Achcar sulla Libia

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La “cospirazione” della NATO contro la Rivoluzione libica

di Gilbert Achcar

Finalmente uno dei collaboratori volontari del sito, Luigi Marini, che credevo non ce la facesse perché in fase di trasferimento, mi ha inviato la traduzione dall’inglese del testo di Achcar che avevo già citato e utilizzato ampiamente, e che aveva suscitato diverse polemiche, in genere faziose e prevenute. Ora sarà possibile giudicare direttamente. Un altro compagno, da Genova, aveva cominciato a tradurre lo stesso testo. Spero di riuscire in futuro a programmare un calendario di collaborazioni certe e tempestive, in un periodo in cui si susseguono vicende drammatiche e appassionate discussioni a livello internazionale. (a.m. 4/9/11)

In un editoriale pubblicato dal Wall Street Journal il 19 luglio scorso, Max Boot, autore noto per le sue posizioni neoconservatrici e storico militare fervente sostenitore delle campagne per l’ "esportazione della democrazia"  e del pieno coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Libia, ha scritto riferendosi a un articolo del Financial Times del 15 giugno, che metteva a confronto la campagna di bombardamenti aerei attuata in Libia e quella del 1999 in Kosovo per sottolineare la minor potenza di fuoco utilizzata nell’intervento in Libia. Boot ha commentato questo confronto dettagliato:

“La guerra in Kosovo non è stata "Apocalypse Now", ma dopo 78 giorni, la NATO ha impiegato  1.100 aerei e effettuato 38.004 voli. Al contrario, in Libia, ha inviato solo 250 aerei e volato 11.107 volte. Non a caso, dopo 78 giorni Slobodan Milosevic ha rinunciato al Kosovo, mentre dopo 124 giorni e più, Gheddafi continua a non mollare il potere.”

I paradossi libici della NATO

Durante l’operazione Desert Storm, la coalizione guidata dagli Usa contro l’Iraq nel 1991, non furono necessari più di 11 giorni per fare lo stesso numero di operazioni aeree effettuate in Libia in 78 giorni. Il numero totale in 43 giorni di Desert Storm raggiunse 109.876, una media di 2.555 al giorno. Dopo la devastazione causata da quella "tempesta" e i bombardamenti effettuati durante i 12 anni dell’embargo tra il 1991 e il 2003, sono state necessarie 41.850 operazioni aeree durante le prime 4 settimane della cosiddetta Operazione Iraqi Freedom. Di queste, 15.825 sono state attacchi aerei, una media di 565 al giorno. Andrew Gilligan il 4 giugno ha potuto scrivere su The Spectator:

“Nonostante i rituali annunci di un’ "intensificazione" degli attacchi e di "bombardamenti ancora più pesanti", la potenza di fuoco è stata sempre relativamente leggera. Durante l’intera operazione, il numero totale di attacchi della Nato, non solo di quelli aerei effettivi, è stata in media di 57 al giorno, meno della metà di quelli realizzati da una coalizione simile nella missione in Kosovo, e una piccola parte di quello che fecero gli USA e la Gran Bretagna in Iraq.

Aggiungete a questo che ci vuole molta più pressione per costringere un dittatore ad abbandonare il potere che ad abbandonare una parte del suo territorio. Dal momento che la possibilità di Gheddafi di riprendere il controllo su Bengasi è prossima allo zero, di fatto potrebbe rinunciare volentieri alla città ribelle e con essa all’intera regione ad est di Ajdabiya, nel tentativo di salvare il trono di "Re dei re d’Africa" per il quale ha comprato generosamente alleati fedeli dal 2008. Ecco perché un cosi grande sforzo militare e tanta violenza per cercare di conquistare Misurata, la città chiave in mano ai ribelli nella parte occidentale della Libia, che gli ha impedito di fatto la divisione in due del paese. Per questo gli insorti hanno resistito con ostinazione a Misurata, nonostante i violenti attacchi, anche se avevano la possibilità di essere evacuati via mare con il resto degli abitanti della città, come le migliaia di migranti e feriti che sono stati trasferiti dalla città in questo modo.

