Sintomi allarmanti di un’esplosione sociale

di Franco Turigliatto

da: Sinistra Anticapitalista

 

Quanto sta avvenendo in questi giorni, con le mobilitazioni e le “sollevazioni” dei cosiddetti “forconi”, indica che stiamo entrando in una nuova fase della crisi economica e sociale nel nostro paese. A mobilitarsi sono settori di piccola e medio-piccola borghesia colpita a fondo dalla crisi nei suoi interessi e nei suoi redditi: commercianti, ambulanti, artigiani, camionisti, a cui si sono aggiunti altre frange sociali popolari più o meno marginali, compresi giovani delle periferie cittadine, disoccupati ed anche studenti. Questi fenomeni sono particolarmente evidenti e conflittuali a Torino, la vecchia città operaia e fordista, che al di là della nuova vetrina turistica dei palazzi del centro, è in una fase di grande impoverimento e di smottamento sociale.

La crisi e la piccola borghesia

Questi settori di piccola e medio-piccola borghesia hanno goduto per molti anni, di una relativa tranquillità ed agiatezza (per qualcuno anche realizzata tramite l’elusione e l’evasione fiscale), ma ora, dopo 6 anni di dura crisi economica, le loro certezze economiche e sociali sono rimesse in discussione e per molti si apre una possibile e rapida discesa verso la povertà.

Essi infatti non sono colpiti soltanto dalle dinamiche della crisi economica, ma anche, come la stragrande maggioranza delle cittadine e dei cittadini, dalle politiche dell’austerità e del fiscal compact portate avanti dai governi della borghesia.

Da anni queste politiche massacrano, in primo luogo e soprattutto, le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, privati e pubblici colpiti nel salario, nell’occupazione, nella distruzione dei posti di lavoro e dello stato sociale, “sacrifici” continuamente richiesti dalle politiche liberiste che hanno la sola funzione di garantire i profitti e le rendite dei padroni, della grande borghesia in quanto classe e dei suoi singoli individui. Per garantire questo trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto la classe dominante “chiama” ora anche vasti settori di piccola e media borghesia a garantirlo, impoverendo questi settori sociali intermedi, pure fondamentali per garantire il suo status quo sociale e politico.

Un verbo inglese “squeeze” indica l’azione contemporanea del comprimere e strizzare; questo verbo è attivo in primo luogo verso la classe lavoratrice, ma colpisce anche classi piccolo-borghesi e ne determina il loro sfaldamento sociale.

E’ questo uno dei tratti distintivi delle grandi crisi economiche che si trasformano così anche in crisi politiche sociali, producendo contraddizione e lacerazioni in tutti gli strati della società. Per questo a parliamo di un cambio epocale in Europa.

La crisi nella città di Torino

In alcune città, tra cui Torino, il fenomeno si presenta in forme particolarmente drammatiche: la città del lavoro, una volta ricca e con una classe operaia attiva, ha subito profonde trasformazioni. In pochi anni la disoccupazione ha raggiunto in tutta la regione Piemonte la dimensione di centinaia di migliaia di disoccupati e di altrettanti cassa integrati.

E’ evidente che la piccola borghesia, segnatamente quella commerciale nelle sue varie articolazioni, già colpita dalla crisi, non poteva, anche se non ne ha consapevolezza, subire una diminuzione dei suoi commerci e redditi per il semplice fatto che un così gran numero di lavoratori abbia perso o visto ridotto il suo salario e sia stato costretto a comprimere i consumi. La crisi, che prima ha colpito il lavoro dipendente, non poteva non riversarsi sui commercianti, che nel frattempo, nonostante la disinvoltura fiscale di alcuni, hanno dovuto confrontarsi con la tagliola fiscale nazionale e degli Enti locali, chiamati dal governo ad essere i gestori ultimi dell’austerità.

Inoltre mentre prima esisteva una certa delimitazione e programmazione dei punti di vendita, la pressoché totale liberalizzazione del commercio e lo strapotere delle grandi catene distributive hanno messo in ginocchio tutto il piccolo commercio locale, a partire dagli ambulanti, schiacciato dalla concorrenza dei centri commerciali, ma anche dalla disperata concorrenza tra i singoli negozi.

