Il peso dello stalinismo nel dibattito su Cuba

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Su Cuba si discute in America Latina

 

Ho già segnalato una parte dell’ultima fase del dibattito su Cuba, aperto da Guillermo Almeyra con una severa analisi sia dei contenuti del testo su cui è stato aperto il VI Congresso del PCC rimandato per anni, sia e soprattutto del metodo: si chiede agli iscritti di pronunciarsi su proposte che intanto sono state non solo già annunciate, ma anche messe in atto. (Cuba: un documento).

 

Ho riportato già sul sito, sia pur parzialmente tradotti, i testi di una fase successiva del dibattito in Argentina, che ha visto contrapposto sempre più aspramente Almeyra e Atilio Boron (Di nuovo su Cuba), che in passato avevano avuto relazioni di amicizia basate su una concordanza sostanziale di giudizi.

La polemica si è protratta con un’asprezza che non mi sorprende, soprattutto perché mi ricorda gli attacchi che mi sono stati rivolti da alcuni sostenitori di Cuba ogni volta che ho accennato ai problemi irrisolti dell’isola e agli errori che li aggravano. Ne ho parlato più volte, sia in un articolo su Il revival dello stalinismo, sia in una rassegna dei molti scritti che rispondevano ai “giustificazionisti” ad oltranza, variamente nostalgici del “socialismo reale”: Una polemica decennale con i giustificazionisti.

 

In questo caso la prima risposta di Almeyra poteva sembrare troppo dura, soprattutto a chi aveva conosciuto Boron come brillante intellettuale marxista che aveva polemizzato rigorosamente con Toni Negri (è stato invitato e pubblicato in Italia da Punto Rosso, ma anch’io avevo segnalato più volte i suoi scritti, riproducendone alcuni, anche recentemente, su questo sito). In realtà c’era stata solo una caduta di gusto, quando Almeyra aveva detto che un atteggiamento più critico era un dovere che non poteva essere eluso anche se “avrebbe drasticamente ridotto i numerosi inviti all’Avana”. In effetti Boron negli ultimi tempi è stato più volte ospite di Fidel Castro, che ha potuto intervistare a lungo, evitando accuratamente ogni argomento che poteva essere sgradito. Ma non vale la pena, per Boron come per il nostro Gianni Minà, di ricondurre a un possibile interesse materiale l’atteggiamento acritico che li contraddistingue. Altrimenti dovremmo fare lo stesso per tutti coloro che furono accecati dal mito dell’URSS, a partire dai coniugi Sidney e Beatrice Webb, esponenti della corrente più moderata e anticomunista del laburismo britannico, che dopo aver denigrato ferocemente la Russia rivoluzionaria dei primi anni finirono negli anni Trenta per abboccare all’amo della propaganda staliniana, esaltando l’URSS del grande terrore come “una nuova civiltà”, senza repressione, in cui anzi “l’intera idea di castigo è stata rimossa”. Il voluminoso saggio, in due grossi tomi di complessive 1.800 pagine, pubblicato in Italia da Einaudi nel 1950, sosteneva tra l’altro che i grandi processi di Mosca avessero garantito tutti i diritti degli imputati…

 

A chi volesse divertirsi ricostruendo i meccanismi di quell’accecamento, ricordo alcuni interessanti libri sull’argomento. Il più organico è: Paul Hollander, Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba, Il Mulino, Bologna 1988; utili anche gli atti del Convegno di Cortona (aprile 1989) della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Il mito dell’URSS. La cultura occidentale e l’Unione Sovietica, a cura di Marcello Flores e Francesca Gori, Franco Angeli, Milano 1990, e soprattutto il libro di Marcello Flores, L’immagine dell’URSS. L’Occidente e la Russia di Stalin (1917-1956), il Saggiatore, Milano, 1990.

 

Ma torniamo a Cuba. Ai primi di novembre è stata improvvisamente sospesa la pubblicazione in rete del bollettino SPD (che vuol dire: Socialismo Partecipativo Democratico), che aveva già superato una settantina di uscite in meno di due anni. Riporto integralmente il secco comunicato che dava l’annuncio:

 

Comunicado
Los propósitos divulgativos que dieron origen al boletín SPD, fueron alcanzados. El cambio en la situación del país demanda nuevas valoraciones. En estas circunstancias suspendemos indefinidamente su edición. Ante la adversidad, siempre con el pueblo.