Le prime accuse propagandistiche contro gli insorti, che sostenevano che il loro obiettivo fosse la spartizione del paese, sono state completamente smentite dalla loro ostinazione nella lotta per la liberazione di tutto il territorio del paese dalla dittatura di Gheddafi. Questo sta avvenendo nonostante il costo molto alto pagato a causa della sproporzione tra la loro forza di terra e quella del regime, una sproporzione nei veicoli blindati, artiglieria, missili, e combattenti addestrati che è solo parzialmente compensata dall’intervento della NATO. Molti corrispondenti militari dai vari fronti di guerra sottolineano come i ribelli siano male armati, poco addestrati, dilettanteschi e disorganizzati, ma anche la dedizione sorprendente di un gran numero di civili divenuti combattenti per la liberazione del loro paese. Questa dedizione spiega la determinazione dei ribelli nel continuare a combattere questa lotta impari, contro le forze ben equipaggiate, ben addestrate e ben pagate dal regime di Gheddafi.

Le domande cruciali sono allora: perché la NATO sta conducendo una campagna aerea di basso profilo in Libia, non solo rispetto all’altrettanto ricco di petrolio Iraq, ma anche rispetto all’ economicamente irrilevante Kosovo? E perché l’Alleanza, allo stesso tempo non rifornisce i ribelli delle armi che hanno sempre insistentemente richiesto? A prima vista appaiono due strani paradossi.

Il primo paradosso è che sia in Iraq e in Afghanistan, le guerre a guida Usa hanno puntato sulla "nazionalizzazione" del conflitto (nello spirito della "vietnamizzazione" che ha preceduto il ritiro degli Stati Uniti nel 1973). In Libia, nonostante le forze locali chiedano rifornimenti di armi di cui hanno bisogno, assicurando che con un armamento adeguato potrebbero ottenere molto presto la liberazione del paese, assistiamo al rifiuto da parte della NATO, un fatto che la modesta consegna di armi da parte della Francia sul fronte occidentale non altera in modo sostanziale.

Questo nonostante il fatto che, contrariamente agli afghani, gli insorti sono disposti e potenzialmente in grado di pagare qualsiasi fornitura di armi. Come tutti sanno, non è nella tradizione dei mercanti di morte occidentali, storcere il naso di fronte a una così succulenta opportunità. Tutti hanno gareggiato nel vendere armi a Gheddafi negli ultimi anni, tanto da riuscire a stringere accordi con lui per quasi un miliardo di dollari tra la fine del 2004, quando i loro governi hanno tolto l’embargo sulla Libia, e la fine del 2009. Ciò ha incluso le bombe a grappolo, vendute da una società spagnola, che Gheddafi non ha esitato a usare contro il suo popolo.

Il logico corollario del rifiuto della Nato di armare gli insorti avrebbe dovuto essere quello di condurre una campagna aerea molto intensa per compensare la debolezza sul terreno di quelli che intende sostenere. Eppure il secondo paradosso della NATO in Libia è che la campagna aerea impallidisce se confrontata con quella in Kosovo, per non parlare di quelle in Iraq o Afghnistan. Questo fatto è molto sentito dalla guerriglia libica, come i corrispondenti occidentali hanno riferito fin dai primi giorni della guerra aerea della NATO. Come C. J Chivers ha scritto il 24 luglio sul blog "At War" del New York Times, la frustrazione dei ribelli è cresciuta sempre di più:

“Una delle cose più frequenti che si ricavano ascoltando i combattenti libici è la consapevolezza di una netta separazione tra ciò che si dice della campagna di bombardamenti NATO da parte dei combattenti sul campo e le dichiarazioni dei funzionari del Consiglio Nazionale di Transizione [CNT], de facto l’autorità dei ribelli. Ufficialmente, la leadership dei ribelli non può non ringraziare i piloti che volano sopra le loro teste. Le figure politiche del CNT si danno a dichiarazioni formali a pieno sostegno e di gratitudine per il lavoro della NATO, i cui leader evitano accuratamente di contrariare.

Quelli più vicini alla prima linea o che vivono in pericolo, tuttavia, hanno opinioni più sfaccettate. Anche loro esprimono gratitudine per il lavoro svolto dalla NATO all’inizio, quando le forze del colonnello libico Muammar Gheddafi sono state fermate dai raid aerei evitando l’annientamento della rivolta di Bengasi. Ma esprimono anche una profonda e, talvolta, angosciante frustrazione per la lentezza e per l’individuazione degli obiettivi da parte del supporto aereo, e parlano spesso della NATO come qualcosa di lento e di incompetente”.

