Rosa, Trotskij e il Che **

Una riflessione ulteriore sulle ragioni della sistematica denigrazione dei tre grandi rivoluzionari, che spesso attribuisce loro responsabilità di altri…
A proposito della sicurezza con cui tanti giurano sulla spietata durezza del Che nei confronti degli oppositori, vorrei ricordare che tutte le fonti memorialistiche su Guevara, e uno dei suoi scritti più importanti,Pasajes de la guerra revolucionaria, confermano invece che la severità, indirizzata solo verso i profittatori della rivoluzione, o verso chi la metteva in pericolo collaborando con il nemico, non era mai disgiunta dalla comprensione e dalla sensibilità per chi doveva essere punito. Su questo riporto qui un paragrafo tratto dal mio libro Il Che inedito, edito da Alegre nel 2006…

 

Dure punizioni per i privilegi e gli accaparramenti

Un altro aspetto sottolineato spesso è quello dell'intolleranza nei confronti di chi cerca privilegi e utilizza una carica per vantaggi personali. Se del quasi ossessivo rifiuto di un pasto diverso dagli altri (con l'unica eccezione per il caffè, che voleva a ogni costo amaro, e che a volte accettava prima degli altri, per consentire di mescolare lo zucchero nella brocca in cui veniva colado) non parla mai nei suoi scritti sulla guerriglia, della severità contro i profittatori rimangono invece importanti tracce nei Passaggi della guerra rivoluzionaria.

In uno dei suoi capitoli più avvincenti Guevara affronta con la consueta sincerità un tema inquietante, descrivendo la giustizia sommaria usata contro i banditi che avevano cercato di "appropriarsi del nome e dei beni della rivoluzione". In alcuni casi si trattava di veri banditi, di cui ugualmente il Che parla con comprensione. Di uno di essi, el chino Chang, riferisce l'episodio patetico della richiesta del conforto della religione prima della fucilazione, e che essendo impossibile, essendo lontano padre Sardiñas, (il prete che appoggiò la guerriglia), "chiese che risultasse agli atti che aveva chiesto un sacerdote, come se questa documentazione gli servisse da attenuante nell'altra vita". Di un contadino che aveva violentato un'adolescente, avvalendosi della sua autorità di staffetta dell'Esercito Ribelle, ricorda che rifiutò di essere bendato e morì inneggiando alla rivoluzione.[1]l

A proposito di uno di essi, che aveva avuto modeste funzioni dirigenti nella zona ma aveva annunciato a destra e a manca di non essere stupido, e di non avere l'intenzione di farsi prendere quando i guerriglieri si fossero allontanati, sicché aveva preso contatti con l'esercito, Guevara si domanda se era veramente così colpevole da meritare la morte, e se non poteva essere salvata una vita per la tappa della costruzione rivoluzionaria. La spiegazione che dà è che "la guerra è difficile e dura" e in certi momenti "non si può permettere neppure l'ombra di un tradimento. Mesi prima, per una debolezza ancor più grande della guerriglia, o mesi dopo, per una forza relativamente ben maggiore, forse gli avrei salvato la vita. Ma Arístidio ebbe la sfortuna che le sue debolezze come combattente rivoluzionario coincidessero con il momento preciso in cui eravamo abbastanza forti per punire drasticamente un'azione come la sua, e non abbastanza forti per punirla in altro modo".[2] Certo allora il Che non conosceva ancora Trotskij, ma probabilmente quando negli ultimi anni della sua vita cominciò a leggerlo avrà trovato anche per questo atteggiamento razionale dei punti di contatto.

Ma quel che è più significativo è l'atteggiamento avuto verso un gruppo "la cui fucilazione fu per noi dolorosa: un contadino di nome Dionisio, e due degli uomini che avevano aiutato per primi la guerriglia" avevano abusato della fiducia "appropriandosi di tutti i viveri che le organizzazioni della città ci mandavano". Avevano organizzato "alcuni accampamenti dove si macellavano indiscriminatamente bovini, e su questa strada erano arrivati perfino all'assassinio".

"In quell'epoca, sulla Sierra, le condizioni economiche di un uomo si misuravano fondamentalmente dal numero di donne che poteva avere, e Dionisio, seguendo il costume vigente e considerandosi un notabile grazie ai poteri che la Rivoluzione gli aveva conferito, si era fatto tre case, in ciascuna delle quali aveva una "moglie" e un abbondante approvvigionamento di viveri. " Durante il processo cercò di discolparsi di fronte all'accusa rappresentata da Fidel, affermando "con ingenuità contadina" che le donne erano solo due perché una era la sua legittima sposa. Furono condannati alla fucilazione, insieme a un "personaggio pittoresco chiamato El maestro", che aveva accompagnato il Che in alcuni momenti difficili, ma che successivamente si era separato dalla guerriglia col pretesto di una malattia e si era "dedicato a una vita immorale", culminando le sue avventure spacciandosi per il Che in funzione di medico, e cercando di abusare di una ragazzina contadina che gli aveva chiesto di essere curata. Tutti morirono facendo professione di fede nella rivoluzione, e rifiutando l'assistenza di padre Sardiñas, che in quel caso era presente.[3]

