Viale: Un programma di lotta.

Sul Manifesto del 16 marzo è uscito un articolo di Guido Viale che ho trovato del tutto condivisibile sia nell’analisi del voto (ma questa non è una novità), sia nelle indicazioni di alcuni compiti urgenti: per esempio la proposta che i lavoratori degli impianti abbandonati dai padroni in fuga verso altri paesi si pongano il problema di rimetterli in funzione da soli, non con un’autogestione accollata alle sole maestranze, ma coinvolgendo alcuni comuni o consorzi di Comuni, obbligandoli a farsene carico, insieme ai lavoratori organizzati, non solo di garantirne gestione e finanziamento. In questo quadro la proposta del recupero della CDP (Cassa depositi e prestiti) alle sue funzioni originarie è fondamentale, e coincide con l’indicazione del seminario sul recupero della finanza pubblica presentato da Piero Maestri nello stesso numero del Manifesto. Un seminario basato anche sulle esperienze di altri paesi, grazie alla partecipazione dell’argentino Josè Abelli, presidente del Movimiento Nacional Empresas Recuperada. Colgo l’occasione per segnalare che nel libro recensito da me nell’articolo Fabbriche recuperate , c’è anche una lunga e interessante intervista ad Abelli.

(a.m.17/3/13)

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Metà elettorato boccia Pd e Pdl

Guido Viale  

L’esito delle elezioni ha tolto il tappo a un sistema politico bloccato, pietrificato dall’egemonia, condivisa da destra e sinistra, del pensiero unico (e in Italia consolidata, e in parte mascherata, dal dilagante berlusconismo). Ma non è stato Beppe Grillo a far saltare quel tappo; sono stati quelli che lo hanno votato, andando ad aggiungersi o a sovrapporsi al numero, altrettanto ampio, degli astenuti. Non è stato Grillo a intercettare il loro voto; sono stati quegli elettori a intercettare Grillo. E che altro potevano fare? Se si fossero astenuti, il sistema politico italiano centro-destra, centro e centro-sinistra – avrebbe continuato le sue pratiche come se niente fosse, incurante del fatto che ormai solo il 50 per cento degli elettori lo vota. D’altronde negli Usa è già così da tempo. Ma è sbagliato confondere gli elettori di Grillo con il movimento cinque stelle o dare troppo peso al loro programma; perché a fare il pieno di voti è stata la rivolta contro il sistema dei partiti e le politiche economiche. Come è sbagliato sostenere che il movimento cinque stelle non ha un programma: c’è l’ha, ed è più solido e sensato di quello del Pd, anche se forse né Grillo né il movimento hanno idee chiare su come realizzarlo (Pizzarotti insegna). Ma gli elettori che lo conoscono sono una minoranza; e quelli che lo condividono, o vi si riconoscono, sono ancor meno.

Di fronte a un quadro come questo solo l’immaginazione può aiutarci a misurare il danno inflitto alle prospettive di un vero cambiamento dal soffocamento di una lista “di movimento” – il progetto di Cambiaresipuò – da Rivoluzione Civile e dalle sue miserie; che hanno completato in ambito elettorale quello che gli affossatori del corteo del 15 ottobre di un anno prima avevano iniziato con uno scontro di piazza fine a se stesso. Ma anche da De Magistris, che si era già da tempo giocato la carta del “movimento dei sindaci”: non solo perché i “nuovi sindaci”, a partire da Pisapia, si erano defilati uno dopo l’altro per evitare conflitti con il Pd e con Monti (che in fin dei conti teneva e tiene i cordoni della borsa); ma soprattutto perché, dopo il convegno del 29 gennaio 2012 in cui aveva lanciato il progetto, De Magistris non aveva fatto più niente per tenerlo in vita, né per valorizzare il contributo dei movimenti che avevano risposto al suo appello. Così ci si è ritrovati, in ritardo e senza più alcun retroterra organizzato, a lanciare il progetto Cambiaresipuò.

Se mai ci fosse stata una possibilità di intercettare una parte consistente degli elettori poi confluiti nel voto a Grillo o nell’astensione, Rivoluzione Civile l’ha sepolta definitivamente. L’obiettivo principale di quel progetto non era la conquista di una pattuglia di parlamentari, bensì l’accreditamento di una prospettiva: un contenitore finalmente unitario – o potenzialmente tale – di una convergenza di forze sociali e di iniziative civiche radicalmente alternative, nella pratica, e non solo nelle enunciazioni programmatiche. Ora, nonostante la situazione politica fluida come non mai, ricomporre quel disegno è tre volte più difficile.

