Il “peccato originale” di Domenico Losurdo

Il maledetto “Libro nero del comunismo” continua a fare danni. La maggior parte delle “risposte” sono assolutamente speculari, e riprendono il conto dei morti solo per dimostrare che l’altra parte ne ha provocati di più, o che i massacri del capitalismo sono cominciati prima. Tuttavia, pur rientrando almeno in parte in questo filone, il libricino di Domenico Losurdo pubblicato da Laterza col titolo Il peccato originale del Novecento ha il pregio di lasciar cadere presto questa macabra contabilità, per passare a un argomento più solido: lo sterminio dei popoli coloniali non è stato un “eccesso” di qualche singolo o un “infortunio”, ma il coronamento di un programma formulato da molti esponenti “liberaldemocratici” di primissimo piano.. Uno dei più citati è Theodore Roosevelt, che osservava che quando si intraprende “il difficile lavoro di civilizzare barbari territori” e “razze inferiori”, non ci si può lasciare “vincere da falsi sentimentalismi”. Uno dei territori su cui questo filantropo e pacifista (fu insignito del premio Nobel per la pace…) mise in pratica le sue convinzioni fu la Cuba del 1898…

Vengono citati anche altri personaggi oggi meno noti, ma che furono ugualmente esponenti di rilevo del mondo accademico occidentale come Gumplowicz, che scrisse tranquillamente che i membri di un gruppo etnico diverso e “inferiore” non si configurano “come uomini, ma come esseri, adatti solo ad essere sterminati alla prima occasione”. E giustamente Losurdo intreccia dotte citazioni di questo cinismo teorico con qualche esempio della pratica coloniale (il Congo che passa in venti anni da 40 milioni di abitanti a 8, la distruzione degli herero nell’Africa del Sud-Ovest, o i campi di concentramento statunitensi nelle Filippine).

Losurdo osserva anche che molte pagine di autori “di solito assunti nell’empireo dei classici della liberaldemocrazia” sono sconvolgenti. Per Bergson, “in realtà umanità significa occidente”, e Locke “considera ovvia e pacifica la schiavitù nelle colonie”; Jefferson teorizza “l’inferiorità naturale” dei neri; Mill esige “obbedienza assoluta” dalle “razze minorenni” (altrove definite semianimalesche), e celebra la guerra dell’oppio come una crociata per la libertà.

Ma già a questo punto troviamo un elemento che ci sembra inquietante e generatore di qualche confusione: Losurdo ricorda positivamente le pagine in cui Lenin denuncia l’arroganza sanguinaria delle “nazioni elette” nei confronti delle “pelli rosse e nere”, ma subito dopo fa una concessione al culto dell’equidistanza affermando che “altre pagine del dirigente rivoluzionario russo risultano ripugnanti”. Quali? Avendo letto più e più volte tutto Lenin, anche per confrontare con i suoi testi le accuse che gli vengono rivolte da autori come Kaminski o direttamente dal Libro nero, non ne ho trovato nessuna con queste caratteristiche. In tutto – in migliaia e migliaia di pagine – ci sono quattro o cinque frasi, in brevi messaggi scritti in momenti drammatici in cui era in forse la sopravvivenza stessa della rivoluzione, in cui auspica misure drastiche, soprattutto contro chi approfitta del potere sovietico. Pagine dure, ma tutt’altro che “ripugnanti”, e controbilanciate da moltissime in cui Lenin raccomanda un’attenzione particolare non solo per la classe dei contadini, ma anche per singoli contadini che gli hanno fatto pervenire le loro lagnanze, e di cui raccomanda la valorizzazione come dirigenti, anche se – scrive – non diventeranno mai comunisti perché religiosi.

Naturalmente non ci preoccupa o scandalizza che si critichi Lenin. Ma il contesto avvalora l’idea che quel che appare “ripugnante” a Losurdo sia l’inevitabile asprezza dello scontro anche cruento in una fase in cui le classi spodestate hanno imboccato la strada della guerra civile. Lo si deduce dagli accenni successivi a Rousseau, Saint Just e Babeuf, e dalla sconvolgente conclusione che ogni rivoluzione ha fatalmente terribili costi umani e soprattutto non può, per qualche ragione misteriosa, realizzare il proprio programma: “In realtà, la sfasatura tra programmi e risultati è propria di ogni rivoluzione” [il corsivo è mio]. “I giacobini francesi non hanno realizzato o restaurato la polis antica; i rivoluzionari americani non hanno prodotto la società di piccoli agricoltori e produttori; […] i puritani inglesi non hanno richiamato in vita la società biblica da loro miticamente trasfigurata. La vicenda di Cristoforo Colombo, che parte alla ricerca delle Indie ma scopre l’America, può servire da metafora per comprendere la dialettica oggettiva dei processi rivoluzionari”. Che in poche parole consiste nel non riuscire mai, fatalmente, a concludere niente. Una catastrofe, insomma. Meglio non provarci, si potrebbe concludere.