Potrebbe essere che la NATO, che ha tranquillamente ignorato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (UNSC), durante la guerra aerea contro il regime serbo di Milosevic nel 1999, improvvisamente si sia convertita al rispetto dello stato di diritto negli affari internazionali? Difficile. Allora può essere che la NATO si senta in dovere di attenersi alla lettera alla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che ha autorizzato la campagna aerea in Libia? Solo uno sciocco potrebbe crederci. Tale risoluzione è stata ampiamente violata sia formalmente che sostanzialmente dalla campagna della NATO, che è andata ben oltre "tutte le misure necessarie … per proteggere i civili e le aree popolate da civili sotto minaccia di attacco."  Questo ha incluso diversi raid su Tripoli e altre zone controllate dal regime, che hanno aumentato il rischio e l’entità dei "danni collaterali" che la NATO infligge ai civili che ha la pretesa di proteggere.

"L’attuazione rigorosa dell’embargo sulle armi", come richiesto nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza non è sicuramente ciò che sta impedendo alle potenze della NATO di armare la ribellione. Se avessero avuto questa intenzione, neppure i veti di Mosca e Pechino lo avrebbero impedito, come è successo nei Balcani nel 1999 e di nuovo in Iraq nel 2003. Allo stesso modo se la NATO non interviene sul terreno, questo non è sicuramente per il rispetto della risoluzione del Consiglio di Sicurezza che esclude l’impiego di "una forza di occupazione straniera di qualsiasi tipo su qualsiasi parte del territorio libico." Ma è soprattutto perché gli stessi ribelli sono stati irremovibili sul rifiuto di un intervento di terra. Un cartellone a Bengasi a piazza Tahrir, di cui si può vedere la foto sul blog della giornalista palestinese Dima Khatib, spiega acutamente: "No all’intervento straniero sulla nostra terra, Sì alle armi ai ribelli."

Una diffidenza reciproca

La diffidenza è sicuramente reciproca. In pratica l’atteggiamento delle potenze occidentali verso i ribelli libici è completamente diverso rispetto a quello tenuto nei confronti dell’UCK in Kosovo prima e durante la guerra del 1999, o nei confronti dell’Alleanza del Nord prima e durante i bombardamenti in Afghanistan a partire dall’ottobre 2001. Lo conferma la continua enfasi islamofoba dei media occidentali sul ruolo degli islamisti nella ribellione libica, utilizzato come pretesto per non armare i ribelli, e il confronto con il loro compiacimento per la presenza di gruppi simili tra le forze kosovare, per non menzionare il fatto che l’Alleanza del Nord afghana (il cui vero nome è Fronte Islamico Unito per la Salvezza dell’Afghanistan) è composta per la maggior parte da gruppi che sostengono il fondamentalismo e che sono solo leggermente meno estremisti nei toni rispetto ai talebani. I media occidentali denunciano ipocritamente il fondamentalismo islamico solo quando è anti-occidentale e restano invece molto cauti sullo stato più fondamentalista del mondo e il principale sostenitore  mondiale dei gruppi più reazionari del fondamentalismo islamico, cioè il regno Saudita.

I media occidentali non si sono mai preoccupati per l’eterogeneità delle forze afghane raggruppate nella Alleanza del Nord, alla quale si affidò il potere in Afghanistan. Eppure nel 1992, dopo aver sconfitto il regime di Najibullah, che era stato appoggiato da Mosca fino al crollo dell’Unione Sovietica l’anno precedente, i componenti stessi della Alleanza del Nord avevano trasformato l’Afghanistan in un immenso e caotico campo di battaglia in una hobbesiana "guerra di tutti contro tutti”. Lo "Stato Islamico dell’Afghanistan" provocò uno spargimento di sangue tale che i talebani riuscirono a vincere abbastanza facilmente nel 1996. Naturalmente, nessuna di queste preoccupazioni inquietarono Washington quando decise di rovesciare i talebani con l’azione congiunta delle truppe dell’Alleanza del Nord e con una media di 85 attacchi aerei al giorno per 76 giorni dall’inizio delle operazioni a ottobre fino al 23 dicembre 2001, ovvero il 50 per cento in più rispetto alla media di attacchi in Libia.