La Habana 2 de Noviembre de 2010

Pedro Campos.

 

Per chi non sapendo lo spagnolo temesse di non aver capito bene per problemi di lingua, traduco letteralmente: “Gli obiettivi di divulgazione che hanno fatto nascere il bollettino SPD sono stati raggiunti. Il cambiamento nella situazione del paese richiede nuove valutazioni. In queste circostanze sospendiamo a tempo indefinito la sua pubblicazione. Di fronte alle avversità, sempre con il popolo”.

Come vedete, non è un problema di lingua. Che può voler dire questo comunicato? Un bollettino nato per contribuire alla discussione politica avrebbe ancora più ragioni di esistere in un momento in cui comincia un dibattito congressuale. L’affermazione che un bollettino a più voci, da cui avevo già segnalato contributi pregevoli, dovrebbe cessare perché avrebbe “raggiunto” dei presunti “obiettivi di divulgazione” può essere stata concepita solo da qualche burocrate che ha dettato le condizioni per essere ammessi a partecipare al dibattito congressuale.

Qualcuno obietterà che si tratta del solito pregiudizio anticubano di chi dimentica il bloqueo, i “Cinque eroi”  ecc. ecc.  Invito a rileggere i testi già pubblicati di Pedro Campos, in particolare il recentissimo Pedro Campos da Cuba (it), ma anche, in spagnolo, il testo preparato per il congresso già due anni fa, Cuba: propuestas programaticas. Una raccolta più ampia degli scritti di Campos può essere d’altra parte letta in Pedro Campos en Kaos en la Red.

 

Altri dati c’erano nel mio Cuba fa discutere, che segnalava anche che uno dei compagni più vicini a Campos, Esteban Morales, era stato espulso dal partito per aver denunciato il pericolo della formazione di uno strato piccolo borghese e borghese nell’area economica mista. Nel sito c’è anche la sua ottima risposta a chi lo ha espulso dal partito: Esteban Morales contesta. Morales denunciava che l’atto di accusa per escluderlo dal partito si basava su un articolo dal titolo molto esplicito: “Corruzione, la vera controrivoluzione”, e non teneva conto invece minimamente della sua biografia: oltre cinquanta anni di impegno e di incondizionata fedeltà alla rivoluzione. Con quella misura, sosteneva Morales, si voleva dare “un esempio”, facendo però un danno al partito e al paese, perché all’intelligencija rivoluzionaria e all’insieme degli iscritti si trasmetteva un messaggio di omertà: il partito sarà inesorabile con chi critica. Di fatto si vuole far capire che è meglio rimanere in silenzio, praticando l’opportunismo e facendo quindi il gioco di chi si comporta male. Il che, continuava Esteban Morales, “non ha niente a che vedere con quello che deve essere lo spirito critico, che deve prevalere in un partito come il nostro, e non ha neppure niente a che vedere con quello che l’attuale situazione interna richiede”.

 

Non voglio certo criticare Pedro Campos per aver accettato il diktat, al massimo penso che mantenere un canale diretto di informazione ai militanti poteva essere prezioso per evitare i filtri interessati dei burocrati che temono il dibattito aperto. Ma capisco che dopo tanta attesa, e tante sollecitazioni all’apertura del dibattito congressuale, il timore di venirne escluso possa aver consigliato scelte dolorose. L’apertura di un dibattito formale tra l’altro sembra aver portato alla luce anche resistenze conservatrici che temono l’apparizione di “perestroikos”, e viceversa anche le preoccupazioni di riformatori preoccupati dai rigurgiti dogmatici.

