Aldo Zanchetta sul Venezuela.

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Concordo con la scelta di Aldo Zanchetta di rinviare un commento alla vittoria di Borsonaro a un prossimo numero del suo prezioso “Mininotiziario America Latina dal basso”, riprendendo intanto un tema da molti dimenticato: il Venezuela. Lo pubblico molto volentieri perché concordo largamente con tutti gli argomenti. Anch’io avevo inoltre scelto di rinviare un intervento sulle contraddizioni dello schieramento che ha vinto le presidenziali, pur avendo a disposizione già molti altri interessanti interventi di compagni brasiliani o latinoamericani sul «che fare?» nel Brasile inquietante emerso dal voto. Tra le ragioni del rinvio, però, c’è anche l’amarezza per la scarsa attenzione della sinistra italiana (e perfino di quel piccolissimo campione che segue il mio sito) a una situazione tremenda, ma non imprevedibile, su cui avevo inserito diversi articoli allarmati, non solo negli ultimi tempi. Ne elenco solo alcuni dei più recenti: Alcune riflessioni sul voto in Brasile, Brasile | Domande e risposte a proposito delle elezioni, Brasile: sconfiggere Bolsonaro è difficile, ma potrebbe non bastare (a.m.)

Il tema di questo mininotiziario dovrebbe essere a regola la sconcertante vittoria di Bolsonaro in Brasile, tema che richiederà una meditazione profonda al di là di molte banalità che ho letto assieme anche a osservazioni più ragionate. In particolare mi riferirò, quando scriverò, a un intrigante articolo del filosofo psichiatra lacaniano Žižek, non dedicato al Brasile ma più in generale sul fenomeno della paura inculcata nella gente e sulle sue intricate e inaspettate conseguenze anche elettorali. Naturalmente non lo indicherò come unica chiave di lettura.

Approfitto invece, per questo numero del Mini, di un articolo sul Venezuela che ho scritto su richiesta di una rivista, un po’ stringato perché condizionato da un rigido vincolo di bytes. Il paese è scomparso dalle prime pagine dei giornali ma non dall’agenda politica statunitense, dove forse in questo momento sono in evidenza altri temi più scottanti. Ad es. l’Arabia Saudita e i suoi dintorni.

Segnalo comunque due articoli ispirati dalla vittoria di Bolsonaro, la cui lettura può essere utile in questa brutta congiuntura (mi riferisco non solo al Brasile), uno di Raúl Zibechi, che sollecita a riflettere sulla sinistra (Las estrategias no son para siempre; https://desinformemonos.org/las-estrategias-no-siempre/), l’altro di Marcelo Colussi, anch’esso invitante alla riflessione ma con un riferimento specifica alla corruzione (Hora de reflexión para la izquierda; www.rebelion.org/noticia.php?id=248552).

Ed ora passiamo al Venezuela, come anticipato.

VENEZUELA, L’ODIERNO SILENZIO DEI MEDIA

Il Venezuela oggi è scomparso dalle prime pagine dei giornali e dai notiziari televisivi, cedendo il posto, per il quadrante latinoamericano, al Nicaragua prima ed ora al Brasile. Resta però forte la pressione politica, diplomatica ed economico-finanziaria statunitense sul paese. Forse si spera che la difficile situazione interna, ogni giorno più critica, finisca per causare un crollo endogeno o creare condizioni più favorevoli per un intervento militare, difficilmente da parte diretta degli Stati Uniti, più probabilmente tramite la confinante Colombia, recentemente “aggregata” alla NATO. Abbandonate invece, almeno per ora, le speranze di una sollevazione militare, o di un’azione popolare (elettorale o insurrezionale) a causa della perdita di credibilità dell’opposizione, per gli errori e la mediocrità dei suoi rappresentanti.

La difficile situazione interna

La situazione interna registra una miriade di manifestazioni di protesta nonché un fenomeno migratorio verso i paesi confinanti, entrambi provocati dalla grave carenza di generi di prima necessità (prodotti alimentari e farmaceutici, pezzi di ricambio per i macchinari etc) e di insicurezza (aggressioni e rapine, spesso con esiti mortali). Alle violente manifestazioni politiche degli scorsi tre anni ed agli scontri di piazza fra le opposte fazioni, oggi quasi scomparse, si sono sostituite manifestazioni di scontento sociale –una media di oltre 20 al giorno- dovute alla detta carenza di generi di prima necessità, all’aumento della disoccupazione, al peggioramento dei pubblici servizi. Ciò è senza dubbio aggravato dalle sanzioni economiche decretate a metà 2017 dal governo statunitense, condivise sia dall’Unione Europea che dai paesi latinoamericani del cosiddetto Gruppo di Lima (ben 12 fra cui Brasile, Argentina e Colombia), per cui il Venezuela è oggi anche accerchiato geograficamente. Per di più calano i crediti da parte dei due paesi “amici”, Cina e Russia, già troppo esposti finanziariamente con questo paese. Sarebbe errato imputare la gravità della situazione alle sole sanzioni economiche, che fra l’altro sarebbero in parte illegittime secondo il diritto internazionale, come ad es. i congelamenti di depositi venezuelani presso banche estere o in esse in transito per il pagamento delle importazioni di derrate alimentari o di medicinali. Infatti le difficoltà economiche erano sorte già nel 2013, ben prima cioè dell’entrata in vigore delle sanzioni e del crollo del prezzo del petrolio -che costituisce ben il 96% del valore delle esportazioni cioè dell’entrata di valuta pregiata- da oltre 100 $ al barile (159 litri) nel 2012/2013 a circa 40 $ nel 2015. Risalito oggi a circa 66 $, il beneficio è minimizzato per la decrescente capacità di estrazione e per il fatto che parte del greggio estratto fluisce verso la Cina in pagamento di crediti pregressi.