I fili da riannodare sono soprattutto due. Il primo è il dato che nessuna politica a sostegno dell’occupazione e delle condizioni di esistenza della maggioranza della popolazione (chiamala, se vuoi, moltitudine; oppure 99 per cento; anche se si è molti meno) è possibile all’interno dei vincoli imposti dalle autorità economiche europee e, per loro tramite, non dalla “perfida” Germania, bensì dalla finanza internazionale, vero dominus di un’economia ormai globalizzata. Nessuna crescita, nessuno sviluppo, nessuna sostenibilità – e meno che mai la grottesca agenda elettorale di Monti – sono compatibili con il combinato disposto del pareggio di bilancio e del fiscal compact . Tutti gli economisti lo sanno, però nessuno lo dice. La devastazione prodotta dai memorandum imposti alla Grecia, non per promuoverne lo sviluppo, ma per far fronte all’emergenza, è davanti agli occhi di tutti. Peggio di un bombardamento! Ma in quei memorandum c’erano le stesse prescrizioni della lettera della Bce che Draghi aveva spedito all’Italia nel 2011 per spianare la strada al governo Monti. Le conseguenze di quelle misure sono state nascoste per un anno, ma stanno venendo prepotentemente alla luce: il tessuto produttivo è irrimediabilmente compromesso; le imprese chiudono una dopo l’altra; i servizi pubblici sono fermi; la disoccupazione dilaga insieme alla povertà; l’ambiente stressato si rivolta contro la sua manomissione. Quel patto di stabilità “esterno” si ripercuote su quello “interno”. Regioni ed enti locali (comprese le Province, farsescamente abolite per unanime decisione.

Ma chi ne erediterà le funzioni? E con che fondi? E dov’è il risparmio?) sono messi alle corde dal taglio dei trasferimenti (le misure di austerità incidono per l’80 per cento su di loro e solo per il 20 per cento sullo Stato centrale, nonostante che la ripartizione della spesa pubblica sia esattamente l’inverso). Il tutto per costringerli a svendere suolo, infrastrutture, servizi pubblici e beni comuni ai privati. Che per lo più sono finti privati, sovvenzionati dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP) che, grazie a una privatizzazione anch’essa finta, invece di aiutare i Comuni a fornire servizi pubblici locali decenti – e, magari ad avviarli all’indispensabile conversione ecologica – finanzia chi lavora a sottrarli definitivamente al loro controllo, facendo così venir meno la stessa ragion d’essere delle autonomie locali. Lo stesso vale per la sanità, che è tutta pubblica (compresa quella cosiddetta privata, che vive esclusivamente di risorse pubbliche), ma che Monti ha definito «insostenibile» per regalare ai privati la relativa quota di spesa pubblica; e così per scuola, università, ricerca, pensioni; e più in là, per carceri, polizia, esercito (anche qui gli Stati uniti insegnano). Il secondo filo da riprendere è quello gestionale: opporsi alla svendita dei servizi pubblici – locali e non – non vuol dire perpetuare lo status quo: vuol dire sottoporli a una gestione pubblica partecipata. Non solo perché si tratta di beni comuni e perché la partecipazione – quella vera, che riguarda gli aspetti fondamentali della vita quotidiana – è il complemento irrinunciabile di una democrazia rappresentativa sempre più asfittica. Ma anche perché i servizi pubblici sono lo snodo fondamentale della conversione ecologica dell’apparato produttivo: il raccordo tra una domanda di servizi pubblici decentrati e condivisi (energia rinnovabile, efficienza energetica, acqua pubblica, rifiuti zero, mobilità sostenibile, mense con cibi biologici e a km0, edilizia ecologica e sociale, salvaguardia idrogeologica, assistenza medica, istruzione e formazione permanenti, e altro ancora) che è compito dei Comuni promuovere, e i fornitori di impianti, attrezzature, prodotti intermedi, materiali, progettazione, ricerca, che sono necessari per la realizzazione e la conversione di quei servizi. Solo così si può attivare una domanda altrettanto robusta per riconvertire molti impianti e imprese produttive altrimenti senza avvenire. Le aziende chiuse o in via di chiusura sono ormai una falange e sempre più spesso si tratta di gruppi internazionali: i famosi investitori esteri invocati da Monti e dai suoi corifei, che invece di arrivare se ne vanno uno dopo l’altro – e non certo perché l’art. 18 non è stato modificato abbastanza! – portandosi via knowhow, brevetti, certificazioni di qualità e macchinari, dopo aver sfruttato fino al limite le risorse pubbliche messe a loro disposizione e una manodopera spremuta a volte fino alla morte.