Il carattere paradossale dell’intervento occidentale in Libia è stato sottolineato da diversi osservatori, che ne hanno individuato la causa attorno al problema di assicurarsi il controllo delle risorse nel dopo-Gheddafi. Molti simpatizzanti dell’insurrezione libica, alcuni dei quali, me compreso, avevano espresso comprensione per il fatto che Bengasi avesse chiesto aiuto al "diavolo" di fronte a un massacro annunciato, avvisarono i ribelli fin dal primo giorno contro la raffigurazione "angelica" di questo "diavolo" in quella occasione, non facendosi illusioni sulle reali motivazioni delle potenze occidentali. Questi primi sospetti furono presto confermati dall’evoluzione della situazione in Libia, al punto che ora c’è la convinzione diffusa nei circoli arabi anti-occidentali che la NATO stia deliberatamente prolungando la guerra e, quindi, l’esistenza del regime di Gheddafi. Questa convinzione è chiaramente articolata da Munir Shafiq, ex leader di una corrente maoista interna ad al Fatah di Yasser Arafat e coordinatore del Congresso Nazionalista Islamico, organizzazione che comprende una serie di gruppi, tra cui i Fratelli Musulmani, Hamas e Hezbollah, in un articolo in arabo pubblicato da AlJazeera.net il 4 luglio:

“Non si capisce perché gli attacchi aerei della NATO si concentrino su obiettivi insignificanti a Tripoli, tralasciando le batterie di missili, l’artiglieria e i mezzi militari a Misurata così come in altre città. Hanno anche permesso alle colonne delle forze di Gheddafi di muoversi allo scoperto, senza attaccarli. Dov’è allora la protezione dei civili, e dove è il supporto per sbarazzarsi di Gheddafi? La Posizione degli Stati Uniti e della NATO è in flagrante cospirazione contro la rivoluzione popolare in Libia e punta al mantenimento di Gheddafi fino a quando non riusciranno a prendere il controllo del CNT e di alcuni leader sul campo. Solo allora rovescerebbero Gheddafi, poiché stanno cospirando contro il popolo, la rivoluzione e il futuro della Libia”.

Questo forte sospetto riecheggia nelle opinioni espresse dagli stessi ribelli libici, come dimostra la dichiarazione del 2 giugno scorso di uno dei loro leader locali per il quotidiano di Beirut al-Akhbar:

“Secondo Abu-Bakr al-Farjani, il portavoce del consiglio locale della città di Sirte, che aderisce al CNT, la NATO sta procedendo lentamente con le sue operazioni militari contro le brigate di Gheddafi al fine di mantenerlo per quanto possibile al potere in modo da aumentare così il prezzo richiesto agli oppositori dalle potenze mondiali e dalle grandi aziende che stanno dietro di loro”.

I piani della NATO per la Libia

Queste non sono invenzioni fantasmagoriche dovute a qualche propensione medio-orientale alle teorie della cospirazione. Corrispondono a fatti reali sul campo, come la differenza di attacchi NATO in Libia analizzata da Tom Dale nel "Guardian" on line del 4 luglio. E soprattutto corrispondono a un fin troppo vero "complotto" da parte delle potenze della NATO sul futuro della Libia. Il piano è stato rivelato da Andrew Mitchell, Segretario inglese per lo Sviluppo Internazionale, il 28 giugno: un "documento di stabilizzazione" di 50 pagine ideato da un "team per la stabilizzazione" internazionale che include la Turchia e guidato dalla Gran Bretagna, prospetta uno scenario post-Gheddafi che parte dalle dimissioni o dalla rimozione del "re dei re". Questo perché, nonostante i ripetuti tentativi occidentali di convincere il CNT a trovare un accordo con Gheddafi, come è stato fatto trapelare ai media negli ultimi mesi, il CNT ha chiarito che la rimozione dal potere di Gheddafi e dei suoi figli era una condizione non negoziabile per i ribelli libici. Anche la prospettiva di dare un comodo ritiro a Gheddafi in Libia, che è stato in un primo momento timidamente proposto dal CNT sotto pressione occidentale, è stata subito ritirata a causa delle proteste della base dei ribelli.

Un protagonista chiave dei tentativi occidentali di siglare un accordo con la cerchia di Gheddafi è suo figlio, Saif al-Islam, l’uomo che si è comprato una laurea, su società civile e democratizzazione, presso la London School of Economics e ha ottenuto le visite e i consigli di Richard Perle, Anthony Giddens, Francis Fukuyama, Bernard Lewis, Benjamin Barber e Joseph Nye, tra gli altri, al fine di "rafforzare l’immagine della Libia e di Muammar Gheddafi". Saif ha detto al quotidiano algerino Al-Khabar l’11 luglio, in arabo, che il governo francese, nonostante la sua posizione ufficiale in Libia, ha negoziato con Tripoli:

“Stiamo tenendo ora trattative con Parigi, abbiamo contatti con la Francia. I francesi ci hanno detto che il CNT è subordinato a loro, ci hanno anche detto che se avessero raggiunto un accordo con noi a Tripoli, avrebbero potuto imporre un cessate il fuoco al consiglio. Io dico che se la Francia vuole vendere i suoi aerei "Rafale", se vogliono concludere accordi petroliferi, se vogliono che le loro imprese tornino, hanno bisogno di parlare con il legittimo governo libico e con il popolo libico, in modo pacifico e ufficiale”.