Losurdo è ben lontano dal sostenere questo, ma di fatto porta acqua a questo mulino. Infatti in altra parte del libro arriva a dire – in un ardito e più che discutibile accostamento al nazismo” – che per il “comunismo” si possono fare “comparazioni analoghe”, dato che “quando esso insegue ossessivamente l’utopia di una società monda da ogni contraddizione e da ogni conflitto, finisce con il produrre una sorta di rivoluzione e guerra civile permanente (è quello che si è verificato soprattutto nel corso della rivoluzione culturale cinese). Anche da questo punto di vista, la comparatistica è pienamente legittima.”

Mi sembra che si finisca per fare parecchia confusione, in primo luogo perché la rivoluzione culturale, al di là delle mitizzazioni fattene dai maoisti italiani, è stato un fenomeno assai diverso dalle grandi rivoluzioni (inclusa quella cinese), e in definitiva ha assolto i compiti che le assegnavano quei dirigenti che la stimolavano o pensavano di utilizzarla. Ma quanto alle vere rivoluzioni, e soprattutto alla “madre di tutte le rivoluzioni” (e poi di tutte le involuzioni), quella russa, ci sembra assurdo liquidarne la storia attribuendone la degenerazione a una specie di proprietà intrinseca: come le pere lasciate troppo a lungo sulla paglia marciscono, così le rivoluzioni per Losurdo andrebbero tutte a male, perché il loro progetto “utopico” sarebbe per definizione “irrealizzabile”.

Tutto quel che è successo di orribile sotto il nome di “comunismo” viene ammesso (sia pure come vedremo assai genericamente), ma viene attribuito a una specie di fatale e inevitabile abbandono del progetto originario. Perché? Non ci sembra ci sia una risposta. Abbiamo visto che per polemizzare con il Libro nero in primo luogo si risponde che “anche i capitalisti” ne hanno fatte di cotte e di crude. e ben prima del “comunismo”, dimenticando che il movimento socialdemocratico, e a maggior ragione quello comunista, erano nati per opporsi proprio a guerre, oppressione di popoli, trattati segreti alle spalle degli interessati, ecc., e va quindi spiegato perché a un momento dato hanno cominciato a fare le stesse cose dei loro avversari storici. Il senso comune, quello che usa la parola “utopico” in senso dispregiativo, ha una risposta certa: si deve alla “natura umana”, eterna e immutabile. Così è stato e così sempre sarà, da che mondo e mondo… Losurdo, ovviamente, non può condividere questa ideologia mistificante e conservatrice, ma di fatto approda ad essa, perché nel suo ragionamento non c’è traccia della cesura che separa la rivoluzione più libertaria della storia, quella del 1917, dal Gulag (che non può né vuole negare, ma che tuttavia ridimensiona molto).

Come molti filosofi della storia, Losurdo si preoccupa poco della storia. Parla ad esempio di una “rivoluzione dall’alto” di Stalin proiettata verso le regioni asiatiche. Il “fardello dell’uomo bianco – scrive – assume ora una peculiare configurazione con la città russa impegnata a esportare con la forza delle armi la civiltà (socialista) nelle campagne asiatiche”. Che assurdità! Come può un marxista parlare di “rivoluzione dall’alto”? Il termine è stato usato abbondantemente (persino dallo Shah) ma nessuna vera rivoluzione è mai nata per decisione esterna, e meno che mai “dall’alto”. E non è finita: si allude a un “conflitto etnico” che si intreccia con quello politico, ma ci si tranquillizza citando un discorso di Stalin in cui nel 1935 si annunciava “il superamento delle discriminazioni che impediscono ai figli delle classi privilegiate di accedere all’università”. Che ingenuità! I discorsi di Stalin non avevano quasi nessun rapporto con quel che si stava facendo: potevano ad esempio biasimare gli esecutori della collettivizzazione forzata decisa da lui, parlando di “vertigine del successo che ci ha dato alla testa”, per riprendere pochi mesi dopo la stessa politica in forma ancor più insensata (provocando milioni e milioni di morti e lasciando un’eredità ineliminabile di sfacelo nelle campagne di cui la Russia paga il prezzo ancor oggi). Stalin poteva far scrivere a Bucharin la “Costituzione più democratica del mondo” (non era neppure vero, ma in tanti lo ripetono ancora oggi) proprio mentre preparava il grande Terrore (e Bucharin sapeva bene di essere già incamminato verso il patibolo).

