Achcar: rivoluzione permanente

Cinzia Nachira mi ha inviato questa intervista con Gilbert Achcar che è stata realizzata nel dicembre scorso, ma è attualissima. È significativo che la chiarezza delle analisi sulla situazione dei paesi coinvolti dalle Primavere arabe e, allo stesso tempo, la descrizione dettagliata delle forze in campo nei differenti paesi e dei rapporti di forza reali, spieghino in quale quadro è maturato poi l’assassinio de Choukri Belaid in Tunisia.

In Occidente e, occorre ammetterlo senza reticenze, in Italia in modo particolare, prevale una visione dello sconvolgimento che sta avvenendo nel mondo arabo che si sofferma solo sui dettagli e a cui sfugge la dinamica di fondo.

Nei prossimi giorni porremo a Gilbert Achcar alcune altre domande che inquadrino in modo specifico le ragioni dell’assassinio di Belaid e le sue conseguenze politiche e come questi eventi potranno incidere sul futuro di quel paese. (c.n. e a.m. 12/2/13)

 

 

Sono molte le questioni di cui discutere. Il Medio Oriente fa notizia per l’attacco contro Gaza o per la situazione in Tunisia, la presa del potere da parte di Morsi in Egitto o le minacce contro l’Iran: un gran numero di avvenimenti. Comincerei con una domanda su un giudizio generale delle Primavere arabe, di ciò che è stato definito Primavera araba ed è iniziato due anni fa, il 17 dicembre 2010 in Tunisia e non si è più fermato. Puoi darci degli elementi per una comprensione generale di ciò che questo ha significato per la regione?

 

Gilbert Achcar: Il commento generale che posso fare è che, per la prima volta nella storia della regione, le cose sono veramente in movimento e in via di cambiamento. Tutto ciò ad un ritmo per di più talmente rapido che la regione è entrata in quello che definisco un processo rivoluzionario a lungo termine.  Situazioni bloccate di ogni sorta sono in via d’esplosione. Penso che questa situazione rimarrà tale per molti anni a venire.

 

Parlando di “situazioni bloccate” pensi ai regimi dittatoriali vecchi e sclerotizzati? Puoi dirci qualcosa a questo riguardo e in particolare sulla situazione attuale della Tunisia?

 

Gilbert Achcar: Sì, ma devo aggiungere che si tratta di qualcosa di più che dei regimi dittatoriali. Ben inteso, questi costituiscono la parte più visibile del blocco, quella che è stata colpita più direttamente dalle sollevazioni nei paesi in cui vi sono state delle vittorie fino a questo momento. Ma si tratta solo di un aspetto delle situazioni bloccate più vaste che comprendono anche un arretramento economico. La regione tunisina rimane indietro rispetto al resto del mondo in termini di crescita e, più in generale, di sviluppo, malgrado possegga risorse naturali importantissime. La Tunisia detiene il record mondiale del tasso di disoccupazione da molti decenni. C’è un arretramento sociale, senza parlare del blocco evidente legato alla condizione della donna. Vi sono quindi un insieme di elementi che frenano la situazione ed io fin qui ne ho ricordati solo alcuni, i più evidenti. Tutto questo sta scoppiando in un gigantesco incendio iniziato in Tunisia.

Tutto è iniziato in Tunisia il 17 dicembre 2010. Questa è la data in cui Mohamed Bouazizi si è dato fuoco, accendendo la miccia in tutto il paese e poi a tutta la regione. Il fatto che la Primavera sia iniziata in Tunisia è legato alle lotte che in questo paese vi sono state nel corso degli anni 2000, lotte legate ad un’importante tradizione di sinistra, principalmente grazie alla centrale sindacale UGTT [Unione generale tunisina del lavoro]. È questa specifica situazione che spiega perché l’esplosione è avvenuta in questo paese prima che in altri, ma ciò non significa che le condizioni fossero più mature in Tunisia che altrove, come è dimostrato dal fatto che l’esplosione in Tunisia ne ha provocate altre in altri paesi. Quasi nessun paese di lingua araba è stato risparmiato dalla sollevazione, dall’est all’ovest della regione: dalla Mauritania al Marocco, alla Siria e all’Iraq.