Il Re dei re, da parte sua, non mostra alcuna intenzione di mollare. Il 23 luglio ha ripetuto le sue dure accuse contro il popolo tunisino ed egiziano per aver rovesciato i loro dittatori. In ogni caso, il progetto della NATO a guida inglese si basa sullo scenario di un "cessate il fuoco tra il regime ed i ribelli", il che significa che la gerarchia e gli apparati del regime resterebbero in piedi.

La preoccupazione generale su cui si basa la roadmap della NATO sotto guida inglese è quella di evitare il ripetersi della gestione catastrofica della fase post-invasione in Iraq. In quel caso l’amministrazione Bush aveva dovuto scegliere tra l’inclusione di gran parte di quel che rimaneva del partito baathista e il suo completo smantellamento. Ha optato per la seconda opzione sostenuta da Ahmed Chalabi e i neocons con il loro balordo progetto di stato minimalista a servizio americano. Di conseguenza, la nuova roadmap libica si ispira allo strategia proposta dalla CIA e che è stata scartata in Iraq. Come spiega Mitchell, si basa sulla "raccomandazione che la Libia non dovrebbe seguire l’esempio iracheno di sciogliere l’esercito, che è stato visto da alcuni funzionari, come un errore strategico che ha contribuito ad alimentare l’insurrezione in circostanze delicate dopo la caduta di Saddam Hussein."

Questa stessa preoccupazione è stata espressa sul CNT dal ministro degli esteri britannico William Hague il giorno dopo la sua visita a Bengasi il 5 giugno. "No alla de-baathificazione, certamente i ribelli stanno imparando da quella", ha detto."Devono farlo sapere in modo più efficace per poter convincere i membri del vecchio regime che questo potrebbe funzionare." La stessa preoccupazione si nota nell’atteggiamento delle potenze occidentali verso lo sconvolgimento rivoluzionario in Siria. La loro influenza in Libia comunque è molto più potente. La rappresentazione di Mitchell del "forte contributo" che le potenze della NATO e i loro alleati possano dare nella gestione della Libia post-Gheddafi, senza avere gli stivali per terra, è talmente ridicola da domandarsi se non è stata fatta per scherzo:

 

“L’UE, la NATO e l’ONU controllerebbero le questioni di sicurezza e giustizia, Australia, Turchia e Onu si occuperebbero dei servizi di base, Turchia, Stati Uniti e le istituzioni finanziarie internazionali amministrerebbero l’economia”. Ma aggiunge Mitchell:"E’ fondamentale che tutto questo processo sia libico. Deve essere inteso come un servizio al popolo libico ".

 

Questo piano A non può non avere un piano B, che lascia intendere la mancanza di fiducia delle potenze occidentali nelle probabilità di una "transizione ordinata" (per prendere in prestito una definizione ripetuta come un mantra per l’Egitto da parte dell’amministrazione Obama) del post-Gheddafi. Commentando il piano NATO-UK, il Wall Street Journal ha rivelato il 29 giugno che i funzionari delle Nazioni Unite stanno preparando "i piani di emergenza", tra cui "il dispiegamento di una forza armata multinazionale", che "sarebbe probabilmente composta da truppe provenienti da potenze regionali come Turchia, la Giordania e forse da paesi dell’Unione Africana. "Uno dei fautori di questo intervento è ovviamente uno dei leader occidentali più ostili ai ribelli libici, il generale Carter Ham, comandante americano dell’Africa Command (AFRICOM). Condivide questo atteggiamento con l’esercito algerino al quale ha fatto visita ai primi di giugno, mettendolo in guardia contro il rischio che le armi che circolano in Libia possano cadere nelle mani di al-Qaeda. (Un altro fattore che provoca l’ostilità di Algeri è probabilmente l’emancipazione dei berberi nella Libia occidentale.)

