratto [6]. Logicamente, sostituirvi la produzione di valori d’uso deve quindi mettervi fine. Nelle sue Teorie sul pusvalore, Marx ritorna sulla questione con un altro approccio, più tecnico: la concorrenza per il profitto porta ad un aumento fantastico del capitale fisso, dunque ad un «lock-in[7]» tecnologico di lungo termine, dunque ad un obbligo dispotico di produrre – il «lock-in» del capitale nel sistema energetico fossile è d’altronde un bell’esempio. Concludendo il ragionamento, egli evoca la tendenza del capitale a «produrre per produrre, che implica anche consumare per consumare». «Produrre per produrre» potrebbe essere una buona definizione del produtivismo.

«Che la situazione sia gravissima è l’evidenza stessa. Ma il capitalismo non crollerà da sé stesso, né sotto il peso delle sue contraddizioni interne, né per il fatto della crisi ecologica».

Secondo questo criterio, Marx non è produttivista, al di là delle sue ambiguità prometeiche. Ma, quanto a questo, si può pensare che nessun marxista sia stato tale: non avevano tutte e tutti per obiettivo l’instaurazione di un’economia basata sulla soddisfazione dei reali bisogni umani tramite la produzione di valori d’uso? Si vede quindi che la questione non è così semplice. In effetti, la posizione produttivista a sinistra non rimanda al «produrre per produrre», ma all’idea strategica che il capitale, sviluppando le forze produttive, avvicina l’umanità all’emancipazione socialista, al regno della libertà. Ora, al di là di un certo punto è vero il contrario. Quindi sarebbe forse utile distinguere il produttivismo da ciò che si potrebbe chiamare l’ideologia produttivista di dominio sulla natura, o l’ideologia strumentale del progresso tecnico senza limiti. Secondo me, è questa ideologia che è egemonica nella sinistra da due secoli. Ma non è facile da combattere perché si radica non solo nella logica economica del capitale, ma anche nella situazione schizofrenica che tale logica impone a/lle/gli sfruttat/e/i costrett/e/i a vendere la loro forza lavoro per sopravvivere. Questa dura realtà è alla base del produttivismo nella socialdemocrazia gestionaria e nelle organizzazioni sindacali riformiste, per le quali i posti di lavoro dipendono dalla crescita. In quanto ecosocialisti, noi siamo in continuità con il Marx ecologista quando vi opponiamo l’idea che bisogna urgentemente produrre di meno e condividere di più, in particolare condividere il lavoro necessario.

B – Una corrente marxista ha potuto sostenere l’idea che il capitalismo finirebbe per crollare sotto il peso delle sue contraddizioni economiche. Alcuni critici ecologici del capitalismo riprendono a volte questo tipo di discorso dagli accenti teleologici [8], affermando che l’insieme della società termoindustriale si scontrerà con dei limiti – fisici naturalmente – e crollerà. L’ecosocialismo non ha questo orizzonte?

T – Dei marxisti hanno effettivamente sostenuto questa idea meccanicistica che la dinamica di accumulazione condurrebbe automaticamente al crollo del capitalismo. È stato il caso in particolare, nel periodo tra le due guerre, di un autore tedesco, Henryk Grossman, che ne aveva fatto un vero dogma. Ci sono effettivamente forti similitudini tra questa teoria e quella dell’inevitabile collasso ecologico della «società termoindustriale», sostenuta oggi da alcune correnti verdi. D’altronde non è un caso se recentemente, nel mondo ispanofono, in particolare in America latina, è riapparsa una piccola corrente «marxista collassista».

Gli ecosocialisti, dal canto loro, rifiutano questo fatalismo del collasso. Che la situazione sia gravissima è l’evidenza stessa. Ma il capitalismo non crollerà da sé stesso, né sotto il peso delle sue contraddizioni interne, né per il fatto della crisi ecologica. Al contario, la sua logica spinge settori delle classi dominanti a considerare mezzi neomalthusiani, barbari, per salvare sé stessi e i propri privilegi. Di fronte a questa minaccia molto concreta, temo che il fatalismo del crollo inevitabile semini la rassegnazone. Ora, noi abbiamo bisogno urgente di lotta, di solidarietà, e di speranza.