 

Ad un certo punto, senza dubbio a causa dei risultati elettorali in Egitto e prima ancora in Tunisia, è sembrato che i vincitori immediati della Primavera araba fossero delle organizzazioni islamiche come i Fratelli musulmani in Egitto. Puoi dirci qualcosa al riguardo, innanzitutto della Tunisia e poi anche dell’Egitto?

 

Gilbert Achcar: Sì, era del tutto prevedibile. La miglior previsione riguardo la regione era che vi sarebbero state e che vi saranno delle esplosioni sociali e politiche: leggendo i rapporti delle ambasciate degli Stati Uniti, resi pubblici da Wikileaks, emerge che gli stessi Stati Uniti non si fanno troppe illusioni. Si sapeva fino a che punto la situazione era tesa e pericolosa. Visto tutto questo, la previsione più comune era che queste esplosioni avrebbero spinto in avanti sulla scena politica il movimento integralista islamico in un momento in cui – visto da Washington – questo era considerato una minaccia per gli interessi americani. Ma una volta iniziata la rivolta, vi è stata la tendenza a scambiare i desideri per la realtà e a credere che nuove forze emergenti sarebbero state capaci di dirigere e condurre l’intero processo,  respingendo le forze islamiche in secondo piano.

È vero che sono emerse delle nuove forze, in particolare tra la nuova generazione. È vero che nuove reti di giovani, utilizzando tutte le risorse rese disponibili da Internet, hanno svolto un ruolo chiave costruendo, organizzando e coordinando le rivolte; al riguardo non c’è alcun dubbio. Ma con delle insurrezioni che chiedevano libere elezioni – una rivendicazione normale per un popolo assetato di democrazia, come in questo caso – era tuttavia evidente che le elezioni a breve termine sarebbero state vinte da chi aveva i mezzi per vincerle. Non si possono vincere delle elezioni solo attraverso Internet, come voi sapete bene. Sono necessari degli apparati politici, del denaro, delle organizzazioni radicate sul territorio, lì dove vivono le masse degli elettori, come nelle regioni rurali. Tutto questo non si può inventare o improvvisare in poche settimane e per questa ragione era del tutto prevedibile che le forze integraliste islamiche, in particolare i Fratelli musulmani con le loro diverse diramazioni ed organizzazioni, avrebbero vinto le elezioni. Queste forze disponevano di un potenziale accumulato nel corso dei molti anni dedicati alla costruzione di reti, in particolare in Egitto dove potevano agire apertamente. Non era così in Tunisia, ma questa difficoltà è stata compensata dal fatto che queste forze beneficiavano della manna dei paesi petroliferi e dell’impatto della televisione. Diverse reti televisive della regione sono al servizio di questi gruppi, sia attraverso programmi religiosi – vi sono numerosi canali religiosi – o attraverso lo specifico ruolo politico svolto dal principale canale satellitare regionale che è Al Jazeera. Al Jazeera agisce apertamente per conto dei Fratelli musulmani, che hanno una notevole influenza nella squadra di giornalisti sponsorizzati dal governo del Qatar, che possiede e gestisce Al Jazeera. Quindi disponevano di notevoli risorse, come anche, ovviamente, di molto denaro proveniente dalle monarchie del Golfo.

Era del tutto prevedibile che i Fratelli musulmani ottenessero la maggioranza dei voti, questo dato quindi non rappresentava una sorpresa.  Coloro che scambiano facilmente i propri desideri con la realtà hanno reagito a queste elezioni abbandonando le visioni idilliache alle quali avevano aderito inizialmente, abbracciando, successivamente, un’ idea molto fosca della situazione, con commenti del tipo “la Primavera si trasforma in inverno”. Ciò che ha sorpreso, in verità, è stata la debolezza delle vittorie elettorali delle forze religiose. Il caso emblematico è sicuramente l’Egitto, dove la caduta dell’influenza e dei risultati elettorali dei Fratelli musulmani è stata rapida. È sufficiente prendere in considerazione il numero dei voti che i Fratelli musulmani hanno ottenuto alle elezioni parlamentari e successivamente alle elezioni presidenziali e, infine, al referendum sulla Costituzione: è evidente che hanno perso la loro influenza molto rapidamente. Hanno perso terreno e questo è il fatto più sorprendente.