Ma il dibattito è ancora parziale e reticente: ad esempio il vecchio Alfredo Guevara, dirigente storico dell’Istituto del cinema e considerato in genere “riformista”, il 2 dicembre ha preso posizione per le trasformazioni annunciate dal documento congressuale, che ha presentato come l’inizio di una nuova esperienza che farà storia: “Nel nostro mondo è un’occasione luminosa quella di una rivoluzione, con vocazione socialista e incamminata verso il socialismo, che si ribella, da dentro, rivoluzionandosi contro il pericolo di vedersi divorata dallo spirito soporifero-conformista-statalista che si incarna in una burocrazia sempre immobilista e sempre inproduttiva”. Insomma si è schierato nettamente a favore delle misure per ridurre il monopolio statale e per ampliare il campo di applicazione del lavoro “por cuenta propia”, insieme a una riforma del sistema fiscale. Secondo lui è l’unica possibilità di garantire i servizi di base dell’educazione e della sanità. Ma sembra ignorare gli allarmi sulla possibilità che all’interno del processo si formi o si consolidi uno strato sociale che punta a sviluppare il capitalismo.

 

Sembra prevalere la vigilanza nei confronti dei conservatori, che peraltro effettivamente ci sono e si manifestano in vario modo. Non è rassicurante ad esempio la scelta di Cuba di unirsi alla Cina nel boicottaggio della cerimonia di assegnazione del Premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, insieme a paesi non certo esemplari per la difesa dei diritti dell’uomo come Russia, Kazakhistan, Colombia,Tunisia, Arabia Saudita, Pakistan, Serbia, Iraq, Iran, Vietnam, Afghanistan, Venezuela, Filippine,Egitto, Sudan, Ucraina e Marocco.

 

Intanto la polemica continua a svilupparsi in vari paesi dell’America Latina. Purtroppo, con pochi elementi nuovi. Eppure il dibattito sul presente e il futuro di Cuba è vitale per tutta la sinistra. Lo schieramento acritico anche di Hugo Chávez al fianco della Cina, sottratta a ogni critica, è un sintomo inquietante.

 

In ogni caso concludo la documentazione con la traduzione dei due interventi di replica di Boron e Almeyra, che rappresentano due diversi metodi di affrontare la questione Ma spero di vedere presto nuovi contributi interessanti da Cuba.

 

 

 

1) QUELLO CHE ALMEYRA NON VEDE

Atilio Boron

(Versione originale pubblicata in Kaos en la Red

http://www.kaosenlared.net/noticia/cuba-lo-que-almeyra-no-ve)

 

 

 

Qualche giorno fa Almeyra ha pubblicato un commento in cui critica aspramente un mio breve scritto sul processo dei cambiamenti che si stanno aprendo a Cuba. Nelle righe che seguono tenterò di argomentare nel modo più convincente possibile l’interpretazione che tanto ha irritato il mio critico.

Preliminarmente, però, non posso non dire qualche parola sulla sorprendente animosità che si riflette nel tono e nello stile di Almeyra, tanto più sorprendente in quanto si tratta di una persona con cui ho sempre avuto un rapporto estremamente cordiale e nulla lasciava presagire un atteggiamento come quello che ora non posso non commentare. Tono e stile – diciamolo pure – che ricordano quelli prevalenti in Unione Sovietica all’apogeo dello stalinismo, che Almeyra ha costantemente contrastato per mezzo secolo

Proprio per questa perseveranza pertinace, gli è successo quello che è capitato a tanti altri, e cioè: a furia di concentrare la propria attenzione su una figura storica finiscono per amarla (è il caso dello storico italiano Renzo de Felice con Mussolini), o per assimilare, inconsciamente, alcuni dei tratti tipici della personalità del loro oggetto di studio (è il caso di Almeyra con Stalin).

Altrimenti, infatti, non si capirebbe il tono ammonitore ed offensivo del suo intervento, in cui mi si accusa di essermi accorto solo ora delle irrimediabili e gravissime distorsioni del modello sovietico, quando chiunque abbia letto i miei scritti o abbia assistito ai miei corsi o alle mia conferenze sa bene che sono andato affrontando questo tema per decenni; e sarebbe inspiegabile la vile insinuazione che avrei evitato di criticare l’indirizzo economico cubano perché così si “sarebbe drasticamente ridotto il numero dei miei inviti all’Avana”.