Non ci è voluto molto perché il CNT si adeguasse alle istruzioni della NATO e producesse la propria versione della roadmap della NATO, in modo da soddisfare l’ossessione occidentale dell’"esempio iracheno". Una copia di queste 70 pagine del progetto libico è trapelata dal Times di Londra, che l’8 agosto ne ha pubblicato una sintesi. Essa contiene in modo poco credibile cifre così dettagliate che non si può non sospettare che i suoi autori abbiano cercato di compiacere i loro padroni della NATO:

“Essa sostiene che 800 funzionari della sicurezza del governo di Gheddafi sono stati reclutati segretamente dai ribelli e sono pronti per costituire l’ossatura del nuovo apparato di sicurezza. I documenti affermano che i gruppi ribelli a Tripoli e nelle zone circostanti contano 8660 sostenitori, tra cui 3255 nell’esercito di Gheddafi. Una defezione di massa da parte degli ufficiali di alto rango viene considerata altamente probabile, si stima che il 70 % degli ufficiali sostengano il regime solo per timore di ritorsioni”.

Il dissenso della base

Il commento del Times dimostra scetticismo sullo scenario di cooptazione del regime proposto dal CNT: "Questo non è solo rischioso, ma anche controverso, con molti combattenti ribelli determinati a spazzare via tutto del vecchio regime." Mentre il Wall Street Journal, commentando la roadmap inglese, faceva notare:

“Molte delle brigate di ribelli sono diventate milizie, alcune delle quali non accetterebbero mai di prendere ordini o di combattere assieme a coloro che detenevano posizioni militari o di sicurezza nel regime di Gheddafi e che successivamente hanno cambiato bandiera per unirsi alla ribellione scoppiata nel mese di febbraio. Alcuni influenti leader dei ribelli  hanno chiesto di escludere i lealisti del vecchio regime da qualsiasi istituzione futura e di dare priorità a coloro che hanno combattuto contro Gheddafi”.

La determinazione dei ribelli nel fare pulizia di coloro che hanno combattuto al fianco di Gheddafi contro l’insurrezione è in realtà la chiave per comprendere il comportamento paradossale della NATO di cui si scriveva sopra. Le potenze della NATO non vogliono che i ribelli liberino Tripoli con i propri mezzi, come l’Economist di Londra ha dichiarato senza mezzi termini il 16 giugno:

“La speranza dei governi occidentali è che i ribelli non conquistino Tripoli dopo una veloce avanzata da est, con conseguenti rischi di punizioni inflitte lungo il percorso ai fedelissimi di Gheddafi. Piuttosto, preferiscono che il regime imploda dal suo interno e la popolazione di Tripoli spinga fino a rimuovere il colonnello, un’eventualità che secondo circoli governativii occidentali è sempre più vicina”.

 

Tom Dale ha commentato questa preferenza della NATO per una "implosione dall’interno":

“Ma perché le potenze occidentali preferiscono un colpo di stato da parte di qualcuno della cerchia di Gheddafi alla vittoria da parte dell’esercito ribelle? Un colpo di stato implicherebbe una soluzione negoziata tra gli elementi del vecchio regime restanti e la leadership dei ribelli, che incorporerebbe molte figure del regime deposto. I governi occidentali vogliono la stabilità e la possibilità di influenzare le scelte del nuovo governo e vedono le figure del vecchio regime, ad esclusione della famiglia Gheddafi, come i migliori garanti di questo”.

 Questa ultima affermazione va spiegata. Prendiamo il Gen. Abdul-Fattah Younis, una delle figure chiave del regime di Gheddafi, che passò tra i ribelli dopo pochi giorni dall’inizio della rivolta, per esempio. Comandante militare della rivolta libica fino al giorno in cui è stato recentemente assassinato, era stato critico nei confronti delle operazioni della NATO. E ha sviluppato un rapporto molto antagonistico con il referente della CIA, il colonnello Khalifa Haftar (a volte scritto Hifter) che, dopo aver vissuto in esilio per quasi un quarto di secolo, per lo più negli Stati Uniti e sul libro paga della CIA, è stato inviato in Libia e a cui è stata assegnata un’alta carica della gerarchia militare dal CNT sotto la pressione di Washington. L’uomo era detestato da molti nell’opposizione libica. Come il giornalista  bengalese Shashank ha spiegato sul Real News Network lo scorso 14 aprile:

“C’è una certa preoccupazione qui su Hifter, i suoi lunghi trascorsi negli Stati Uniti, i suoi presunti legami con la CIA e altri funzionari statunitensi, lo rendono una figura alquanto controversa per i libici, che credono davvero che questa sia una rivolta spontanea. Vogliono il sostegno estero sottoforma di armamenti e di riconoscimento del governo di transizione. Non vogliono che questa ribellione venga sopraffatta da una forza esterna come la CIA”.