Colpisce il giudizio articolato del Che su costoro: "Questa era la gente con cui si faceva la rivoluzione. Ribelli, inizialmente, contro ogni ingiustizia, ribelli individualisti che si stavano abituando a soddisfare le loro necessità personali e non concepivano una lotta con caratteristiche sociali; quando la Rivoluzione trascurava un istante la sua attività di controllo, commettevano errori che li conducevano al crimine con sorprendente naturalezza. (…) Non erano peggiori di altri delinquenti occasionali che furono perdonati dalla rivoluzione e che oggi stanno anche nel nostro esercito, ma il momento esigeva la mano pesante e un castigo esemplare per frenare ogni tentativo di indisciplina e liquidare gli elementi di anarchia che penetravano in quelle zone non soggette a un governo stabile". Di uno di essi (che "cedendo a non si sa quali tentazioni, aveva cominciato a praticare rapine a mano armata nel territorio della guerriglia"), Guevara pensa che forse poteva diventare un eroe della rivoluzione come due dei suoi fratelli, ufficiali dell'Esercito Ribelle, ma "gli toccò la mala sorte di delinquere in quell'epoca". Ne ricorda anche il nome, Echevarría, perché la "sua fine non fu denigrante", giacché "servì da esempio, tragico ma valido, perché si comprendesse la necessità di fare della nostra Rivoluzione un fatto puro, senza contaminazioni con il banditismo a cui ci avevano abituato gli uomini di Batista". Echevarría aveva ammesso le sue colpe, chiedendo però che gli si concedesse di morire in combattimento per non disonorare la famiglia; poi, dopo la condanna, "aveva scritto una lunga e commovente lettera alla madre spiegandole la fondatezza della pena a cui veniva sottoposto, e chiedendole di essere fedele alla rivoluzione."[4]

Al di là del sorprendente rispetto per chi aveva mancato, e della fiducia nella possibilità di redenzione attraverso la rivoluzione, colpisce la franchezza con cui si descrive una giustizia così sommaria e che in un altro momento storico potrebbe essere fraintesa o suscitare critiche. Ma questo si deve alla convinzione profonda di 'Guevara che "la verità è rivoluzionaria", e ha un grande valore pedagogico. E' però altamente significativo che l'abuso della fiducia della Rivoluzione per fini personali sia considerato un crimine tra i più gravi.

Ma perché allora tanta ostilità nei confronti del Che, sia dai conservatori e reazionari, sia da parte di alcuni settori della ex sinistra? Periodicamente qualcuno mi segnala che gli vengono attribuite le colpe più inverosimili, oltre alla crudeltà e all’accanimento sugli avversari (smentito tra l’altro da episodi della guerriglia boliviana, come quello in cui durante un’imboscata lascia passare un camion con due soldatini giovani e ignari che erano già nel mirino della sua arma). A volte è stato accusato di maschilismo, mentre c’è la registrazione di un suo intervento in un’assemblea del Ministero dell’Industria in cui stigmatizzava le ingerenze e i pregiudizi sui comportamenti privati di alcune segretarie; periodicamente viene anche messa in circolazione in ambienti gay l’accusa di aver creato per omofobia le UMAP (Unidades militares de apoyo a la producción), accusa inverosimile perché al momento della loro istituzione aveva lasciato l’isola ed era già nel Congo: l’unica testimonianza sul tema è di Carlos Franqui, che riferisce di un diverbio del Che con Raúl Castro proprio in risposta a una battuta omofoba. Ne ho parlato a proposito delle insinuazioni di Casa Pound sul Che, in Giù le mani da Guevara.

Perché dunque tanto accanimento? Lo si capisce meglio vedendo quali sono gli altri bersagli preferiti di queste polemiche faziose. Prima di tutto Rosa Luxemburg e Lev Trotskij. Di Rosa, la destra tedesca e non solo, ha sempre presentato un’immagine incredibilmente opposta alla realtà. Rosa la rossa, era Rosa rossa di sangue, Rosa che aveva scatenato un massacro mandando allo sbaraglio gli insorti berlinesi… Un’insinuazione ripresa anche dai riformisti, che hanno spesso presentato come un’insurrezione la confusa e disorganizzata protesta degli operai berlinesi contro la destituzione del prefetto di sinistra da parte del governo. Una provocazione riuscita proprio per l’estrema debolezza degli spartachisti in quei primi giorni del gennaio 1919, e che offrì il destro ai Corpi Franchi, i mercenari assoldati dal ministro socialdemocratico della guerra Gustav Noske, per assassinare a freddo Rosa e Karl Liebkhnecht.