B – Alcuni ecosocialisti criticano il concetto di Antropocene perché renderebbe invisibile il ruolo del capitalismo, e preferiscono usare quello di Capitalocene. Nel nostro settimo numero cartaceo, Agnès Sinai ci diceva: «Il capitalismo è una spiegazione necessaria ma non sufficiente dell’Antropocene. Rappresenta una dimensione storica dell’industrialismo, ma non spiega la fascinazione per l’atomo, la velocità, le armi o gli ipermercati». Qual’è il tuo sguardo su questo?

T – Io discuto il concetto di Antropocene, ma non lo combatto. Ne prendo atto come conclusione logica alla quale i geologi arrivano a partire dai loro criteri di geologi: l’aumento del livello dei mari, gli elementi radioattivi, le migliaia di composti chimici artificiali e la caduta brutale della biodiversità lasceranno sulla crosta terrestre tracce significative dell’attività umana. I geologi valutano che ciò segni l’ingresso del pianeta in una nuova era geologica. Quelle e quelli che si oppongono al termine «Antropocene» non contestano questa conclusione. Il problema è dunque semantico. Certo, parlare di «Capitalocene » permette di evidenziare la responsabilità maggiore del capitale nella distruzione ecologica. Ma la medaglia ha un rovescio: si rende invisibile la responsabilità dei paesi del cosidetto «socialismo reale». Ora, questa responsabilità non è piccola: solo per ricordare, prima della caduta del Muro, la Germania Est e la Cecoslovacchia detenevano il record mondiale delle emissioni annuali per abitante di gas serra. Ci si può interrogare anche sull’utilità di questa elusione, nel momento preciso in cui abbiamo bisogno di capire perché questi paesi sono stati produttivisti, per non ricadere negli stessi vicoli ciechi… A mio parere, il punto chiave non è semantico, ma la datazione. Se i geologi sono coerenti con i loro criteri di geologi, allora il cambiamento di era non avviene prima della seconda metà del 20° secolo, il che significa che le intepretazioni misantropiche del termine «Antropocene » sono respinte: non è la specie umana che è responsabile, ma il suo modo storico di produzione. Questo aspetto è decisivo, poiché il pericolo di una misantropia essenzialista basata su una pseudoscienza è molto reale oggi, e si sviluppa sulla scia della barbarie capitalista montante. Nello stsso tempo, è evidente che il fatto oggettivo del cambiamento di era non chiude il dibattito. Al contrario lo apre, e si vede bene, a partire dagli argomenti pro e contro, che i criteri dei geologi sono inadeguati, in ogni caso insufficienti, per la semplice ragione che le cause del cambiamento di era non sono «naturali» ma sociali. Da qui, la necessità della critica, e dell’intervento delle scienze umane e sociali: storia, sociologia, economia.

Da un punto di vista economico, come conciliare i giganteschi investimenti necessari alla trasformazione dei nostri sistemi produttivi – l’energia in primo luogo – e una certa decrescita del PIL?

«Se si lascia da parte il negazionismo climatico di Trump e Bolsonaro, la sola risposta del sistema consiste nello sviluppo di tecnologie insufficienti, incerte e pericolose».

T – La domanda mi sembra mal posta. Da un lato, il PIL non è un indicatore pertinente.Per restare nei limiti ecologici, bisogna in modo imperativo ridurre massicciamente le emissioni di gas serra, dunque l’estrazione, il trasporto e la trasformzione delle materie, dunque il consumo di energia. Di conseguenza, la transizione socioeconomica deve essere inquadrata da indicatori fisici. D’altra parte, e soprattutto, sono esattamente i giganteschi investimenti necessari alla trasformazione dei sistemi produttivi, in particolare del sistema energetico, che rendono indispensabile la decrescita in questione. La transizione infatti non consiste nel dire che un sistema B potrebbe funzionare come alternativa al sistema A, ma nell’indicare il percorso che conduce da A a B. Il sistema energetico fossile non è adattabile alle fonti rinnovabili. Deve dunque essere rottamato nella massima urgenza e deve essere costruito un nuovo sistema. Il compito è enorme e richiede inevitabilmente grandi quantità di energia. Oggi, tale energia è globalmente fossile all’80%, dunque fonte di emissione di CO2. In altri termini: a parità di tutto il resto, la transizione stessa sarà causa di un supplemento di emissioni.