Con questa frase non solo mi insulta ma mi offende anche, né rispetta i compagni che mi onorano con i loro vari inviti a partecipare ai tanti eventi organizzati a Cuba. Vittima del suo viscerale (e sicuramente involontario) stalinismo, Almeyra sembra più preoccupato di denunciare ad hominem i miei “crimini teorici” (non aver dimostrato le “aberrazioni” del socialismo cubano, non avere effettuato il bilancio dell’esperienza sovietica sulle orme della profetica analisi di Trotsky nella Rivoluzione tradita, sintomi evidentissimi dello “scarso interesse per la teoria marxista”) che non di affrontare da un punto di vista marxista l’esame delle sfide che ha di fronte il primo territorio libero d’America nella presente congiuntura.

Come sarebbe avvenuto sotto lo stalinismo, l’indispensabile dibattito tra i rivoluzionari è sostituito dalla critica livorosa, dal rimprovero, dall’implacabile denuncia rivolta contro chiunque non condivida la sua erronea interpretazione del processo rivoluzionario a Cuba.

Nel suo commento Almeyra ostenta un paternalismo che sfiora il ridicolo quando dice che “la costruzione del socialismo in una piccola isola senza risorse né popolazione, che a suo tempo ha tenuto testa, oltre che agli Stati Uniti, al governo sovietico e al regime cinese, non è compito esclusivo dei cubani. Tutti i democratici e i socialisti del mondo hanno il dovere di aiutarli con le proprie idee, i loro apporti, le loro critiche, anziché lasciarli soli a commettere errori per poi constatare l’insuccesso… e lasciarli di nuovo soli nel momento in cui prendono le decisioni più rischiose”.

Nel passo citato vi sono molti elementi chiarificatori. Per prima cosa, su questo fatto di lasciar soli i cubani, l’unica cosa che possa dire è che, ben lungi da questo, la Rivoluzione cubana è accompagnata da un esercito formidabile di uomini e di donne in tutto il modo disposti a lottare fino in fondo per difenderla ed aiutarla ad adottare le rischiose, difficili (ma indispensabili) decisioni che dovrà prendere per salvarsi. Non vi è la benché minima possibilità che quanti di noi facciamo parte di questa forza lasciamo sola Cuba in balia della propria sorte. Quelli che l’hanno abbandonata sono i cultori di un fantastico infantilismo estremista, le cui frecciate retoriche sono musica celestiale per l’imperialismo, che può saldare le loro critiche con quelle formulate da Vargas Llosa e dai suoi amici. Il loro atteggiamento deplorevole non ha lasciato Cuba isolata o inerme, al contrario. Se la vedano loro.

In secondo luogo, va rilevata una cosa che contraddice clamorosamente la definizione di Almeyra della Rivoluzione cubana come pseudosocialismo corrotto dalla sua degenerazione burocratica: nel passo succitato si riconosce quanto meno che un regime con così tanti difetti ha avuto il coraggio di tener testa (ma “a suo tempo”, si affretta a chiarire il mio severo critico) agli Stati Uniti, al governo sovietico e al regime cinese. Non è poca cosa per “una piccola isola senza risorse né popolazione” avere avuto il coraggio di misurarsi con quei giganti.

Mi piacerebbe che qualche paese più grande (per popolazione e territorio) avesse fegato per fare altrettanto. In questo passo del suo scritto, purtroppo Almeyra non dice quando c’è stato quel luminoso me fugace momento di scontro con l’imperialismo nordamericano e quando Cuba avrebbe smesso di scontrarsi con questo. Sarebbe importante che prima o poi chiarisse questa sua confusione. A parte questo, comunque, che cosa vuol dire che Cuba “è una piccola isola senza risorse né popolazione”?. L’osservazione sembra ripresa da un manuale gringo di turismo caraibico più che esser frutto dell’analisi marxista.

