Ceti medi esasperati e fascismo

Un antico copione

a.m.

La ricostruzione inquietante dell’esplosione sociale che quasi simbolicamente ha avuto uno dei suoi punti più drammatici a Torino, la capitale industriale dell’Italia, ha spinto Franco Turigliatto a rileggere alcune pagine di Trotskij che negli anni della grande crisi economica coglieva lucidamente i sintomi di una possibile soluzione fascista e non solo in Germania. (Sintomi allarmanti di un’esplosione sociale ) Probabilmente è proprio negli anni tragici tra le due guerre mondiali che Trotskij, braccato, scacciato da un esilio all’altro, con mezzi scarsissimi, ha giganteggiato sull’intero movimento operaio per la sua capacità di analisi e di interpretazione dei fenomeni.

Alcune delle sue previsioni sulla dinamica che avrebbe portato alla “resistibile ascesa di Adolf Hitler”, allora derise e sbeffeggiate da tutta la stampa comunista che negava il pericolo per continuare a rifiutare la politica di fronte unico, hanno finito per ottenere qualche tardivo riconoscimento degli storici accademici, magari in termini di “capacità profetica”. Ma in realtà ancora più importanti sono gli scritti sulla Francia 1934-1936, che coglievano come la radicalizzazione fascisteggiante della piccola borghesia e del sottoproletariato poteva essere bloccata da una politica decisa della classe operaia. E lo fu, indipendentemente dalla volontà di collaborazione delle burocrazie sindacali, con la straordinaria ondata spontanea di scioperi del giugno 1936, che chiusero un biennio che si era aperto invece con l’assalto squadrista al parlamento francese.

Le pagine illuminanti che Trotskij scrisse allora per i modesti giornali del suo movimento, non erano il frutto solo di un poderoso cervello, ma di una riflessione collettiva che era stata fatta negli anni dei primi congressi dell’Internazionale comunista, a partire dall’esperienza italiana, su cui aveva avuto uno scambio proficuo con Gramsci durante il suo soggiorno a Mosca.

Che la grande borghesia puntasse a utilizzare la piccola borghesia rovinata ed esasperata, il sottoproletariato, avventurieri di ogni genere, era stato osservato in molti momenti di crisi.

Un’antesignana di operazioni simili era stata la Società del 10 dicembre fondata nel 1849 dal futuro Napoleone III col pretesto di fondare un'associazione di beneficenza. Marx la descrive ferocemente nel suo Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte

Il sottoproletariato di Parigi era stato organizzato in sezioni segrete; ogni sezione era diretta da agenti bonapartisti; alla testa della Società vi era un generale bonapartista  (…) Accanto ad avventurieri corrotti, feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, ruffiani tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la bohème. Con questi elementi a lui affini, Bonaparte aveva costituito il nucleo della Società del 10 dicembre. «Società di beneficenza» – in quanto i suoi membri, al pari di Bonaparte, sentivano il bisogno di farsi della beneficenza alle spalle della nazione lavoratrice. Questo Bonaparte, che si erige a capo del sottoproletariato; che soltanto in questo ambiente ritrova in forma di massa gli interessi da lui personalmente perseguiti, che in questo rifiuto, in questa feccia, in questa schiuma di tutte le classi riconosce la sola classe su cui egli può appoggiare senza riserve, è il vero Bonaparte. (per comodità cito non da introvabili edizioni su carta,ma da http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1852/brumaio/cap5.htm )

Luigi Napoleone Bonaparte se ne era servito per la sua scalata al potere assoluto, per scardinare la seconda repubblica e trasformarla in un penoso simulacro di impero. Non era possibile chiamarlo, ante litteram, “fascismo”, ma certo quel precedente è stato poi osservato e più volte riprodotto in diversi paesi.

Alla lettera non può nemmeno essere definita “fascista” la controrivoluzione preventiva che, utilizzando i “Corpi franchi” composti da mercenari di varia estrazione sociale e sicure convinzioni antisocialiste, assassinò Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht nel gennaio del 1919, appena qualche mese prima che a Milano venissero costituiti i “Fasci di combattimento”. Ma certo era una prova generale.

Lo stesso confuso miscuglio di rimpianti per la “Vittoria mutilata” e il vano sacrificio di tanti combattenti che caratterizzò il primo fascismo fino all’autunno del 1920, e che non gli aveva assicurato un particolare successo (solo 5.000 voti nelle elezioni di Milano del 1919), dopo l’occupazione delle fabbriche e “la grande paura” degli industriali portò alla trasformazione di quel gruppuscolo vociante in una potente e sovvenzionatissima organizzazione di squadracce armate, scagliate contro le organizzazioni sindacali, i municipi amministrati dai socialisti anche moderatissimi, gli intellettuali che si erano opposti al delirio nazionalista e interventista.