Ora, queste devono cominciare a diminuire subito, e molto radicalmente, come ho detto. Nel quadro della logica capitalista di accumulazione il problema è rigorosamente insolubile. Se si lascia da parte il negazionismo climatico di Trump e Bolsonaro, la sola risposta del sistema consiste nello sviluppo di tecnologie insufficienti, incerte e pericolose, come il nucleare e la bioenergia con cattura e sequestro del carbonio (BECCS). Piuttosto che mettere in opera tutto per non superare la soglia di pericolosità di 1,5°C, si sceglie di superare tale soglia nella speranza che queste tecnologie permetteranno di «raffreddare» la Terra in seguito. È una follia integrale, un non senso assoluto. Tuttavia, è verso queste «soluzioni» da apprendisti stregoni che il«capitalismo verde » si orienta oggi. Perché? Perché la sola maniera razionale di equilibrare l’equazione climatica gli è intollerabile. In che cosa consisterebbe questa? Bisognerebbe decretare una mobilitazione generale, fare un inventario di tutte le produzioni inutili o pericolose, di tutti i trasporti inutili, e sopprimerli puramente e semplicemente – senza indennizzo per gli azionisti – fino a raggiungere le riduzioni di emissioni necessarie. Va da sé che una tale operazione richiede misure draconiane, in particolare la socializzazione dei settori dell’energia e del credito, la riduzione massiccia del tempo di lavoro senza perdita di salario, la riconversione del personale in attività utili con garanzia di reddito, e lo sviluppo di servizi pubblici democratici.

La decrescita è stata qualificata come «parola bomba». La collassologia, grazie all’attrattiva che esercita – compreso presso persone o gruppi sociali poco politicizzati – è forse una «parola calamita»?

T – Ma una «parola calamita» verso che cosa? Tutta la questione è qui. I collassologi non sono sempre molto netti: nel loro discorso ci sono sfumature e varianti. Ma in definitiva tendono a tornare sempre all’affermazione che «il collasso» è inevitabile, e che la sola risposta consiste nel creare piccole comunità «resilienti», poiché non ci sarà altro mezzo di sopravvivere dopo l’apocalisse. Nella loro ultima opera, Une autre fin du monde est possible [Un’altra fine del mondo è possibile], Pablo Servigne e i suoi amici arrivano a scrivere che «il collasso» è come la malattia di Hutchinson, una malattia degenerativa ereditaria e mortale: bisogna accettarla e smettere di battersi… Invece di identificare il capitalismo come la causa principale – non dico la sola – della distruzione ecologica, naturalizzano i rapporti sociali e fanno incombere sulle nostre teste una minaccia dai toni biblici. A partire da qui, sono possibili tutte le derive ideologiche, e “Un’altra fine del mondo”, ahimé non ne manca…

«Io aderisco al 100% alle idee di autogestione decentralizzata, ma la transizione richiede insieme centralizzazione e decentralizzazione, pianificazione e autoattività…»