La stessa cosa si può dire per la Tunisia, malgrado i problemi delle divisioni in seno alla sinistra, una sinistra che era ridicolmente divisa in un numero incredibile di gruppi ed organizzazioni: nella capitale al momento delle elezioni si sono confrontate decine di liste della sinistra e della sinistra radicale. Se si sommano i voti ottenuti dalle diverse liste  di sinistra, si ottiene un risultato  che avrebbe potuto tradursi in un numero significativo di seggi in parlamento. Nonostante ciò, i Fratelli musulmani tunisini del movimento Ennahda hanno ottenuto il 40% dei voti con una partecipazione alle elezioni della metà degli aventi diritto e ciò significa che hanno in realtà ottenuto il 20% degli iscritti. Non si può dire che si sia trattato di una marea. La Tunisia, da allora, ha conosciuto un deterioramento delle condizioni sociali e la coalizione che è arrivata al potere, diretta dalla forza islamica dominante, ha perso terreno. È screditata sempre più a causa della sua incapacità a realizzare una soluzione ai problemi reali ai quali il paese deve far fronte, quelli che ho già menzionato: disoccupazione, problemi economici, sociali, ecc.

In Tunisia come in Egitto si è assistito ad un aumento delle lotte sociali, delle lavoratrici e dei lavoratori, con scontri crescenti con i governi dominati dai Fratelli musulmani in entrambi i paesi. Questo fenomeno ha raggiunto livelli drammatici in Tunisia con uno scontro tra l’UGTT ed il governo diventato violento. Il paese si avvia verso nuove elezioni ma, anche prima di questo nuovo turno elettorale, gli scontri sociali e politici si stanno aggravando, in un modo tale che l’intera situazione è arrivata ad un punto di esplosione. Tutto cambia molto rapidamente. Sia la tendenza iniziale a scambiare i desideri con la realtà, quanto i successivi giudizi catastrofici sono impressionistici ed errati. La realtà è che siamo di fronte ad uno sconvolgimento rivoluzionario di lunga durata, un processo rivoluzionario che è iniziato nel dicembre 2010 e proseguirà sia nei due paesi che hanno ottenuto iniziali successi, sia in quelli che ancora non hanno raggiunto un livello più alto. Tutta la regione è in fermento.  

 

 

Cos’è accaduto con l’appello di inizio dicembre dell’UGTT per uno sciopero generale? È stato ritirato?

 

Gilbert Achcar: L’appello è stato annullato dopo un compromesso. Fondamentalmente, la direzione dell’UGTT ha temuto che il confronto si sviluppasse  a suo sfavore dato che il solo precedente appello allo sciopero generale nel paese, nel 1978, si era risolto in uno scontro durissimo. C’era dunque timore rispetto a ciò che poteva accadere. Per questa ragione l’UGTT ha accettato di ripiegare su un compromesso grazie al quale nessuna delle due parti ha perso la faccia. Tuttavia l’avvertimento era stato comunque lanciato e l’UGTT ha usato parole chiare nei suoi attacchi al governo e nelle sue critiche del modo in cui si comportava al potere: continuava a pretendere la dissoluzione delle milizie armate controllate dal partito islamico. I Fratelli musulmani, tanto in Egitto quanto in Tunisia, si sono dimostrati più efficaci anche di Mubarak nel far ricorso a questo tipo di organizzazione.

Così si presenta la situazione. La prospettiva è molto interessante in Tunisia perché è il solo paese della regione nel quale un movimento organizzato da lavoratori dirige realmente un processo politico. Era già alla testa della rivolta dal dicembre 2010 al gennaio 2011. Ben Ali è fuggito dal paese il giorno in cui lo sciopero generale si è esteso alla capitale, il 14 gennaio 2010. Sono stati i sindacalisti a dirigere la lotta di Sidi Bouzid, la città dove tutto è iniziato dopo il suicidio di Bouazizi, fino al giorno in cui la sollevazione è culminata nella capitale. I militanti sindacalisti di base e i quadri intermedi sono stati la vera direzione della lotta. Tuttavia dopo la caduta della dittatura vi è stato un cambiamento nella direzione della UGTT che ha posto al timone la sinistra, compresa quella radicale. La sinistra tunisina aveva finalmente tratto lezione dalla sua recente esperienza ed era giunta ad unirsi in quello che hanno chiamato Fronte popolare. Il fatto che questa coalizione di forze di sinistra sia dominante all’interno dell’UGTT è estremamente importante: questo pone la Tunisia ad uno stadio più avanzato della lotta rispetto a qualunque altro paese della regione.