E su questa esperienza, la prima e la più classica forma di “fascismo” che i migliori quadri della Terza Internazionale avevano cominciato a riflettere e avevano prodotto analisi pregevoli e parole d’ordine efficaci, accantonate poi periodicamente nell’era staliniana, che passava da un estremo all’altro in base a considerazioni “tattiche”, cioè di esigenze della lotta interna alla burocrazia. A Trotskij interessava invece capire la genesi del fenomeno.

Gli effettivi principali del fascismo sono tuttavia costituiti dalla piccola borghesia e dalla nuova classe media che si è formata: piccoli artigiani e piccoli commercianti delle città, funzionari, impiegati, tecnici intellettuali, contadini caduti in rovina. […] La massa principale dei fascisti è composta da una polvere di umanità.

Trotskij lo ricordava per sottolineare che anche se erano molti, e pesavano a volte nelle elezioni, non avevano la stessa forza se si trovavano di fronte la classe operaia organizzata. “Nella lotta rivoluzionaria, mille operai appartenenti a una grande fabbrica rappresentano una forza cento volte superiore a quella di un migliaio di funzionari, di scrivani, messi assieme alle loro mogli e alle loro suocere”. Era un ammonimento che avevano bene in mente i nostri compagni alla FIAT, quando si battevano perché la FIOM fronteggiasse in piazza la cosiddetta “Marcia dei Quarantamila”.

Ma Trotskij non si limitava a questa raccomandazione, era anche attentissimo a cogliere le dinamiche del consenso conquistato da formazioni fasciste. Tra i quesiti che aveva sottoposto a Gramsci, ce n’era uno sul futurismo italiano, per capire perché si era schierato con il fascismo, mentre quello russo, in forme e con livelli di partecipazione diversi, aveva appoggiato la rivoluzione d’Ottobre. Ma raccomandava una particolare vigilanza anche in quei paesi europei in cui “esiste ancora un parlamento, esistono elezioni, libertà democratiche o i loro avanzi” (praticamente nel 1934 solo ormai la Francia, l’Inghilterra, il Belgio, l’Olanda, la Svizzera e i paesi scandinavi). “Chi si consola con il detto «la Francia non è la Germania» è un imbecille senza speranza”, scriveva. Pensava ovviamente a quanti, fino a un anno prima, avevano ripetuto stupidamente che «la Germania non è l’Italia» (Ad esempio Togliatti aveva scritto nel 1932 un saggio ponderoso contro Trotskij: “Sulle false analogie tra la situazione tedesca e l’Italia).

In tutti i paesi operano le stesse leggi: sono le leggi della decadenza capitalista. Se i mezzi di produzione continuano a restare nelle mani di un piccolo numero di capitalisti, non c’è salvezza per la società, che è condannata a passare da una crisi all’altra, andando di male in peggio. Nei diversi paesi le conseguenze della decrepitezza e della decadenza del capitalismo si esprimono in forme diverse e si sviluppano a ritmi disuguali. Ma il fondo del processo è lo stesso ovunque. La borghesia ha portato la sua società a una completa bancarotta. Non è più in grado di assicurare al popolo né il pane né la pace. Precisamente per questo non può sopportare più a lungo l’ordine democratico. È costretta a schiacciare gli operai valendosi della forza fisica.

Questa descrizione è inquietante, per la sua attualità. Tra l’altro mi aveva colpito negli ultimi anni vedere che perfino i più miseri paesi della terra, come Haiti, o la Somalia, o l’Eritrea, si erano dotati di robusti corpi speciali antisommossa, equipaggiati nello stesso modo e ovviamente assai meglio nutriti dei cittadini comuni. Ma ovviamente, ci ricordava Trotskij, che scriveva nel periodo culminante della Grande Crisi, poteva non bastare il ricorso a questi corpi.

Ma non si può venire a capo del malcontento degli operai e dei contadini solo con la polizia. Far marciare l’esercito contro il popolo è spesso impossibile: esso comincia a disgregarsi e alla fine si verifica il passaggio di una grande parte dei soldati dalla parte del popolo. Per questo il capitale è costretto a costituire bande armate particolari, specialmente allenate contro gli operai, come certe razze di cani sono allenate contro la selvaggina. Il significato storico del fascismo è quello di schiacciare la classe operaia, di distruggere le sue organizzazioni, di soffocare la libertà politica, nel momento in cui i capitalisti si rivelano incapaci di dirigere e dominare sulla base del meccanismo democratico.