Solo prendendo alla lettera quel che scriveva Stalin (di gran lunga il più grande mentitore della storia) si può scrivere oggi che in URSS al lavoro coatto si era ”consegnati a causa non dell’appartenenza etnica ma della repressione politica”. E che dire di ceceni e ingusci, tatari e calmucchi, tedeschi del Volga e balkari o kara¹ai, deportati solo perché appartenenti a un’etnia sospetta, e di cui solo nel tremendo trasferimento perì tra il 30 e il 50%?

Losurdo, che usa le citazioni meglio di Canfora, ma non conosce molto più di lui la storia di quel periodo terribile, raggiunge risultati di un macabro umorismo quando accenna a un episodio effettivamente riportato anche da Pasternak (da cui trae la citazione) e da molti altri, ma che aveva ben altro significato. Egli scrive infatti che, “con lo scoppio della guerra, ai detenuti si offre persino [ancora una volta la sottolineatura – scandalizzata – è mia] la possibilità di una mobilità e promozione sociale”, giacché “molti deportati chiesero di arruolarsi volontari”, e altri, “specie gli ufficiali e i quadri tecnici sopravvissuti, furono liberati e reintegrati nei ranghi”. Altro che promozione sociale, si trattava invece soltanto di un’impressionante ammissione: evidentemente Stalin e gli altri dirigenti sovietici sapevano tanto bene che i condannati come “nemici del potere sovietico” non lo erano affatto, che in caso di necessità potevano affidargli le armi per difenderlo.

E la necessità c’era: l’episodio si verificò alla fine del 1941, quando la folle impreparazione che era la conseguenza delle illusioni staliniane sulla durata dell’alleanza con Hitler portò alla catastrofe dei primi mesi di guerra: il fronte occidentale, dove tra morti e prigionieri le perdite si contavano a milioni, chiedeva ogni giorno rinforzi dal fronte orientale, che fu sguarnito oltre ogni logica. Alla fine i generali che comandavano le truppe siberiane e che temevano un attacco giapponese chiesero di poter rimpiazzare gli uomini inviati sul fronte occidentale reclutando alcune divisioni tra i “nemici del popolo”. Gli fu concesso, a riprova appunto del fatto che tutti sapevano la falsità delle accuse che avevano riempito i campi. Ma ci sembra incredibile che oggi si parli di “mobilità e promozione sociale” per i sopravvissuti che ottenevano di poter combattere per salvare lo Stato sovietico, dopo che Stalin li aveva gettati nel “tritacarne”, magari con l’accusa di “calunnie antitedesche”, come accadde a molti ufficiali nel periodo dell’idillio con Hitler.

Altri accenni di Losurdo, ad esempio al fatto che il singolo kulako poteva “rinnegare le posizioni politiche espresse” e quindi salvarsi, rivelano che di quella immane tragedia conosce poco o nulla. E anche un’altra delle citazioni dalle incredibili dichiarazioni propagandistiche di Stalin, conferma che per ricostruire un periodo storico Losurdo si basa solo su quel che dice di sé il gruppo dirigente (con questo criterio, tra cinquant’anni, leggendo Berlusconi, si potrebbe concludere che in Italia tra il 1995 e il 1998 c’è stato un regime comunista…). Infatti Losurdo cita tranquillizzato una delle tante dichiarazioni fatte per la stampa estera da Stalin, che sosteneva che “sarebbe ridicolo identificare la cricca hitleriana col popolo tedesco”. Che bello! Che internazionalismo esemplare! Peccato che per tutta la durata della “Grande Guerra Patriottica” non solo in URSS ma sulla stampa “comunista” di tutto il mondo, compresa “Rinascita”, si pubblicavano articoli che stravolgevano citazioni di Marx ed Engels per condannare la “barbarie prussiana e germanica”. Peccato che all’Armata Rossa era stata data licenza di stupro e di rapina in Germania e in Ungheria. Peccato che milioni di tedeschi di ogni età e condizione sociale alla fine della guerra sono stati espulsi dai Sudeti e dalle regioni annesse all’URSS e alla Polonia. Per Losurdo questi fatti contano meno delle dichiarazioni propagandistiche.

