Bancarotta di Obama

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Bancarotta di Obama

 

Ogni giorno chi si era illuso che Obama potesse rappresentare un punto di riferimento per la sinistra nel mondo (e non era stato solo il PD, ma anche il Manifesto ad alimentare queste illusioni) deve verificare che non solo il presidente degli Stati Uniti sta collezionando sconfitte, ma sta preparandone altre con le sue continue concessioni alla destra. Si direbbe che sia andato a scuola da Veltroni, ma in realtà segare il ramo su cui si sta è una costante della sinistra moderata, da Kerenskij ad Allende (l’uno e l’altro si erano illusi di tacitare la destra golpista nominando capo di Stato Maggiore il generale Kornilov l’uno, Pinochet l’altro…). Inascoltato, Guevara aveva invece ammonito che se la sinistra arrivava al governo per via elettorale – cosa possibile in paesi come il Cile – doveva scegliere se mantenere le promesse e dover quindi affrontare uno scontro con le classi colpite dalle sue misure, oppure cedere e provocare la delusione dei propri sostenitori, col risultato di essere esposta indebolita a una controffensiva degli avversari.

Certo, Barack Obama non era neppure veramente definibile di sinistra, ma comunque ha seguito il copione, e ora è nei guai.

La sconfitta nelle elezioni a metà mandato, ad esempio, era del tutto prevedibile: alla campagna forsennata della destra trogloditica repubblicana, che presentava come comunismo qualsiasi modestissima forma di assistenza pubblica e mobilitava pensionati rimbambiti con la leggenda metropolitana che sarebbero stati uccisi, Obama aveva dato come risposta la rinuncia al progetto originario di riforma (modellata su quella canadese) riducendo drasticamente il numero dei fortunati beneficiari, ma soprattutto affidando alle assicurazioni private il compito di continuare a gestire, a caro prezzo, l’assistenza. Risultato: i vecchi mobilitati con le frottole, hanno continuato a diffidare, mentre la maggior parte dei cittadini non hanno ricavato nessun vantaggio misurabile. E alle elezioni i repubblicani, vantando il successo ottenuto, hanno avuto un bel po’ di seggi in più, soprattutto grazie alla fuga di una parte dell’elettorato democratico, che, deluso, è tornato all’astensione…

Ora Obama ne ha fatta un’altra dello stesso genere: ha concordato con i repubblicani (e una frangia di destra dello stesso partito democratico) il prolungamento per altri 11 mesi delle esenzioni fiscali concesse dal suo predecessore anche al 2% di cittadini più ricchi. Una parte del partito democratico, compresa la presidente uscente della Camera Nancy Pelosi, si preoccupa dell’effetto elettorale praticamente inevitabile: infatti riducendo le entrate previste per le imposte immobiliari ai grandi patrimoni dal 55% previsto al 35%, diventa necessario tartassare ulteriormente i tanti poveri, disoccupati, senza casa, su cui peseranno maggiormente le imposte indirette, e a cui per giunta è stata negata una modestissima rivalutazione dell’assegno sociale di 250$. Ed è prevedibile quindi un altro salasso elettorale, a parte la possibilità che Obama si trovi di fronte come concorrente al seggio presidenziale il sindaco democratico di New York Mike Bloomberg, che sta ostentando i presunti successi economici della “Grande Mela”.

Intanto la disoccupazione è cresciuta, le banche sono state alimentate con miliardi di dollari, perfino lo spudorato Marchionne ha potuto fare i soliti affari a spese dei contribuenti; dalle guerre non si esce, anzi, è chiaro che si prepara qualcosa in Iran per accontentare gli amici e soci di Tel Aviv, il Cairo, Riyadh e Doha. È l’unico aspetto di politica estera (dei tanti rivelati da WikiLeaks) che può interessare e preoccupare i cittadini statunitensi, se comporterà altre vittime e altre tasse…

