L’autodeterminazione e i “giustificazionismi” di sinistra

(Guerre e pace)

La malafede di chi giustifica l’intervento con argomenti umanitari (“bloccare Milosevic”, come ieri Saddam e l’altroieri Hitler…), ha provocato a volte un atteggiamento speculare, comprensibile ma non giustificabile, di schieramento a fianco di Milosevic, a costo di minimizzare le vessazioni che hanno costretto all’esodo molti kosovari. Si tira in ballo anche Roosevelt che, durante la Seconda Guerra Mondiale, fece deportare in campi di concentramento i cittadini americani di origine giapponese”. Eppure “gli USA non erano bombardati giorno e notte, […] e non vedevano in gioco l’integrità nazionale, anzi la stessa sopravvivenza come Stato e come nazione. È questo invece il caso della Jugoslavia e del popolo serbo”. Sono parole di Losurdo, ma la comparazione con il comportamento degli imperialisti è utilizzata spesso anche da un altro maestro del “giustificazionismo”, Luciano Canfora, a proposito delle repressioni staliniane, sorvolando sul fatto che da un paese “socialista” sarebbe lecito aspettarsi metodi diversi da quelli degli imperialisti.

Comunque sui conflitti etnici nel Kosovo e nel resto della ex Jugoslavia, cominciati molto prima dell’intervento NATO, si assumono spesso posizioni assolutamente manichee. Sembra incredibile, ma perfino le ipocrite esternazioni della first lady di Belgrado, Mira Markovic, che durante la guerra del 1992-1994 ogni settimana scriveva commenti intessuti di banalità alla Alberoni sulla rivista “Duga” per abbellire la politica dell’adorato Slobodan, sono state pubblicate senza una nota di commento in volume da Pironti e poi riprese in una pagina di “Liberazione”. Analogamente si raccolgono spesso “notizie certe” che identificano in blocco l’UCK con le mafie e il narcotraffico, sorvolando sul fatto che queste notizie rimbalzano da un articolo all’altro, che si citano a vicenda, e hanno all’origine fonti serbe, o gli stessi specialisti della criminalizzazione di ogni movimento di liberazione che avevamo già visto all’opera contro il PKK, la guerriglia colombiana, ecc.

Ridurre l’UCK a “un’organizzazione di tipo mafioso” in base all’argomento che avrebbe “imposto il versamento di una tassa a ogni albanese della diaspora”, significa accettare il classico “ma chi li paga?”, l’argomento usato da sempre dai borghesi, e da decenni dai burocrati staliniani o socialdemocratici nei confronti di ogni movimento fuori controllo: non riescono a immaginare che un’organizzazione possa reggersi attraverso l’autofinanziamento, sia con la tassazione dei militanti, sia violando qualche articolo del codice penale, come facevano anche i bolscevichi…

Ma c’è il pericolo di un atteggiamento esattamente speculare: passare dal dovuto riconoscimento delle ragioni profonde dei kosovari, alla sottovalutazione dei pericoli insiti nelle caratteristiche assunte dall’UCK non solo a Rambouillet. L’origine “marxista-leninista” (cioè, in quella regione, “enverista”) non esclude affatto la disponibilità ad accordi “tattici” con l’imperialismo, di cui si accetta così disinvoltamente l’aiuto da diventare uno strumento della sua politica.

Credo che la chiave per sfuggire ai due pericoli sia una visione dialettica analoga a quella di Lenin nelle polemiche in difesa dell’autodecisione contro Rosa Luxemburg, che la negava temendo che ne approfittassero i latifondisti polacchi o baltici. Lenin sosteneva di non ignorare affatto questo pericolo, che tuttavia si sarebbe aggravato proprio negando il diritto all’autodecisione. I rivoluzionari di una nazionalità oppressa possono e devono contrastare le tendenze nazionaliste borghesi, ma chi sta nel paese oppressore non può farlo senza confondersi con gli sciovinisti, e tanto meno può usare l’argomento che in caso di indipendenza i reazionari sarebbero in maggioranza. In tal caso, rispondeva Lenin, bisognerebbe smettere anche di rivendicare il suffragio universale, perché le masse inesperte potrebbero non sapere fare buon uso del diritto di voto!