Che io sappia, Cuba ha molte risorse, di vario genere: a parte quelle cosiddette “naturali” (minerali, petrolio, pesca, spiagge, determinati prodotti agricoli), dispone di valide risorse umane: una formazione scientifica, che in certi campi è di livello internazionale, o Forze armate dotate di una formidabile capacità di dissuasione, che non solo sono riuscite a respingere gli invasori a Playa Girón, ma anche a tenere lontani dal proprio paese gli imperialisti per oltre mezzo secolo.

Ha anche una popolazione istruita come nessun altra nelle Americhe e che accede a livelli di prestazioni mediche e di istruzione paragonabili a quelli dei paesi sviluppati. La Rivoluzione cubana avrà forse bisogno dell’aiuto di Almeyra per continuare a battersi contro l’imperialismo americano? Non sembrerebbe.

Analoga perplessità suscita l’asserzione del mio critico secondo cui la Rivoluzione “richiede il nostro aiuto materiale e teorico perché la bussola delle autorità cubane non funziona molto bene”. Che cosa vuol dire? A cosa si riferisce una formulazione così enigmatica? È stato un errore dovuto al disguido della bussola rivoluzionaria la decisione di Fidel e dei suoi compagni di lottare contro l’imperialismo americano, o di rifiutarsi di diventare il procuratore dell’imperialismo nei Caraibi? O è stato un errore l’ineguagliabile esempio dell’internazionalismo cubano, che ha sparso medici, insegnanti e allenatori sportivi in oltre cento paesi o che lo porta ad abilitare gratuitamente migliaia di studenti nella Scuola Latinoamericana di Medicina? È un errore che nonostante mezzo secolo di blocchi e aggressioni a Cuba non vi sia – a differenza dell’Argentina, del Brasile o del Messico – un solo bambino scalzo o che dorma per strada? O lo è stata l’eccezionale campagna, guidata dal ministro dell’Istruzione Armando Hart, grazie alla quale Cuba ha sradicato la piaga dell’analfabetismo? O la collaborazione con i movimenti di liberazione nazionale e antirazzisti nell’Africa Nera, che ha reso possibile la fine dell’apartheid in Sudafrica e la sconfitta dei piani della Casa Bianca nell’area? O è stata forse un errore la collaborazione offerta ai sandinisti, o l’appoggio dato alle politiche di emancipazione in corso in Venezuela, in Bolivia e in Ecuador? Bussola guasta, per aver mantenuto salda la propria identità socialista mentre crollava l’Urss e si dissolveva lo pseudo socialismo dell’Europa dell’Est, o per avere espropriato tutti i monopoli imperialisti, o per aver resistito – a pie’ fermo e senza esitare – alla brutale aggressione degli Stati Uniti e all’ostracismo cui l’ha condannata, per quasi mezzo secolo, la stragrande maggioranza delle nazioni dell’America Latina e dei Caraibi?

Passare in rassegna la caterva di offese e di frottole scaricate da Almeyra contro la Rivoluzione cubana sarebbe un compito inesauribile, oltre che sgradevole. Più che uscire dalla bocca di un intellettuale trotskista sembrano provenire da qualche covo anticastrista di Miami. Qualsiasi analisi, infatti, sui limiti od errori economici del modello cubano che non prenda le mosse dall’esame accurato del blocco imperialista a Cuba è sbagliata teoricamente e reazionaria politicamente. Come spiegarsi che Almeyra trascuri il fatto che, misurato in dollari di oggi il costo di mezzo secolo di blocco imperialista a Cuba ammonti a una cifra equivalente a due Piani Marshall (con uno solo si è ripresa l’Europa del secondo dopoguerra).

Probabilmente, per un così viscerale critico della Rivoluzione cubana si tratta di un episodio insignificante o di pignoleria, ma per la teoria marxista non lo è di certo. Dalla tranquilla quiete del loro ufficio gli acidi critici della rivoluzione si consumano a immaginare modelli economico-politici che esistono solo nella loro testolina febbricitante. Frutto di quell’immaginario infantile – criticato con tanta forza da Lenin – l’imperialismo cessa di essere un fattore storico: si volatilizza, diventa un qualcosa di fluttuante, un testo e non più una macchina che opprime, distrugge e uccide; è una mera astrazione, non un sinistro protagonista della storia. Frutto di questa cecità, i critici dell’eccezionale epopea cubana non riescono a calibrare la fenomenale influenza pratica delle politiche dell’impero e dei suoi agenti. E questo non dipende dall’adesione a un’altra teoria, chiaramente estranea alla tradizione marxista, ma da un vizio epistemologico che imperversa sul versante della sinistra: il “teoreticismo”, vale a dire la perversione della teoria che smette di essere strumento per l’analisi e la trasformazione del mondo, finendo per ridursi a una retorica altisonante che è rivoluzionaria soltanto nella sterile galassia dei concetti, a distanza remota dal processo storico reale.