Quanto a Trotskij, migliaia di pennivendoli borghesi e socialdemocratici, più un certo numero di anarchici, si sono uniti agli stalinisti nel presentarlo come un mostro assetato di sangue, in passato accentuandone perfino i caratteri somatici ebraici… E molti assicurano ancora oggi che sicuramente avrebbe fatto ben peggio di Stalin, se fosse arrivato al potere.

Peccato che la motivazione di tanta ostilità era dovuta prima di tutto al suo “scandaloso” disinteresse per il potere personale, che gli fu rimproverato anche da tanti suoi amici e sostenitori, tra cui, più tragicamente, Adolf Joffe, nella lettera con cui nel novembre 1927 gli annunciava il suo suicidio e lo stimolava alla lotta.

La vulgata che presenta il dibattito nel gruppo dirigente del partito bolscevico come finalizzato alla “successione a Lenin” è per giunta assolutamente fuorviante. Non c’era nessuna “successione” da decidere, Lenin non aveva incarichi particolari, la sua autorità era quella del prestigio eccezionale di un primus inter pares, che non esitava se necessario a schierarsi all’opposizione rispetto a decisioni ritenute sbagliate (nell’aprile 1917, e poi al momento della trattative di Brest Litovsk). Il dibattito nel gruppo dirigente nel 1923-1926 non verteva sulle cariche da assumere, ma sulle proposte per affrontare una crisi dovuta all’applicazione incontrollata della NEP e al consolidamento di uno strato di contadini ricchi e di piccoli e medi imprenditori rampanti.

Naturalmente anche Lenin è oggetto di una campagna di denigrazione sistematica, facilitata anche dall’esaltazione e dalla schematizzazione del suo pensiero che fanno certi suoi sostenitori, ma nel caso di Trotskij, di Rosa Luxemburg e di Che Guevara l’elemento che spiega una così tenace e calunniosa ostilità è quello che li accomuna: tutti e tre giganteggiavano sul loro tempo e nel paese in cui avevano avuto un ruolo importante, tutti e tre erano “cosmopoliti”, non russi né tedeschi né cubani, ma internazionalisti incondizionati. Tutti e tre avevano sdegnato il potere, rinunciando uno all’incarico di capo dell’armata rossa e della diplomazia rivoluzionaria, l’altro a un ruolo di numero due della rivoluzione amatissimo e impegnato notte e giorno nella direzione dell’economia, mentre Rosa aveva rifiutato sdegnosamente la proposta di entrare nel governo provvisorio costituitosi al momento della rivoluzione di novembre. Non ci pensava minimamente, era contaria a quel governo ibrido in cui la sinistra indipendente conviveva con i socialdemocratici più strettamente legati all’imperialismo, gestendo un pressoché intatto apparato statale borghese.

Trotskij, arrivando a Pietrogrado nel maggio 1917 aveva commentato amareggiato che il menscevico di sinistra Cheidze, che aveva conosciuto come un giovane brillante e preparato, “aveva rinunciato al suo ruolo nel processo storico rivoluzionario per un volgare posto di ministro”.

Si capisce perché migliaia di mediocri che aspiravavano al più modesto dei posti di sottogoverno non potevano che odiare chi dimostrava la sua indifferenza per le lusinghe del potere, per mantenere la coerenza con i propri princìpi.

E noi dobbiamo invece coltivare la memoria di quei grandi rivoluzionari valorizzando proprio questo loro atteggiamento, tanto più in un tempo in cui i pochi resti della sinistra che si diceva radicale si sono appiattiti invece in questa o quella lista o coalizione interclassista, nella speranza di ottenere, almeno, uno scranno in un parlamento già irreparabilmente screditato.

(a.m. 11/2/13)

Rinvio per ulteriore documentazione agli scritti sui tre grandi rivoluzionari contenuti in diverse sezioni dei GRANDI NODI DEL NOVECENTO, ma anche alla presentazione del mio ultimo libro su Fidel e il Che , e in particolare alla nota di commento alla recensione uscita sul “Corriere della sera” che ho aggiunto in coda. In fondo questa è solo la continuazione di quel piccolo scritto amareggiato per un nuovo esempio di fraintendimento del Che.

Sull’uso diffuso di ricostruzioni demonizzanti sul ruolo di Lev Trotskij, ho scritto più volte, ad esempio in Trockij oggi e – in polemica con il massimo banalizzatore della questione della nonviolenza, Bertinotti – in  Metafisica della non violenza o ricostruzione storica?. La risposta di Lev Trotskij a chi gli attribuiva responsabilità personali (quelle politiche le assumeva, in quanto parte del gruppo dirigente) è sul sito in due lettere: Trotskij e Kronstadt


[1]Ernesto Che Guevara, Escritos y discursos, tomo 2, Editorial de Ciencias Sociales, La Habana, 1985, p.151.

[2]Ivi, p.150.

[3]Ivi, pp. 152-154.

[4]Ivi, p. 153-154.