Il risultato è la scarsa credibilità di un’argomentazione per altri aspetti interessante e originale. Contro i revisionisti, Losurdo sostiene che il vero “peccato originale” del Novecento non è stato il “comunismo” ma la criminale oppressione del resto del mondo da parte delle potenze capitalistiche, che ha raggiunto livelli di ferocia spaventosi a partire dalla seconda metà del secolo scorso, e che è sfociata poi nell’orrore della Grande Guerra. Verissimo, ma questo ragionamento non basta quando si tratta di spiegare i crimini del “comunismo”. Non serve a nulla dire che hanno cominciato prima “gli altri”, bisogna spiegare perché chi era nato per combattere quell’orrore ha finito per accettarlo e riprodurlo. La tesi di una fatalità che porterebbe sempre le rivoluzioni a fare il contrario di quanto si erano proposte, non solo non ha alcun fondamento razionale, ma se fosse vera porterebbe alla conclusione che bisogna evitare di tentare la strada della rivoluzione. Non si può neppure dire, se non nelle banalizzazioni da rotocalco, che è stata la “rivoluzione a sterminare i suoi figli”. Nessuno storico serio può attribuire i crimini dell’epoca napoleonica a Robespierre, che è stato mandato sul patibolo da chi non ne sopportava il rigore morale e ha aperto, coscientemente o meno, la strada all’impero. Perché dunque ci si ostina ad attribuire a Lenin quello che è accaduto nell’epoca staliniana?

Il “peccato originale” che impedisce a Losurdo di districarsi nelle sue contraddizioni, è l’aver creduto per decenni che il marxismo si incarnasse nel “socialismo reale” (magari nella sua versione maoista, ritenuta – a torto – profondamente diversa da quella sovietica, da cui cercava – senza riuscirci – di differenziarsi). A Losurdo quindi sfugge che c’è stata una cesura profonda non solo nella storia dell’URSS, ma anche in quella del “comunismo” mondiale. Lo sterminio della totalità della dirigenza della rivoluzione russa non vuol dire nulla? Si badi che le vittime non erano due o tre ma 18 su 31 membri del comitato centrale nel periodo 1917-1921, e 8 su 10 membri del Politbjuro. Anche negli anni successivi alla vittoria di Stalin sulle opposizioni, la strage dei quadri raggiunse percentuali inimmaginabili (ad esempio furono uccisi il 70% dei delegati e dei membri del Cc eletti al XVII congresso del PCUS del 1934). Altro che “quando si taglia un bosco, volano le schegge”, come ripetono ancor oggi alcuni imbecilli! E non ci sono solo i morti, c’è lo snaturamento del partito: l’allarme di Gramsci nel 1926 a quanto pare continua ad essere ignorato e rimosso. I compagni come Losurdo si indignano certo, se e quando ci pensano, per i milioni di morti della repressione staliniana, ma non ne comprendono il significato: in quegli anni c’è stata una vera e propria controrivoluzione.

Il guaio è che per decenni questi compagni hanno studiato quelle vicende a partire dalle dichiarazioni ufficiali. E Stalin (che hanno rivalutato in genere tramite l’uso strumentale fattone da Mao, Deng, ecc., in polemica con i dirigenti sovietici) parlava in nome del “marxismo-leninismo”. Oltre cinquant’anni dopo che una parte dei suoi crimini erano stati denunciati dal suo stesso successore, e dieci anni dopo che il crollo del 1989 ha fatto verificare che la violenza repressiva non corrispondeva alla forza del sistema ma ne rivelava l’intrinseca debolezza, sembra incredibile che si possa ancora evitare di confrontare l’opera di Stalin con le sue parole, e soprattutto con il progetto originario di cui si giurava esecutore. E’ un procedimento che equivale a quello di accreditare Alessandro VI, o anche più modestamente Pio IX, Pio XII o Giovanni Paolo II, come rappresentati genuini ed esclusivi di Cristo. E perché non considerare anche Zedillo o Salinas de Gortari come continuatori di Pancho Villa e di Emiliano Zapata, visto che sono dirigenti di un partito che alla rivoluzione messicana formalmente si richiama?