 

Passiamo dalla Tunisia all’Egitto dove, dopo l’elezione di Mohamed Morsi alla presidenza nell’estate scorsa, vi è stato un tentativo di unificare l’opposizione contro i Fratelli musulmani. Puoi dirci qualcosa riguardo alle forze di sinistra dopo la rivoluzione?

 

Gilbert Achcar: Sì, ma c’è un’importante differenza tra l’Egitto e la Tunisia. La differenza sta nel fatto che il ruolo della sinistra in Tunisia è molto più importante perché in questo paese essa è stata molto attiva all’interno del movimento sindacale, l’UGTT, per un periodo di diversi decenni. E ciò, nonostante che nella gran parte di questo periodo la direzione burocratica del sindacato sia stata sotto il controllo o l’influenza del governo. La sinistra è rimasta costantemente molto attiva nelle sezioni sindacali locali: non a caso i militanti sindacali più conosciuti appartengono alla sinistra.

Purtroppo una situazione simile non esiste in nessun altro paese della regione, compreso l’Egitto. In Egitto l’opposizione si è organizzata in una coalizione della sinistra e di forze liberali, compresi alcuni resti del vecchio regime. Sicuramente ciò potrebbe avvenire anche in Tunisia nella misura in cui alcune forze di sinistra o del sindacato fossero tentate da un’alleanza con i resti del vecchio regime nello scontro con i Fratelli musulmani, le forze integraliste islamiche. Tuttavia, questo già accade in Egitto, dove Amr Moussa fa parte della coalizione. Occorre dire che Moussa  rappresenta la frazione liberale del vecchio regime. Non è come Ahmed Chafik, l’ex candidato alle presidenziali, che era considerato il rappresentante ufficiale della continuità con il regime di Mubarak. Ciò che caratterizza l’Egitto, quindi, è una coalizione della sinistra con i liberali. Nella misura in cui si tratta di un fronte unito nella rivendicazione della democrazia, l’alleanza può essere ritenuta legittima. Il problema, però, è che essa va ben oltre, trasformandosi in alleanza elettorale.

La stessa sinistra allargata è rappresentata soprattutto da Hamdin Sabahi, il candidato che ha sorpreso tutti al primo turno delle elezioni presidenziali arrivando in terza posizione e vincendo anche al Cairo e ad Alessandria, le due più importanti concentrazioni urbane. È  stata una grande sorpresa. Sabahi è riuscito a rappresentare coloro che cercano un’alternativa sia al vecchio regime sia alle forze islamiche. Dopo le elezioni Sabahi ha fondato la Corrente popolare, alla quale si è unita la gran parte dei gruppi della sinistra radicale. La Corrente radicale, purtroppo, è stata soppiantata da una più larga coalizione orientata a sviluppare il potenziale di sinistra raccolto attorno a Sabahi al momento del primo turno delle elezioni presidenziali.

 

In Egitto lo scontro con il regime diretto dai Fratelli musulmani solleva la questione del ruolo dell’esercito. Puoi condividere con noi le tue riflessioni a questo riguardo? Sia sui rapporti di forza sia sui possibili sviluppi dei problemi economici e politici non risolti: è un regime che perde il sostegno elettorale e la propria legittimità elettorale e politica?

 

Gilbert Achcar: La velocità con la quale Morsi perde sia il terreno che la legittimità è la vera sorpresa. Ho sempre pensato – e non sono il solo – che la gente avesse bisogno di passare attraverso un’esperienza di questo genere, in modo da capire cos’è realmente e poter smettere di essere ingannata da slogan tipo “l’Islam è la soluzione”, slogan che nascondono l’assenza di concreti programmi alternativi. Ma ciò sta avvenendo ancora più rapidamente di quanto previsto.