Detto questo, l’attrattiva della collassologia è innegabile, e non unilateralmente negativa. Si spiega evidentemente con l’angoscia di fronte alle terribili minacce che la distruzione del pianeta fa pesare, e bisogna mettere all’attivo dei collassologi l’aver contribuito a informare sulla gravità della situazione. Ma questa attrattiva rimanda anche, per alcun/e/i alla presa di coscienza politica della necessità di rompere profondamente con la società attuale, il suo produttivismo e il suo feticismo della merce. Qui c’è un paradosso: mentre sembrano incapaci di spiegare perché il capitalismo è tanto distruttivo, i collassologi entrano ugualmente in sintonia con strati sociali, in particolare giovani, che cercano risposte anticapitaliste. Rispetto a questi ambienti, è dunque importante sviluppare il dibattito. In particolare, credo sia importante spiegare che lo scenario, di ispirazione anarchica, di un collasso del capitalismo che apre la via a una società autogestita basata sulle comunità locali non permette di far fronte alle sfide globali della transizione. La complessità di queste sfide richiede un’azione pianificata. Io aderisco al 100% alle idee di autogestione decentralizzata, ma la transizione richiede insieme centralizzazione e decentralizzazione, pianificazione e autoattività. La storia ci ha mostrato i rischi terribili di degenerazione propri a questa combinazione di contrari. Ma la burocratizzazione non può essere evitata proiettandosi, al di là della transizione, in un radioso futuro autogestionario senza Stato né partiti… Ci vuole un programma per combatterla.

Stimando che alcuni di loro naturalizzano i rapporti sociali, tu rimproveri ai collassologi di «cadere nella regressione arcaica»…

T – Non dico che la naturalizzazione dei rapporti sociali sbocchi inevitabilmente nella regressione arcaica, ma certamente la favorisce. Se non si identifica la responsabilità storica più grande del capitalismo, come fare presa, dove è la via d’uscita possibile? Per alcuni non ce n’è, la Terra soffre di una malattia che si chiama specie umana e non ne guarirà se non con l’eliminazione di questa progenie. È purtroppo, ad esempio, la conclusione cinica di James Lovelock alla fine del suo libro sull’ipotesi Gaia. I collassologi non sono certo da collocare tra questi cinici. La via d’uscita, per loro, sarebbe psicologica: noi dovremmo passare per una fase di lutto, riscoprire il nostro inconscio collettivo e i nostri archetipi, in particolare gli archetipi maschile e femminile, profondamente sepolti fin dalla preistoria. Noi dovremmo per questo praticare dei rituali che puntino a riscoprire il selvaggio in noi. In breve, la chiave dell’avvenire sarebbe da ricercare nel passato più remoto, conformemente alle elucubrazioni reazionarie di Carl Gustav Jung. È questo che io designo con l’espressione «regressione arcaica». Ma questa coabita con altre tendenze come «l’ecospiritualità». La collassologia è attraversata da molte contraddizioni.

A causa di decine di anni di inazione da parte dei poteri in carica e degli attuali rapporti di forza, si può temere un mantenimento dello stau quo, uno scenario business as usual. Parlare di collassi per dare un nome alle catastrofi che ne deriverebbero non è segno ad ogni modo di un certo pragmatismo?

T – Se si impiega il condizionale, come fai tu, e si parla di collassi al plurale, e di catastrofi al plurale, come fai tu, il pessimismo è certamente una forma di lucidità. Ma non è quello che fanno i collassologi: quelli non parlano di collassi, ma del Collasso assoluto, e questo superconcetto assorbe tutto indistintamente. Dai collassi borsistici fino a quelli dei batraci e degli insetti, tutti i fenomeni sono riuniti come se annunciassero la fine del mondo. L’ampio ricorso ai riferimenti scientifici conferisce a questo discorso un’apparenza di rigore, ma non è così. Intanto perché i riferimenti sono selezionati. Ma soprattutto perché c’è un vizio di metodo. Come scrivono Servigne e i suoi amici, si può «appoggiarsi sui due modi cognitivi che sono la ragione e l’intuito». Ma a una condizione: che la ragione tenti di abbracciare insieme da un lato la distruzione «antropica» dell’ambiente, e dall’altro la responsabilità precisa della forma sociale storica responsabile oggi di tale distruzione. Senza articolare questi due aspetti della realtà, più si accumulano i dati relativi alla distruzione, più la domanda posta al pubblico – «Dove il vostro intuito vi dice che questo ci porta?» – avrà delle possibilità di ottenere la seguente risposta: «Tutto collasserà.» Senza coscienza sociale, l’intuito è distorto, il ragionamento è circolare, e si fa della pseudoscienza.