Così questi chiudono e rinascono come funghi con nuove gestioni, salvo di lì a poco chiudere di nuovo di fronte all’impossibilità per i suoi gestori di garantirsi un reddito. Ma c’è un altro fenomeno che va compreso: molti dei nuovi gestori vengono dalla classe operaia; infatti molti disoccupati, tra cui un numero altissimo di giovani e di ex lavoratori dipendenti hanno magari raggranellato tutte le riserve della famiglia per mettere in piedi un piccolo esercizio alla ricerca di un reddito, salvo poi verificare che non gli è sufficiente per vivere.

La serrata dei negozi a Torino è stata totale sia per l’autonoma scelta dei proprietari che per la presenza di attive squadre degli organizzatori dello sciopero che hanno costantemente circolato in città per imporre a tutti i commercianti di abbassare le serrande.

L’intervento delle forze della destra

Naturalmente tutti questi fenomeni economico-sociali vedono poi l’intervento e l’indirizzo politico delle associazioni di categoria specialiste nel creare una ideologia e identità per cui solo queste figure di lavoratori indipendenti garantirebbero la ricchezza dell’Italia, e che, un po’ tutti gli altri sono “ladri”, non solo i politici, ma i anche i lavoratori pubblici “parassiti” o gli stessi lavoratori privati che disporrebbero del “privilegio” della cassa integrazione. E’ facile il gioco della divisione tra settori popolari tutti in grande difficoltà e della rivolta qualunquista.

Le forze di destra e di estrema destra, a partire dai soggetti che compongono il comitato promotore dello sciopero, sono ben presenti ed attive e stanno orientando le dinamiche di protesta, logicamente confuse. Per le vie della città erano riconoscibili squadre di giovani di destra, provenienti dalle curve delle tifoserie calcistiche, così come erano ben presenti Forza Nuova e Casa Pound e numerose sono stati gli slogan e i comportamenti chiaramente fascisti e reazionari; molti giovani, specie delle periferie, hanno utilizzato la giornata come possibilità di esprimere la loro frustrazione sociale e il loro malcontento. Nello stesso tempo è apparso che esiste una regia e che c’è stata una accurata organizzazione della giornata; altri elementi testimoniano di una certa correlazione, che non è solo di simpatia per le ragioni dei manifestanti, di settori delle forze dell’ordine, ma che rimanda a un rapporto politico organizzativo con le forze della destra.

In questo contesto si distingue la solerte magistratura torinese delle larghe intese che all’alba aveva dato il via a una vasta azione di perquisizioni rivolta contro gli attivisti del movimento No TAV, culminato con l’arresto di 4 giovani, cui è stata appioppata l’accusa di “terrorismo” (sic!).

La piccola borghesia e le forze di destra

E’ fin troppo chiaro che queste classi sociali in via di impoverimento (in piazza c’erano soprattutto gli ambulanti e gli strati inferiori del commercio, non certo i commercianti dei livelli superiori) e la gran massa dei disoccupati possono divenire la base di massa di forza ultrareazionarie e fasciste; la potenziale radicalizzazione reazionaria di settori piccolo borghesi comporta per la classe operaia ulteriori grandi pericoli.

Questa situazione può prendere brutte pieghe perché è assente da tempo un forte movimento di massa e di lotta della classe lavoratrice; le responsabilità delle direzioni sindacali, complici dei governi delle banche e della grande borghesia, sono immense. Infatti solo una forte mobilitazione operaia e di classe può impedire derive reazionarie; per rispondere positivamente a quanto sta avvenendo è necessario che da subito il movimento sindacale e dei lavoratori, a partire dai suoi settori più disponibili alla lotta, costruisca una iniziativa ampia su chiari obbiettivi di difesa del reddito, dell’occupazione e di un’altra politica economica che possa parlare a tutta la classe lavoratrice, ma anche a una parte di questi settori della piccola borghesia e soprattutto ai disoccupati. Per questo serve lo sciopero generale; se ci fosse già stato uno sciopero generale vero, una parte almeno di quei giovani che ieri sono scesi in piazza avrebbero avuto una ben altra occasione per esprimere la loro rabbia.