Una delle ragioni è il modo maldestro con cui i Fratelli musulmani fanno fronte alla situazione. Hanno dato prova di molta arroganza, credendo che con l’aiuto di Dio fosse arrivato il loro momento e che avessero le redini saldamente nelle mani. Vi è in questo una grande miopia politica. Se fossero stati più intelligenti, avrebbero capito che tutto questo era avverso ai loro interessi nel governare in questo momento. Chiunque cerchi di dirigere il paese col genere di programma che essi hanno [i Fratelli musulmani]- che non è altro che la prosecuzione del programma del vecchio regime – è condannato ad una cocente sconfitta. L’evento più significativo avvenuto in Egitto è stato l’accordo che Morsi ha firmato con il FMI [Fondo Monetario Internazionale]. Ha firmato un accordo che include le condizioni considerate fondamentali da tutti i potenziali donatori dell’Egitto. Hanno firmato un accordo che corrisponde alle loro vedute neoliberiste che, ben inteso, non sono diverse da quelle del vecchio regime. Mentre i Fratelli musulmani iniziavano a scontrarsi con l’opposizione, il governo Morsi ha deciso di aumentare il prezzo degli alimenti base e di modificare il sistema delle imposte in modo che non colpisca i più ricchi. Questo ha provocato tali proteste che Morsi ha dovuto dopo qualche giorno annullare queste misure sulla sua pagina di Facebook! Ciò dimostra fino a che punto questa gente non è minimamente in grado di trovare una soluzione reale ai profondi problemi sociali ed economici del paese.

Ora arrivo al ruolo dell’esercito. C’è molta agitazione riguardo al “colpo di Stato rivoluzionario” che sarebbe rappresentato dall’esclusione voluta da Mohamed Morsi di Hussein Tantaui e del suo vice alla testa del Consiglio Supremo delle Forze Armate, il CSFA. Però, questo è stato fatto con il pieno accordo delle gerarchie militari, che avevano realmente tentato di sbarazzarsi di queste persone che ricoprivano quelle cariche soltanto perché erano stati imposti da Mubarak contro la volontà dei militari. Basta considerare l’età di Tantaui, ben superiore ai limiti per poter restare nell’esercito in servizio attivo. È noto, sulla base dei rapporti diplomatici americani pubblicati da Wikileaks, che gli ufficiali chiamavano Tantaui “il barboncino di Mubarak”. Il fatto di spedirlo in pensione non aveva, quindi, niente di “rivoluzionario”. I due ufficiali hanno ricevuto medaglie e generosi benefici e anche un’immunità che li dispensa dal dover rendere conto di ciò che hanno fatto finché erano alla testa del CSFA. La convinzione secondo la quale la posizione dell’esercito sarebbe stata indebolita è quindi del tutto errata.

Si pensi a ciò che è accaduto di recente quando sembrava che lo scontro tra Morsi e l’opposizione fosse arrivato al culmine. Il nuovo capo dell’esercito ha preso l’iniziativa di presentarsi come arbitro della situazione ed ha convocato una conferenza che avrebbe dovuto riunire il presidente e il governo, da un lato, e l’opposizione, dall’altro.  L’esercito aveva già rilasciato delle dichiarazioni che sono la copia esatta delle sue dichiarazioni durante l’insurrezione contro Mubarak, sostenendo che non avrebbe represso il popolo. Il messaggio era il seguente: “Non abbiamo accettato di essere usati politicamente da Mubarak e non accetteremo di esserlo da parte di Morsi”. È dunque questo  il ruolo che svolge l’esercito. Si può supporre che Washington abbia insistentemente consigliato all’esercito di rimanere estraneo alla disputa, di mantenersi in veste di arbitro in modo da poter avere il ruolo di “salvatore” se la situazione dovesse degenerare ulteriormente, con la ripetizione della sequenza tradizionale: rivoluzione, caos, colpo di Stato. Il popolo egiziano, in ogni caso, è troppo critico verso l’esercito perché qualcosa del genere possa accadere. Ma nessuno può prevedere ciò che potrà accadere nel lungo periodo.

 

 

Prima di farti una domanda sulla Siria, vorrei chiederti brevemente qual è il rilievo della questione dei palestinesi e di Gaza in questa situazione. Il modo con cui Morsi ha agevolato il negoziato dell’accordo [tra Hamas e Israele]è stata interpretata come una buona mossa per lui. Il settimanale Time, come sai, lo ha battezzato come l’uomo più importante del Medio Oriente, per poi criticarlo una settimana più tardi.L’intera questione di Israele e dei palestinesi ha un’importanza significativa in questo quadro? Puoi dirci qualcosa a riguardo?