L’ostilità tra Younis e Haftar ha portato alcuni a credere che l’assassinio del primo sia stato progettato dalla Cia in modo da spianare la strada per il secondo. Tuttavia, Younis non è stato sostituito da Haftar ma da un altro disertore della prima ora, il generale Suleiman Mahmoud, comandante della provincia orientale con sede a Tobruk prima della sua defezione. In realtà, le condizioni non sembrano essere favorevoli agli uomini che hanno più collegamenti con gli stranieri, come il New York Times commenta lo scioglimento del gabinetto provvisorio del CNT a seguito dell’ assassinio di Younis:

“La riorganizzazione sembrava anche far emergere una lotta tra i gruppi interni al movimento dei ribelli, tra cui i leader rimasti in patria che hanno contribuito a iniziare la rivolta, per affermare il loro potere e mettere da parte quelli che erano tornati dall’esilio e che ricoprivano posti chiave. Per mesi, c’erano state proteste per il fatto che certi membri del consiglio erano sconosciuti alla maggior parte dei libici, avendo passato gran parte del loro tempo all’estero, soprattutto in Qatar, il paese che ha appoggiato di più i ribelli. Un portavoce dei ribelli ha detto che il signor [Mahmoud] Jibril, l’economista neoliberista nominato dal CNT capo-gabinetto, dopo aver presieduto le riforme neoliberiste del regime di Gheddafi dal 2007 fino alla rivolta, che raramente è stato visto a Bengasi, dovrebbe  iniziare a passare più tempo in Libia”.

Una spiegazione plausibile dell’assassinio di Abdul-Fattah Younis è stata data dal suo collaboratore, Mohammed Agoury, che ha attribuito l’uccisione ai membri della Brigata dei Martiri del 17 Febbraio. (Secondo un’altra fonte, gli autori appartengono a un gruppo islamico che si fa chiamare Brigata Abu Ubaidah Ibn al-Jarrah.) La testimonianza di Agoury offre uno scorcio della complessa ed eterogenea composizione della ribellione libica:

“La Brigata dei Martiri del 17 Febbraio è un gruppo composto da centinaia di civili che hanno preso le armi per unirsi alla ribellione. I loro combattenti partecipano in prima linea alle battaglie con le forze di Gheddafi, ma agiscono anche come una forza  semi-ufficiale di sicurezza interna all’opposizione. Alcuni dei suoi leader provengono dal Gruppo Combattente Islamico Libico, un gruppo islamico militante che condusse una violenta campagna contro il regime di Gheddafi nel 1990. Non si fidano di nessuno che sia stato con il regime di Gheddafi, hanno voluto vendicarsi", ha detto Agoury.

Un altro evento che mostra l’eterogeneità nei ranghi dell’opposizione è la "Conferenza per il Dialogo Nazionale", tenutasi a Bengasi il 28 luglio. Vi hanno preso parte 350 partecipanti tra cui membri della stessa Brigata dei Martiri del 17 Febbraio ed ex membri del gruppo libico dei Fratelli Musulmani, anche se la stessa Fratellanza ha negato qualsiasi collegamento con la conferenza. I partecipanti hanno sottolineato l’importanza dell’unità della Libia, del suo carattere islamico e della necessità di un dialogo nazionale includente, mentre un membro del CNT,  Al-Amin Belhaj, ha dichiarato che, anche se Gheddafi e i suoi figli non possono rimanere al potere, avrebbero potuto restare in Libia sotto protezione. A quanto pare, alcuni dei partecipanti hanno avuto contatti con Saif al-Islam Gheddafi, un fatto che si sposa bene con le recenti dichiarazioni di quest’ultimo per il New York Times.

"Ho liberato [degli islamisti libici] dal carcere, li conosco personalmente, sono miei amici", ha detto, anche se ha aggiunto di considerare il loro rilascio "certamente un errore" a causa del loro ruolo nella rivolta.

Una manifestazione ha avuto luogo fuori dall’hotel dove si svolgeva la conferenza. Un servizio di Aljazeera.net mostra un giovane con un cartello che dice a nome della Gioventù della Rivoluzione del 17 Febbraio: "La Conferenza nazionale rappresenta solo se stessa." I manifestanti hanno ribadito il loro rifiuto a qualsiasi dialogo con Saif al-Islam e i suoi collaboratori. Hanno accusato gli organizzatori della conferenza di ricorrere a milizie al fine di prendere il potere prima che la liberazione della Libia sia stata completata. Naima Djibril, giurista e membro del "Comitato per il Sostegno della Partecipazione delle Donne ai processi decisionali" di Bengasi, ha denunciato via web l’esclusione delle donne dalla conferenza.