Altro esempio: nel suo scritto Almeyra rimprovera a Cuba di aver cercato di ottenere un raccolto della canna da zucchero (zafra) di 10 milioni di tonnellate, ma non gli passa neanche minimamente per la testa di analizzare quali fossero i condizionamenti economici che spinsero Fidel a proporsi un obiettivo così ambizioso. Penserà che si sia trattato di una semplice bravata del capo della rivoluzione? Si è sicuramente trattato di una grande sfida, ma le condizioni economiche che attraversava Cuba dopo undici anni di rivoluzione imponevano misure eccezionali.

Il mio critico deve sicuramente pensare che in quei momenti l’economia cubana fosse florida e la rivoluzione avanzasse – secondo quanto gli segnalavano le sue letture “teoriche” – senza ostacoli o minaccia alcuna senza nemici in vista, cosa che deve aver pensato anche quando i cubani “si legarono all’Unione Sovietica pensando che sarebbe stata eterna”. Come è possibile una simile cecità?! È ragionevole supporre che uno almeno minimamente informato e ragionevolmente sobrio possa ignorare che quando i cubani decisero di stabilire un rapporto commerciale con l’Urss ed entrarono nel Comecon, nel 1972, l’Isola non aveva nessuno al mondo con cui commerciare? Si è dimenticato che era stata buttata fuori dall’Osa e che aveva subìto il blocco completo dal 1962 e che, anche se avesse voluto commerciare con i paesi latinoamericani questi non volevano commerciare con lei, con la virtuosa eccezione del Messico? Tanto meno potevano farlo con gli Stati Uniti; Cina ed Estremo Oriente erano remoti riferimenti geografici; l’Africa si batteva, come fa ancora oggi, per la sua mera sopravvivenza; e la tradizionale genuflessione europea nei confronti dei padroni nordamericani impediva di costruire un flusso commerciale significativo tra Europa e Cuba. Quale alternativa aveva di fronte la rivoluzione? Isolarsi completamente dal mondo e diventare la replica caraibica dell’Albania di Enver Hoxha o dei tenebrosi Khmer Rossi di Pol Pot, che stavano compiendo una mattanza senza precedenti in Cambogia? Vale la pena di ricordare cosa diceva Lenin quando segnalava che il marxismo “è l’analisi concreta della situazione concreta”, una cosa distante anni luce dallo scritto di Almeyra, in cui la concretezza è, secondo quanto diceva il grande filosofo marxista ceco Karen Kossik, più apparente che reale, una mera “pseudo concretezza”.

Come se quanto detto fin qui fosse poca cosa, nella sua confusione il mio critico non è riuscito a leggere accuratamente il titolo del documento su cui scaglia le sue ardenti frecciate e che recita: “Progetto di Lineamenti della politica economica e sociale”: Da nessuna parte si dice che sarà quello che alla fine adotterà il VI Congresso del Pc cubano! Dice a chiare lettere “Progetto”: base per la discussione. Lo si potrà migliorare? Certo che sì, ma pur con i suoi limiti è già servito ad accendere una discussione che si estenderà in tutta Cuba, per lungo e per largo. Vi sono punti discutibili nel “Progetto”? Naturalmente sì. La transizione verso un nuovo ordinamento economico non è forse estremamente rischiosa? Non c’è dubbio! Ma ancor più pericolosi sono l’immobilismo, l’immutabilità, che condannerebbero la rivoluzione a una morte certa e poco gradevole. Cuba si trova in una trappola dalla quale non è facile uscire. Ma se ha l’ardire di cambiare e di riformare il suo socialismo, approfondendolo, uscirà salva da questa sfida. Se non lo fa, la sconfitta della rivoluzione sarà solo una questione di tempo. Hanno tardato molto questi cambiamenti? Può darsi, ma va ricordato che i margini di manovra di Cuba non sono gli stessi del Messico, del Brasile o dell’Argentina.