 

Gilbert Achcar: Questa è una domanda che ci fa arrivare ad un punto importante. Ho parlato della boria e dell’arroganza dei Fratelli musulmani. Un elemento chiave che spiega il loro atteggiamento è il sostegno che hanno da parte di Washington. Questo è un elemento centrale nella loro convinzione di essere al comando, di poter dirigere [la situazione]. Washington infatti è stata colta alla sprovvista dalla sollevazione popolare ed in un momento in cui gli Stati Uniti si trovavano – e si trovano – nel momento più basso della loro influenza dopo aver raggiunto l’apogeo nel 1991, con Bush padre, quando un milione e mezzo di soldati statunitensi erano dispiegati nel Golfo all’epoca della guerra diretta dagli Stati Uniti contro l’Iraq. A quell’epoca, l’apogeo dell’egemonia degli Stati Uniti ha condotto anche al cosiddetto processo di pace tra Israele e gli Stati arabi e successivamente agli accordi di Oslo nel 1993. Tutto questo, ormai, è alle nostre spalle. Il fattore principale di questo risultato è comunque la politica dell’amministrazione di George W. Bush e la catastrofe più significativa per l’Impero americano che si è rivelata con l’occupazione dell’Iraq. Si è trasformata in un disastro. Le forze armate degli Stati Uniti hanno dovuto ritirarsi dall’Iraq senza aver raggiunto neppure uno degli obiettivi fondamentali che si erano prefissati occupando il paese. Hanno dovuto lasciarlo senza neppure mantenervi una sola base e senza esercitare alcun controllo sul governo, che è molto più controllato dall’Iran. La prima cosa che il governo iracheno ha fatto dopo la partenza delle truppe americane è stata quella di negoziare un accordo sugli armamenti con la Russia. L’Iraq è stato un disastro per gli Stati Uniti e non a caso si trovano in una  situazione di grande debolezza. Gli Stati Uniti si sentono indeboliti nella regione e sono rimasti in secondo piano durante le operazioni della NATO in Libia, conservando un basso profilo, contrariamente a tutte le operazioni precedenti, sia condotte dalla NATO (in Kosovo e in Afghanistan) o no (in Iraq). E si può molto chiaramente constatare l’impotenza di Washington nel caso della Siria. In questa situazione l’unica forza su cui [gli Stati Uniti]potevano puntare erano i Fratelli musulmani.

È stato l’emiro del Qatar, grazie alla sua posizione di principale sponsor dei Fratelli musulmani fin dalla prima metà degli anni novanta, che ha concluso l’intesa. Washington ha finito per puntare sui Fratelli musulmani perché ha perso i suoi alleati abituali come Mubarak e Ben Ali. Dato che stiamo entrando in una nuova fase della storia della regione, Washington ha bisogno ormai di una forza che disponga di una vera base popolare. L’unica forza che hanno trovato è quella dei Fratelli musulmani, verso i quali sono molto ben disposti visto che hanno avuto una lunga storia di collaborazione. Nel corso degli anni cinquanta, sessanta e ottanta, fino agli anni novanta del secolo scorso, i Fratelli musulmani  erano allineati con gli Stati Uniti, in particolare durante gli anni cinquanta e sessanta, quando in tutta la regione erano visti come dei collaboratori della CIA. Questo è il ruolo che in realtà hanno avuto, lavorando contro il presidente egiziano Nasser e contro l’influenza sovietica in stretta collaborazione con la CIA, con gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita. All’epoca erano sponsorizzati dai sauditi prima di passare negli anni novanta all’appoggio del Qatar.