Su questo passo (che come gli altri citati è tratto da Lev Trotskij, Scritti 1929-1936¸ Einaudi, Torino, 1962, pp. 288, e 448-449), vale la pena di soffermarsi, a proposito di un aspetto segnalato nell’articolo di Turigliatto quando scrive che “nello stesso tempo è apparso che esiste una regia e che c’è stata una accurata organizzazione della giornata; altri elementi testimoniano di una certa correlazione, che non è solo di simpatia per le ragioni dei manifestanti, di settori delle forze dell’ordine, ma che rimanda a un rapporto politico organizzativo con le forze della destra”. In realtà non solo in altri scritti di quel periodo di Trotskij, ma anche in molte ricostruzioni storiche del rapporto tra il fascismo italiano e quello tedesco e i corpi repressivi preesistenti, risulta chiaro che le “bande armate particolari” non sono davvero alternative, ma ausiliarie, perché più efficaci essendo libere da qualsiasi pur minimo vincolo legale. Per questo le troppe e troppo armate forze delle diverse polizie (e dei corpi speciali come La San Marco, i Lagunari, la Folgore) sono pesantemente indottrinate con ideologie razziste e fasciste, e addestrate a un odio ben mirato. Avete mai visto un poliziotto togliersi il casco mentre affronta un picchetto operaio o un corteo di studenti medi, o una manifestazione in difesa del territorio della Val di Susa?

Dell’ascesa del fascismo nel primo dopoguerra ho avuto molte testimonianze scritte e orali, che erano unanimi nel descrivere la collusione tra le squadracce armate e i corpi di polizia e carabinieri che dovevano proteggere l’ordine. In genere disarmavano i tipografi o i commessi del municipio assaltato che tentavano di resistere, e poi si ritiravano lasciando via libera alle squadracce. L’unica volta che per scrupolo di coscienza un tenentino dei carabinieri fermò un aggressione a Sarzana, le squadracce rimasero ferme per giorni in tutt’Italia temendo che fosse cambiato l’atteggiamento delle autorità.

Ma su un altro periodo, alla vigilia del ’68, in cui le squadre fasciste erano di nuovo attivissime e aggressive in diverse città, tra cui Roma, ho molte esperienze dirette: avevo sperimentato sul mio cranio non poche aggressioni fasciste anche all’interno dell’Università, sempre protette da un solerte commissario, che quando accorrevano troppi studenti antifascisti scortava subito fuori del campus gli squadristi, che potevano così rientrare subito da un altro ingresso. Lo stesso era accaduto quando il 29 aprile del 1966 Di Luia, delle Chiaie & C. uccisero lo studente socialista Paolo Rossi, facendolo cadere dalla balconata della Facoltà. E quando la notte stessa fui aggredito dai soliti squadristi, appena uscii dal policlinico la polizia mi fermò e cercò di farmi confessare che era l’aggressore e non la vittima dell’imboscata. Fu il grande movimento operaio e studentesco degli anni successivi a sconsigliare, almeno per il momento, l’uso diretto delle “bande armate particolari”. Molti dei picchiatori passarono allora al più sicuro (per loro) stragismo. Sempre con adeguate coperture e protezioni, mai punite.

Per finire queste prime riflessioni (ma ci ritornerò presto, anche per introdurre altre letture “classiche”, di cui sento molto bisogno, e che credo possa essere utile condividere), segnalo la conclusione del paragrafo su Il crollo della democrazia borghese, da Dove va la Francia? di Trotskij:

Il materiale umano, il fascismo lo trova soprattutto nella piccola borghesia. Quest’ultima, alla fine, viene rovinata dal grande capitale. Con la sua struttura sociale attuale non ha possibilità di salvezza. Ma non conosce altre vie di uscita. Il suo malcontento, la sua rivolta, la sua disperazione i fascisti li distolgono dal grande capitale e li indirizzano contro gli operai. Si può dire del fascismo che è un’operazione di lussazione dei cervelli della piccola borghesia nell’interesse dei suoi peggiori nemici. Così il grande capitale prima rovina le classi medie, poi, con l’aiuto dei suoi mercenari, i demagoghi fascisti, indirizza contro il proletariato la piccola borghesia caduta nella disperazione. È solo con questi procedimenti briganteschi che il regime borghese può ancora mantenersi. […]