Che gli Stati Uniti spiino l’ONU, a partire dal segretario generale, non è invece una sorpresa per nessuno, ma soprattutto non scandalizza nessun cittadino statunitense. Quanto alle persecuzioni del tutto illegali ad Assange per interposta magistratura svedese o britannica, e l’uso di un’agente della CIA proveniente da Miami, e soprattutto l’arbitraria chiusura dei siti e dei conti correnti, possono casomai essere approvate non solo dai seguaci di Sara Palin ma da uno strato assai più vasto, anche di simpatizzanti democratici, delusi tra l’altro dall’approdo di Barack Obama al rilancio della costruzione di centrali nucleari: Obama nucleare

 

Grazie a questo clima, alla perdita della maggioranza alla Camera e anche al progressivo indebolimento del suo carisma, Obama ha dovuto incassare in questi giorni un altro colpo: la Camera ha negato il finanziamento del trasferimento dei detenuti dal carcere speciale di Guantanamo, e quindi di fatto la sua chiusura, che faceva parte delle sue più significative promesse elettorali e che doveva dopo diversi rinvii finalmente realizzarsi nel 2011. Ai cittadini degli Stati Uniti forse interessa poco, ma era un gesto che doveva servire a migliorare un poco all’estero l’immagine degli USA. Anche se io non riesco a capire che differenza c’è tra un processo arbitrario in una base militare fuori del paese e uno altrettanto arbitrario in territorio statunitense. Casomai mi scandalizza in sé l’illegittima occupazione coloniale di parte del territorio cubano, ottenuta da un governo fantoccio nell’epoca della Repubblica dipendente, e mantenuta prepotentemente in spregio alla volontà dell’attuale governo cubano… Ma chi se ne preoccupa, anzi chi se ne ricorda oggi? E chi si ricorda delle promesse di porre termine all’embargo?

 

In realtà i problemi principali di Obama sono altri: tutta la politica estera statunitense è in crisi, e non tanto per le “rivelazioni” di WikiLeaks (che “rivelano” soprattutto la scarsa qualità dei rapporti diplomatici pubblicati finora), quanto per i molti fronti in cui la politica della menzogna ha creato problemi con servitori abituati a nascondere al proprio popolo le scelte concordate con il rappresentante degli Stati Uniti. Si pensi all’imbarazzo del fantoccio Abu Mazen, quando quel che tutti pensavano è stato confermato da un rapporto statunitense: era stato avvertito dell’imminente attacco a Gaza, ed era rimasto in silenzio. Altrettanto fastidioso lo smascheramento del gioco delle parti tra il presidente dello Yemen , Ali Abdullah Saleh, e il generale David Petraeus, allora capo del Comando centrale USA, sull’assunzione di responsabilità per le bombe sganciate su presunti seguaci di al Qaeda (e in realtà sulla popolazione).

 

La situazione più difficile riguarda la Palestina, ma non è una sorpresa, né conseguenza della pubblicazione di rapporti imbarazzanti. È la logica conclusione di una politica di continue concessioni spudorate al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, a cui è stato permesso tutto, in nome della “comprensione” della condizione in cui si troverebbe Israele sotto la minaccia del presunto nucleare iraniano.

Quando Barack Obama nel primo incontro diretto con Netanyahu nel maggio 2009 aveva provato a chiedere lo stop completo delle attività edilizie ebraiche negli insediamenti in Cisgiordania, si era sentito rispondere che solo risolvendo la minaccia iraniana si sarebbero potuti avere reali progressi sul versante palestinese. Invece della sospensione, ci fu quindi una modesta moratoria, più volte aggirata, e poi non prolungata oltre il termine. Certo ha pesato la complicità aperta della maggior parte dei regimi arabi ma anche lo sbilanciamento a favore di Israele di gran parte dello staff presidenziale, di cui avevo parlato subito dopo che era stata annunciata la sua formazione, in un articolo piuttosto ampio che varrebbe la pena di far leggere a chi ha coltivato finora illusioni: Il ruolo di Barack Obama, magari integrato dall’appendice Stati Uniti: la Israel Lobby.