E’ la storia della Bridgestone, della MaFlow, della Jabil, della Nokia, della Lucent, ma anche della Fiat e di tante altre. Occorre che i lavoratori e le comunità che ospitano quegli impianti si pongano il problema di rimetterli in funzione da soli. Non con un’autogestione accollata alle sole maestranze; perché un’azienda è fatta anche di mercati, di ricerca, di innovazione (che è sempre un processo sociale), di rapporti con il territorio. Per questo occorre che dove si manifestano queste emergenze – ormai ovunque in Italia – sia il Comune, o un consorzio di Comuni, magari con la formula dell’azienda speciale, a farsi carico, insieme ai lavoratori organizzati, non solo di garantirne gestione e finanziamento – e per questo il recupero della CDP alle sue funzioni originarie è fondamentale – ma anche la ricerca di nuovi sbocchi. Per farlo si possono indire delle “conferenze di produzione”, magari con la collaborazione di università, scuole tecniche e associazioni, per esplorare a tutto campo le potenzialità di riconversione. Qui il controllo sociale dei servizi pubblici si rivela essenziale, insieme alla riterritorializzazione, attraverso accordi di programma tra aziende di servizio e imprese produttive, di molti cicli di produzione: un aspetto irrinunciabile della conversione ecologica.

Guido Viale

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NUOVA FINANZA PUBBLICA

Riprendiamoci il credito

di Piero Maestri

La campagna che il «Comitato per una nuova finanza pubblica» ha lanciato il 2 febbraio scorso nella partecipata assemblea del Teatro Valle Occupato riprende a tessere la sua rete e a intrecciare i fili con i diversi soggetti interessati a «riprendersi il credito», ovvero a riconquistare il controllo pubblico sull’utilizzo delle risorse finanziarie che provengono dall’insieme di cittadine e cittadini. Oggi, sabato 16 marzo il comitato, in collaborazione con «Occupy Maflow» e il «Comitato metropolitano per l’audit sul debito di Milano», ha organizzato un seminario nazionale di approfondimento come tappa intermedia verso la seconda assemblea nazionale. L’incontro si terrà a Trezzano sul Naviglio, vicino Milano, nei locali della ex-Maflow, oggi sede di una originale esperienza di «recupero» produttivo autogestito da parte di lavoratrici e lavoratori. Un luogo quindi non casuale. In tutta Europa e anche in Italia si moltiplicano le esperienze di autogestione di lavoratrici e lavoratori, rese ancora più urgenti dalla crisi e dalla volontà di farla pagare alle stesse lavoratrici e agli stessi lavoratori: quella “lotta di classe” dall’alto di cui parla Luciano Gallino. Queste esperienze si scontrano evidentemente con mille problemi organizzativi, di sostenibilità sul mercato e di uscita da un rischioso isolamento. Tra i problemi c’è anche quello di una loro «stabilità finanziaria», soprattutto nella prima fase. È chiaro che non si tratta di «imprese» come tutte le altre e che per questo hanno bisogno, soprattutto in fase d’avvio, di un sostegno finanziario pubblico, oltre che sociale e politico. La campagna per la riappropriazione pubblica e sociale della Cassa Depositi e Prestiti offre un terreno importante di iniziativa verso quell’obiettivo, verso un credito pubblico e indirizzato a imprese di utilità sociale, oltre che agli investimenti degli enti locali in progetti di utilità collettiva. L’incontro di oggi vuole quindi essere un primo passo per cominciare a mettere in rete le esperienze di «autogestione operaia» esistenti, e quelle che volessero formarsi, e costruire le condizioni della loro stabilità. All’incontro, significativamente, interverrà anche Josè Abelli, argentino, che viene proprio dall’esperienza delle «fabricas sin patrones». Allo stesso tempo vogliamo ancora guardare cosa c’è dietro il trucco del «debito pubblico», per svelarne gli aspetti di illegittimità – e a volte di illegalità – attraverso una campagna che sviluppi «audit» locali e nazionale perché le cittadine e i cittadini si riapproprino della conoscenza sui bilanci pubblici. Già al Teatro Valle era avvenuto un primo momento di confronto tra i vari «comitati audit» locali, esistenti o in formazione, e oggi proseguiremo lo scambio su obiettivi e metodologie comuni per un audit efficace e conflittuale, a partire dal manuale che si trova sul sito ww.perunanuovafinanzapubblica.it (con le indicazioni su come raggiungere il seminario).