Non si tratta di assumere una posizione “equidistante” tra serbi e kosovari, o di scegliere, come suggerisce il senso comune, il “giusto mezzo”. Dobbiamo assicurare un sostegno assoluto al popolo serbo aggredito col pretesto delle colpe di Milosevic, ma al tempo stesso dobbiamo ribadire che il popolo del Kosovo ha diritto a scegliere tra indipendenza e autonomia, indipendentemente dagli atteggiamenti irresponsabili dei fanatici dirigenti dell’UCK. Solo gli abitanti del Kosovo devono decidere, e noi non possiamo basare il nostro atteggiamento sulle nostre simpatie. Riconoscere questo diritto solo ai popoli che hanno una direzione che ci piace, equivarrebbe a negarlo quasi a tutti: ai palestinesi (per i lunghi legami di Arafat con i regimi arabi più reazionari e le attuali violazioni dei diritti democratici degli oppositori), ma anche ai curdi (per i massacri reciproci per contro dei loro interessati protettori stranieri, e per l’eliminazione dei rivali del PKK nella stessa Turchia…).

Possiamo solo chiedere garanzie per le minoranze all’interno del futuro Stato, come condizione per il riconoscimento internazionale dell’indipendenza. Il fatto che oggi, a quanto pare, la maggioranza dei kosovari – siano o no dell’UCK – non si accontentino più del ritorno all’autonomia sancita dalla Costituzione del 1974, non dipende dalla “sobillazione dell’imperialismo” quanto da molti fattori concreti: quell’autonomia ha un significato ben diverso nella grande federazione jugoslava plurietnica in cui i serbi erano solo il 36%, e nella “piccola Jugoslavia” attuale dominata assolutamente dai serbi; inoltre a tale richiesta moderata si è risposto per anni con una negazione assoluta, basata su argomenti sciovinisti irrazionali come l’appartenenza del Kosovo a un presunto Stato serbo fino alla battaglia di Kosovo Polje del 1389, ricostruita come una battaglia tra serbi e albanesi alleati dei turchi, mentre Lazar Hrebljanovic regnava in nome di “serbi, bulgari, albanesi e greci”, e c’erano quindi molti albanesi nel suo esercito, non meno che in quello ottomano, a cui si erano uniti non pochi principi cristiani bulgari e serbi.

In ogni caso si capisce che, dopo aver subito per oltre dieci anni vessazioni, violenze, privazione dei più elementari diritti da parte dei serbi, i kosovari oggi non credano alla possibilità di una futura convivenza pacifica all’interno dello stesso Stato.

Un altro argomento usato per negare il diritto dei kosovari all’indipendenza è l’intangibilità delle frontiere, un argomento davvero bizzarro in quest’area: perché proprio i kosovari, e solo loro, dovrebbero rinunciare alle loro aspirazioni? Perché il loro territorio farebbe parte storicamente “da sempre” dello Stato serbo? Abbiamo visto che ciò non ha fondamento per il 1389: l’annessione avvenne, con la violenza, ma solo nel quadro delle terribili guerre balcaniche del 1912-1913, teleguidate dall’imperialismo nel quadro della preparazione della Prima Guerra Mondiale.

Anche l’annessione alla Jugoslavia “socialista” fu imposta calpestando le decisioni prese dallo stesso PC del Kosovo (tra cui i serbi erano in maggioranza), in un’assemblea che si tenne a Bujane, presso Prizren nel gennaio del 1944, e che aveva ammesso che la grande maggioranza degli abitanti del Kosovo erano albanesi. Il documento conclusivo, con una frase ispirata alle concezioni che avevano caratterizzato il movimento comunista fino agli anni Trenta, ribadiva “la necessità di dare ad ogni popolo la facoltà di determinare il proprio destino, cioè il diritto all’autodeterminazione, incluso il diritto alla secessione”. Tito andò su tutte le furie e il Politburo del PCJ dichiarò nulla quella risoluzione, costringendo la dirigenza regionale del Kosovo a ripubblicarla cancellando ogni accenno a una possibile secessione e alla riunificazione con l’Albania. Se l’annessione è stata dunque frutto di molteplici sopraffazioni, perché dovrebbe essere considerata sacrosanta e perpetua?