In particolare la principale responsabilità di questo sbilanciamento, che ha deluso chi si aspettava qualcosa di concreto e di nuovo da Obama, è della stessa Hillary Clinton, che a più riprese ha bacchettato la presunta intransigenza dell’Autorità palestinese, fingendo di ignorare che questa era costretta periodicamente ad alzare timidamente la voce, perché accettando senza fiatare altre prepotenze israeliane (in particolare l’espulsione quotidiana di palestinesi da Gerusalemme) avrebbe provocato una crisi definitiva della sua credibilità.

 

Tutte le chiacchiere sulla democrazia da esportare in Medio Oriente sono state intanto spazzate via dal mancato riconoscimento delle regolarissime elezioni che avevano portato Hamas ad avere una maggioranza inequivocabile a Gaza, mentre nessuno fiata sulla corruzione e sull’involuzione dell’ANP, inevitabile se dagli Stati Uniti è costretta ad avallare una politica assolutamente impopolare. Per non parlare dello stato della democrazia nei regimi arabi filoccidentali… Tutto con la complicità delle ipocrite democrazie europee e della cosiddetta “comunità internazionale”.

Tra i nodi che vengono ora al pettine, c’è anche Haiti dove i corpi di occupazione dell’ONU hanno represso duramente le proteste contro gli ennesimi brogli imposti a una popolazione assai più matura di quanto si dica, rendendo evidente l’ipocrisia degli “aiuti umanitari”. Su Haiti ho scritto e tradotto molto, anche chiamando in causa subito dopo il terremoto proprio il presidente tanto esaltato dalla sinistra italiana: Obama e Haiti. Ma non dimentichiamo mai le nostre responsabilità nel sistema di finti aiuti, a cui ho accennato appena pochi giorni fa a proposito dell’ultima catastrofe: Elezioni ad Haiti.

Lasciamo perdere il disgusto per il conferimento del premio Nobel per la pace al presidente di uno Stato che ha basi militari in un centinaio di paesi, e le usa per guerre cruente. In definitiva, perché scandalizzarsi? Obama è in buona compagnia, dato che la maggioranza dei premiati nel corso di un secolo, tranne pochissime eccezioni, erano veri e propri guerrafondai. Strano che una parte della sinistra, invece, attribuisca a questo premio un valore che non ha, e continua a proporlo anche per persone rispettabili, magari protestando solo quando viene assegnato a un dissidente cinese. Mi fa piacere che invece sia Dario Fo su “Il Fatto quotidiano”, sia Angela Pascucci su “il manifesto”, abbiano saputo cogliere il carattere strumentale del premio, e anche dissociarsi da qualche affermazione non condivisibile del premiato, senza per questo rinunciare alla condanna del regime cinese che punisce con 11 anni di galera un reato di opinione, o giustificare il grottesco schieramento di paesi che si sono uniti alla Cina nel boicottaggio della cerimonia di assegnazione del Premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo, col risultato che Cuba e il Venezuela si trovano insieme a paesi non certo esemplari per la difesa dei diritti dell’uomo come Russia, Kazakhistan, Colombia, Tunisia, Arabia Saudita, Pakistan, Serbia, Iraq, Iran, Vietnam, Afghanistan, Filippine, Egitto, Sudan, Ucraina e Marocco.

Non occorreva WikiLeaks per scoprire che la politica dell’imperialismo statunitense non è cambiata molto per l’elezione di un presidente apparentemente nuovo, ma guai se questa “riscoperta” dovesse portare a un rilancio del cosiddetto “campismo”: Scambiare per nostri amici da appoggiare i rivali e concorrenti dei nostri nemici, è un errore che è stato fatto più volte dalla sinistra e dai movimenti di liberazione, e ha avuto conseguenze spesso molto gravi. Cerchiamo di evitarlo…  (a.m. 10/12/10)