Ulteriori dettagli del progetto del CNT, come riportato dal Wall Street Journal il 12 agosto, mostrano una rassicurante conferma della complessità della situazione libica e indica la via per affrontarla in modo democratico:

“Il piano riconosce che la leadership di Bengasi non ha ancora il sostegno ufficiale da parte delle regioni ancora sotto il controllo del colonnello Gheddafi e definisce un programma per assegnare i 25 posti vacanti destinati a rappresentare tali zone sul totale di 65. Secondo il piano, gli attuali membri del consiglio sarebbero esclusi dai primi due turni delle elezioni nazionali e non potrebbero accettare nomine politiche in quei governi. Secondo il documento, un Consiglio Nazionale di Transizione allargato, comprensivo dei nuovi rappresentanti delle aree ancora sotto il controllo di Gheddafi, governerà per otto mesi dopo la caduta di colonnello Gheddafi, durante i quali si svolgeranno le elezioni di un’assemblea costituente e si sceglieranno i 200 membri provvisori del parlamento. La rappresentatività di ogni distretto nel parlamento sarebbe garantita sulla base di un censimento della popolazione del 2010. Il parlamento dovrebbe governare per un periodo transitorio di meno di un anno, durante il quale si voterebbe per la nuova costituzione con un referendum nazionale e il nuovo governo permanente della Libia verrebbe eletto in linea con i parametri stabiliti da tale costituzione.

Si può solo sperare che la realtà rispetti il programma. Ma le probabilità che tutto fili liscio sono poche, considerato il groviglio straordinario di forze tribali, etniche e politiche che costituiscono la società libica che è appena uscita da più di quattro decenni di uno dei più folli regimi dittatoriali della storia moderna. La costituzione provvisoria di recente pubblicazione sulla base del suddetto progetto viene già contestata a Bengasi, e il CNT è accusato di lavorare a porte chiuse. La differenza fondamentale tra il tumulto politico libico e la situazione in Egitto è che l’opposizione e il regime sono territorialmente separate in Libia, e che la famiglia regnante al Cairo è stata respinta, mentre a Tripoli ancora no. Come in Egitto, infuria la battaglia politica tra i vari gruppi di opposizione, alcuni di loro, soprattutto tra le forze islamiche, sono disposti al compromesso con le istituzioni del regime, mentre altri, soprattutto tra i giovani, rifiutano questa prospettiva e vogliono una trasformazione radicale del loro paese. Un’altra grande differenza è l’assenza in Libia del ruolo del movimento operaio, che è invece molto importante nel processo egiziano. (Anche se, Kamal Abu Aita, il presidente della nuova Federazione egiziana di sindacati indipendenti, mi ha detto che una federazione indipendente analoga è stata recentemente fondata a Bengasi.)

La situazione in Libia, come in Tunisia e in Egitto e tutti gli altri paesi del Medio Oriente, dove l’attuale processo rivoluzionario si sta svolgendo, è solo all’inizio di uno sviluppo  lungo e tumultuoso. Questo è il normale corso di ogni processo rivoluzionario. Le potenze occidentali avranno molte difficoltà a mantenere sotto controllo questo processo. Non hanno truppe sul terreno, per non parlare del fatto che non sono riuscite comunque a controllare la situazione neppure nei paesi in cui avevano impiegato le truppe di terra, come in Iraq e Afghanistan. Il processo di liberazione e di autodeterminazione dei popoli è tortuoso e può anche attraversare periodi inquietanti. Ma senza questi processi e la disponibilità a pagarne il prezzo, che può rivelarsi molto pesante, il mondo intero vivrebbe ancora sotto regimi assolutistici.

[Gilbert Achcar, 16 agosto 2011] Traduzione di Luigi Marini

Segnalo, indipendentemente dalla proposta fatta in automatico dal sito nei Related articles in base alle parole chiave, che i testi a cui è più utile fare riferimento sono i più recenti: Chi libererà davvero la Libia? Nuovi guai per la Libia, Almeyra sulla Libia Precisazioni sulla Libia… e il primo della serie:  Libia: chi ha vinto?