Dal 2007 ti sei occupato del best seller dello scienziato Jared Diamond Effondrement [Collasso/Crollo]. Gli contesti l’idea che la crescita demografica sarebbe un fattore sovradeterminante della crisi ambientale: puoi spiegarci perché?

T – È evidente che la demografia è un elemento dell’equazione ambientale. Quello che contesto a Diamond, tra altre cose, è il suo tentativo di fare della demografia il fattore sovradeterminante, la spiegazione di ultima istanza dei cosidetti «collassi» delle società umane, e di conseguenza la leva più importante di una politica che punti a evitarli. Da allora, le critiche che ho formulato sono state ampiamente confermate da numerosi lavori scientifici. In particolare è stato dimostrato in modo incontestabile che la spiegazione del collasso dell’isola di Pasqua avanzata da Diamond (la teoria dell’«ecocidio» da parte di una popolazione che superava la capacità di carico dell’ecosistema, e che presentava tutti i segni di una hubris delirante) non era altro, da cima a fondo, che un tessuto di controverità, create di sana pianta. Lungi dall’essere i bruti imbecilli descritti da Diamond, i Rapa Nui (nome polinesiano dei «Pasquani»), avevano dispiegato tesori di intelligenza per proteggere l’ambiente della loro isola, compreso, all’occasione, contro i propri errori. Sono state le razzie schiaviste e il colonialismo che hanno distrutto quella eccellente civiltà e rovinato definitivamente l’ecosistema. Ma questa verità fatica molto a uscire dal pozzo. Soprattutto in Francia, dove le più alte autorità dello Stato continuano a promuovere il best-seller Effondrement, che ha fatto il successo di Diamond. Spero che i collassologi finiranno per prendere le distanze da questo personaggio reazionario e razzista.

P.-S.

• Revue Ballast. Publié le 21 juin 2019 dans Écologie :
https://www.revue-ballast.fr/daniel-tanuro-collapsologie-toutes-les-derives-ideologiques-sont-possibles/

Note

[1] «Rivoluzione energetica» in tedesco.

«Energiewende» è il nome dato al programma di transizione energetica della Germania. Le sue due principali misure sono l’uscita dal nucleare nel 2022 e un’elettricità 100% rinnovabile nel 2050.

[2] Movimento di resistenza nel mondo contro le industrie delle energie fossili.

[3] L’idrogeno è a volte proposto come «soluzione» energetica, in particolare per i veicoli: una batteria a combustibile trasforma l’idrogeno in elettricità. Vedere anche «Le faux miracle de la révolution de l’hydrogène», Gauche anticapitaliste, Daniel Tanuro (disponibile su ESSF)

[4] Vedi Serge Audier,L’Âge productiviste, La Découverte, 2019.

[5] Per Marx, la forma iniziale di circolazione delle merci si fa secondo il seguente processo: una merce è scambiata contro denaro, lo stesso è scambiato contro un’altra merce (è il ciclo M-D-M). Ma esiste un’altra forma di circolazione del capitale: il denaro è trasformato in merce e la stessa trasformata in denaro (D-M-D’). Nel primo caso, il denaro è un semplice mezzo di scambio di merci; nel secondo, il denaro è la finalità stessa della circolazione.

[6] Nella teoria marxista, il lavoro è all’origine della produzione di valore. Questo è definito dal «lavoro astratto», il tempo di lavoro medio socialmente necessario per produrre una merce. Il lavoratore è pagato solo per una parte, necessaria alla sua sopravvivenza: l’eccedente costituisce il sovravalore (o plusvalore) di cui si appropria il capitalista.

[7] Blocco.

[8] Dottrina che considera che tutto nel mondo ha un fine, [uno scopo].

Traduzione di Gigi Viglino da:

Europe Solidaire Sans Frontières N. 49405