Alcune cifre

–       Il PIL dal 2014 è in costante calo: 2014, -3,9%; 2015, -6,2%; 2016, -16,5%. Per il 2017, in assenza di dati del governo, il FMI ha previsto un -12 e nel 2018 la caduta sarà assai più grave.

–       Il deficit fiscale del settore pubblico consolidato è stato rispettivamente del 13,2%, 8,8%, 10,3% e 17% e le riserve di valuta estera sono passate da 35 miliardi di $ nel 2009 a 8,7 a metà 2018.

–       L’inflazione nel 2017 ha superato il 2.000% e a metà 2018 ha raggiunto livelli del 100% al mese.

–       L’estrazione di greggio è in grave calo: secondo dati OPEC essa è oggi di 1,340 milioni di barili giornalieri, il 44% rispetto al 2009. Per il 2019  essa era stata programmata a 6 milioni!!!

Sul calo influiscono diversi fattori: scarsità dei pezzi di ricambio per gli impianti, frequenti interruzioni di energia elettrica dovute agli stessi motivi,  emigrazione di tecnici qualificati. Cause di questo disastro sono stati sia le nomina ai vertici della PDVSA, l’industria petrolifera di Stato, di personale politicamente fidato piuttosto che managerialmente qualificato, sia la corruzione dilagante, fenomeno del resto endemico nel paese. A lungo negata, ora è stata riconosciuta ufficialmente dallo stesso presidente Maduro. A fine 2017 sono stati arrestati 69 alti quadri della PDVSA, fra i quali un ex-presidente e un ex-ministro del Petrolio e Energia, nonché quasi l’intera squadra dirigente della CITGO, la grande raffineria posseduta da PDVSA negli Stati Uniti, strategica per la politica della società e fonte di preziosa valuta in $. Ma la corruzione era presente solo nella PDVSA od è diffusa anche nei ministeri e nella Banca Centrale, responsabile di astruse e clientelari politiche dei cambi? Ed è credibile che alcun politico o alto funzionario sia risultato coinvolto nelle pratiche corruttive della brasiliana Odebrecht, la più grande impresa di costruzioni latinoamericana (dighe, autostrade, porti etc.), che ha realizzato grandi opere nel paese, mentre esse hanno fatto cadere molte teste in vari paesi della regione, fra cui quella di un presidente (Perù)? La purga in verità è stata estesa al partito di governo, il PSUV, ma in modo non molto convincente.

Una possibilità di uscita dalla crisi?

Paese di grandi ricchezze minerarie e biologiche (foreste amazzoniche) il Venezuela, grazie alla scoperta del grande giacimento petrolifero dell’Orinoco, è oggi il primo paese del mondo per riserve petrolifere. Su questa ricchezza, già nota all’epoca di Chávez che la aveva inclusa nei piani di sviluppo del paese, il governo Maduro sta cercando di risanare l’economia venezuelana. Il Decreto Presidenziale n.2.268 del 2016 ha dichiarato l’Arco Minero dell’Orinoco “zona economica speciale” (112.000 kmq quadrati di territorio amazzonico, grande circa un terzo dell’Italia) dove non ha vigore la legislazione nazionale, affidando il controllo all’esercito. In campo monetario il governo ha creato una nuova moneta, il Petro, il cui valore è garantito dal petrolio esistente in una parte di questo territorio, dato in dote alla Banca Centrale.  Ma l’esordio del Petro sui mercati valutari (denaro oggi garantito da petrolio molto futuro… ) non è stato brillante come sperato. E così si sono tolti 5 zeri al valore del peso iper-inflazionato, un espediente di breve respiro se non collegato a una organica ristrutturazione dell’economia, limitata invece ad una serie di provvedimenti scollegati fra loro.

Per sfortuna, il petrolio di questa regione è si tanto, ma è del tipo “pesado”, cioè denso e bituminoso, e la sua estrazione e raffinazione sono costose e richiedono investimenti ammortizzabili solo a lungo termine. Pertanto le multinazionali straniere invitate a partecipare allo sfruttamento costituendo imprese a capitale misto col governo, hanno assunto molti impegni verbali ma non sfociati per ora in nessun investimento concreto. Il lungo periodo di ammortamento degli impianti infatti può giustificare gli investimenti solo in una previsione di lunga stabilità politica, al momento non è prevedibile.  Nell’Arco Minero sono inoltre presenti giacimenti consistenti di minerali pregiati, come il rarissimo coltan, essenziale per l’industria elettronica, i diamanti e l’oro per cui, in attesa dell’operatività delle dette società a capitale misto, che come già detto tarda,  si è scatenata l’estrazione da parte di numerose imprese illegali, che operano grazie alla “distrazione” (o tacita connivenza) dei militari. Questo avviene al di fuori di ogni buona regola operativa per cui la devastazione ambientale è enorme (disboscamenti, inquinamento dei fiumi con mercurio etc.).

E’ ormai lontana la dichiarazione in difesa dell’ambiente in America Latina che nel 2000 (salvo errore di data) ebbe Hugo Chávez come primo firmatario assieme al Premio Nobel Pérez Esquivel. Povero paese, il Venezuela, da almeno cento anni vittima della propria ricchezza, che ha generato un atteggiamento “rentista” nella popolazione e alimentato tanti appetiti al potente e vorace “zio Sam”.

(A.Z.)

MININOTIZIARIO AMERICA LATINA DAL BASSO

n.11/2018 del 4 Novembre 2018

A CURA DI ALDO ZANCHETTA

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