Sarebbe una pericolosa illusione, infatti, come qualcuno vaneggia a sinistra, considerare queste mobilitazioni foriere di una reale lotta positiva contro le politiche dell’austerità e i governi che le portano avanti.

Pensare che la piccola borghesia e il lumpenproletariat, nell’ epoca della globalizzazione capitalista, a differenza di quanto è sempre avvenuto nella storia e segnatamente nella grande crisi europea degli anni trenta, possano configurare un loro progetto alternativo al grande capitale, non solo è una illusione, ma è un pericolosissimo errore che può aprire la strada a vere e proprie tragedie politiche.

Come scriveva Trotsky, la piccola borghesia, questa polvere di umanità, (tanti individui non organizzati dentro i luoghi e le catene della produzione, ma in ultima analisi dipendenti dai rapporti sociali che essi esprimono), non ha né il ruolo, né la forza sociale e politica per esprimere un progetto alternativo a quello della classe dominante. Le classi sociali intermedie nello scontro tra le due classi fondamentali sono da sempre infine polarizzate da quella che si dimostra più forte in campo; oggi come ieri la borghesia può utilizzare settori di piccola borghesia e di disoccupati, come ha fatto il fascismo, come testa di turco contro la classe lavoratrice. E il rivoluzionario russo (siamo nella Germania degli anni 30) aggiungeva: “A ogni svolta del processo storico, a ogni crisi sociale bisogna riesaminare il problema dei rapporti tra le tre classi dell’attuale società: la grande borghesia che è diretta dal capitale finanziario, la piccola borghesia che oscilla tra i due campi fondamentali e infine il proletariato. La grande borghesia che è una piccola minoranza del paese, non può mantenersi al potere se non ha un appoggio nella piccola borghesia delle città e delle campagne, cioè nei residui del passato e nella massa delle nuove classi medie.” E ancora: “Perché la crisi sociale possa sfociare nella rivoluzione proletaria è indispensabile tra l’altro, che le classi piccole borghesi si dirigano in modo decisivo verso il proletariato. Questa è la condizione perché il proletariato abbia la possibilità di mettersi alla testa della nazione. Le ultime elezioni indicano – e questo ha un grandissimo valore sintomatico, una spinta in senso inverso: sotto i colpi della crisi, la piccola borghesia si è orientata non verso la rivoluzione proletaria, ma verso l’estrema reazione imperialista, trascinandosi dietro considerevoli strati proletari”. Più avanti con una proposizione icastica affermava: “Se il partito comunista è il partito della speranza rivoluzionaria, il fascismo come movimento di massa è il partito della disperazione controrivoluzionaria.[1]

Serve la lotta della classe lavoratrice

Solo il protagonismo, la forza e le lotte della classe lavoratrice per i propri obbiettivi di salvaguardia della condizioni di di vita e lavoro delle classi popolari, può dunque avere la forza di polarizzare settori della piccola borghesia o per lo meno neutralizzarli nello scontro acuto con la classe padronale. Questo è il compito urgente che sta di fronte e che fa sì che la ripresa del conflitto sui luoghi di lavoro, se pur molto difficile, può essere possibile.

Ma siamo davanti a una questione di tempo. Il movimento operaio e sindacale deve risollevarsi; da una parte non deve demonizzare certi settori sociali in quanto tali, andando dietro al PD e ai dirigenti sindacali, proprio loro che subordinano le lavoratrici e i lavoratori alla grande borghesia; dall’altro deve essere consapevole che questo movimento di “forconi” è guidato da forze reazionarie e di destra che devono essere combattute.

Per questo la classe lavoratrice – e le forze della sinistra anticapitalista devono contribuire con tutte le loro forze -, deve cominciare ora e subito la propria lotta, la propria rivolta di classe contro i governi del fiscal compact, cioè contro la classe borghese.

[1] Lev Trotskij, I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali 1924-1940, Torino, Einaudi, 1970, pp. 304 s