Nessuno mette in conto al messaggio di Cristo i roghi e i patiboli che hanno caratterizzato la storia della Chiesa integrata al potere schiavista, feudale e poi capitalista. Perché attribuire dunque al marxismo e allo stesso Lenin gli orrori di un sistema che per affermarsi ha dovuto sterminare più comunisti di qualunque altro regime, e perfino più dirigenti comunisti tedeschi di quanti ne abbia uccisi Hitler? C’è una sola spiegazione plausibile: per non ammettere che avevano ragione le piccole minoranze perseguitate e calunniate che continuavano a proporre un’altra idea di socialismo, e contro le quali fu creato il mostruoso concetto di “socialismo reale” (l’unico esistente, quindi l’unico possibile, il resto sono chiacchiere utopistiche, dicevano quei “realisti” che hanno pilotato il sistema verso la catastrofe e la genuflessione di fronte al capitalismo).

Il punto debole della timida e sostanzialmente inefficace “difesa del comunismo” tentata da Domenico Losurdo è dunque l’appiattimento di una storia complessa e contraddittoria sotto un solo nome, “comunismo”, usato per definire sia le origini gloriose di un movimento che si opponeva radicalmente all’ordine esistente, sia la turpe decadenza di chi se ne appropriò. Non pensiamo solo ai morti, ma ad altri crimini: dagli accordi per spartire il mondo con Hitler o Churchill, all’approdo filocapitalistico di tutti i dirigenti “comunisti” dell’URSS, della Yugoslavia, ecc, per non parlare di chi, a Pyongyang o a Bucarest, aveva riscoperto perfino la monarchia ereditaria.

Losurdo, come ogni persona per bene, quando gli si nomina lo sterminio staliniano, lo condanna. Eric Hobsbawm arriva più in là e, intervistato su Pinochet in Argentina, trova il modo di aggiungere che a suo parere “è un’ingiustizia enorme che non si sia indagato sui crimini commessi in Russia, sulla storia nera del Gulag stalinista. Tutti sanno che nella Russia di oggi i funzionari che hanno partecipato alle torture di massa continuano a rivestire cariche ufficiali, ma nessuno dice una parola”. Ma la bizzarra conclusione di Hobsbawm è che, dato che “in molti paesi il crollo del comunismo ha lasciato una situazione peggiore di prima”, probabilmente “sarebbe stato meglio non fare la rivoluzione d’ottobre”. Anche lui, a quanto pare, non è capace di ammettere che quel che c’era in quei paesi, e che lui ha considerato per tanto tempo “socialista” o “comunista”, non aveva nulla a che vedere col socialismo e il comunismo. Tanto è vero che, come ammette per i torturatori, la totalità dei responsabili dello sfascio di quei paesi sono gli stessi che li governavano prima in nome di quel comunismo a cui per primi non credevano, e che usavano come mistificazione ideologica per giustificare i loro privilegi. *

Il libro nero ha fatto danni, dicevamo. Non tanto screditando un “comunismo” che si era screditato da solo, quanto provocando con la sua grossolanità faziosa una reazione di rigetto che rischia di impedire un serio bilancio di quella catastrofe. Un bilancio di cui non dobbiamo rendere conto a Berlusconi, ma a noi stessi e alle generazioni future.

Il libro di Domenico Losurdo non è riuscito a sfuggire a questa trappola. Lo si deve al “peccato originale” di non aver fatto i conti a suo tempo con la terribile involuzione del sistema e con il suo progressivo adattamento alla logica dell’imperialismo.** Oggi la conseguenza paradossale è che, certo involontariamente, Losurdo finisce per assolvere il capitalismo da una parte delle sue colpe, e in particolare dall’aver costituito un modello culturale sempre più imitato dai burocrati sovietici, cinesi, ecc., nel periodo della decadenza del “socialismo reale”.

 

* La lunga intervista del “Clarín” a Eric Hobsbawm è stata pubblicata in Italia sul n.° 264 del 1° gennaio 1999 della rivista “Internazionale”.

** “Adattamento alla logica dell’imperialismo” è un concetto ben diverso dalla definizione di “socialimperialismo”, una delle tante sciocchezze della rozza ideologia maoista, con cui abbiamo polemizzato a lungo, osservando che la burocrazia – che certo non difendevamo – aveva pur sempre caratteristiche e interessi diversi rispetto a quelli dell’imperialismo. Quello che vogliamo sottolineare con questa espressione è che il gruppo dirigente dell’URSS staliniana (per non parlare dei successori) imitava non pochi degli atteggiamenti dei governi imperialisti.