Washington, quindi, punta di nuovo su di essi. Il ruolo svolto da Morsi nell’episodio di Gaza  non è che la prosecuzione del ruolo che svolgeva il regime di Mubarak in passato, pur tuttavia con una maggiore efficacia grazie al fatto che Hamas è la branca palestinese dei Fratelli musulmani. Quindi hanno un’influenza maggiore su Hamas e di conseguenza hanno potuto negoziare quell’accordo e ottenere le congratulazioni degli Stati Uniti. Washington punta su questi signori sia in Tunisia, sia in Egitto e in futuro in Siria, quando il regime cadrà. Non vi è un solo paese dove i Fratelli musulmani non siano presenti e non abbiano un ruolo importante. Per questa ragione Washington punta su di loro e si è mostrata estremamente cauta nei suoi commenti su ciò che avviene in Egitto. L’amministrazione Obama infatti è stata più severa nel criticare Mubarak di quanto non abbia fatto con i Fratelli musulmani.

 

Puoi dirci qualcosa riguardo alla Siria? In questo preciso momento tutto il processo è incredibilmente complesso e violento da parte del governo e non esiste unanimità in seno all’opposizione, neanche all’interno della sinistra contrapposta al regime, nella misura in cui alcuni suoi segmenti sembrano sostenere il regime. Puoi commentare gli sviluppi in Siria?

 

Gilbert Achcar: La Siria non fa eccezione rispetto all’insieme delle sollevazioni della regione, nel senso che siamo di fronte a un regime dittatoriale, in verità uno dei più dispotici della regione (insieme alla Libia di Gheddafi e del regno saudita). Per un altro verso, si tratta di un paese nel quale la crisi socio-economica è stata molto grave, con un tasso di disoccupazione molto alto, un tasso di povertà che raggiunge il 30% e, inoltre, una famiglia regnante che concentra il potere e le ricchezze ad un incredibile livello. Il cugino del presidente siriano controlla il 60% dell’economia del paese. La sua ricchezza è stimata in sei miliardi di dollari. Gli ingredienti di un miscuglio esplosivo c’erano tutti. Ed è esploso.

A sinistra, ci sono i comunisti che partecipano al governo siriano. È una tradizione che risale ai tempi dell’Unione Sovietica, che intratteneva strette relazioni con il regime siriano – relazioni che sono proseguite con la Russia di Putin. La maggioranza della sinistra, per non dire tutta la sinistra nel senso vero del termine, è contro il regime. Il partito di sinistra più importante è rappresentato nel Consiglio Nazionale Siriano: si tratta di un’ala dissidente dei comunisti, che si è scissa negli anni settanta e si è opposta alla collaborazione con il regime.

Credere che il regime siriano sia “di sinistra” o, peggio, che Assad sia un “socialista, un umanista e un pacifista”, come ha dichiarato Hugo Chavez in modo molto imbarazzante è nel migliore dei casi frutto di ignoranza. Chiunque si dichiari di sinistra non dovrebbe avere la minima esitazione a sostenere pienamente il popolo siriano nella lotta contro questa brutale dittatura, sfruttatrice e corrotta. Al di là di questo, in Siria come in qualunque altro paese della regione, esistono forze che lottano contro il regime degli integralisti islamici. È stato il caso tanto della Tunisia quanto dell’Egitto. Questo non può essere preso a pretesto per denigrare l’intero processo di rivolta. In Siria, come altrove, la sinistra deve sostenere senza esitazione il movimento popolare e nello stesso tempo, dove le dittature vengono rovesciate, devono essere sostenute le forze più progressiste in seno al movimento popolare, seguendo questo processo di radicalizzazione all’interno della stessa rivoluzione che Marx ha chiamato “rivoluzione permanente”.

 

 

(Traduzione di Cinzia Nachira dalla versione francese a cura di A l’Encontre,  rivista dall’autore. Il testo originale in inglese è stato pubblicato in International Socialist Review, periodico dell’ISO – Stati Uniti. L’intervista è stata realizzata nel dicembre 2012)

 

Gilbert Achcar, di origini libanesi, è professore presso il SOAS-Università di Londra. Nei prossimi giorni sarà pubblicata la sua ultima opera Le peuple veut. Une exploration radicale du soulèvement arabe, Edizioni Acte Sud, Sinbad. Nella presentazione del libro si può leggere: “Il primo studio di fondo sulle sollevazioni popolari nel mondo arabo, iniziate con la rivoluzione tunisina nel dicembre 2010. L’autore analizza le condizioni economiche, sociali, politiche ed ideologiche che spiegano queste rivolte e che hanno determinato le forme particolari che hanno assunto in ciascun paese”.