Almeyra profetizza che i cambiamenti in corso a Cuba “non vanno nella direzione di maggiore giustizia, maggiore uguaglianza, maggiore solidarietà, più socialismo, ma in quella contraria”. Chi glielo ha detto, come fa a indovinarlo? Che ruolo svolge nella sua interpretazione teorica il protagonismo e la partecipazione popolari che contraddistinguono, nonostante i limiti, la società cubana? Che fondamento ha il suo fatale pessimismo?

Non vi è dubbio che i Lineamenti contengano talune definizioni molto problematiche e che suscitano numerosi interrogativi. Ma nessuno di essi giustifica quel che propone il mio critico in un altro suo articolo: che la riforma socialista dell’economia dovrebbe significare, tra l’altro, la riduzione del bilancio militare di Cuba. Poche volte ho letto una simile sciocchezza nell’analizzare un processo rivoluzionario.

Se l’imperialismo americano ha evitato di invadere Cuba e di distruggere la rivoluzione è stato perché numerosi rapporti della Cia e del Pentagono avvertivano la Casa Bianca che la resistenza delle Forze armate rivoluzionarie avrebbe imposto agli invasori un costo severo in vite umane, una cosa che, dopo il Vietnam, l’opinione pubblica nordamericana non era disposta a tollerare. Indebolire le Far è esattamente quello che vogliono gli imperialisti. Ed è questo che Almeyra consiglia nella sua analisi del bivio attuale di fronte a cui si trova Cuba.

Per concludere: l’atteggiamento del mio critico contrasta clamorosamente con quello che avrebbe assunto il suo mentore Leone Trotsky, che si starà rivoltando nella tomba a sentire le cose che in genere si dicono – e si fanno! – in suo nome. Consapevole del significato e della letalità dell’oppressione imperialista che si abbatteva sul Messico alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, Trotsky scrisse: “il generale Cardenas è uno di quegli uomini di Stato, nel suo paese, che ha svolto compiti paragonabili a quelli di Washington, Jefferson, Abraham Lincoln e il generale Grant”. E, più avanti, affermava in un testo illuminante: México y el imperialismo británico, che “senza soccombere alle illusioni e senza temere calunnie, gli operai avanzati appoggeranno completamente il popolo messicano nella sua lotta contro gli imperialisti. L’esproprio del petrolio non è né socialista né comunista. È una misura di difesa nazionale altamente progressista.” Ovviamente, Marx non ha mai pensato che Abraham Lincoln fosse un comunista, ma questo non gli impedì certamente di avere la più profonda simpatia per la lotta guidata da Lincoln. La I Internazionale inviò al presidente della Guerra civile un messaggio di felicitazione e Lyncoln nella sua risposta gradì immensamente quel sostegno morale. Concludeva il suo ragionamento affermando che“la causa del Messico, come quella spagnola, come quella cinese, è la causa della classe operaia internazionale. La lotta per il petrolio messicano è solo una delle scaramucce d’avanguardia delle future battaglia tra gli oppressori e gli oppressi”. In questi passi Trotsky combina in modo magistrale l’analisi della congiuntura ai suoi due livelli: quello nazionale e quello internazionale, e ricava le conclusioni politiche corrette per intervenirvi.

Sarebbe opportuno che Almeyra leggesse quelle pagine per capire lo straordinario significato storico della Rivoluzione cubana e le sue sfide attuali.

[Traduzione di Titti Pierini]

 

 

2) Su Atilio Boron.

BREVE RISPOSTA A UNA RISPOSTA SMISURATA

Guillermo Almeyra

 

Una lunga e debordante risposta di Atilio Boron al mio articolo “Cuba: il cambiamento che vede Boron” mi impone di chiarire alcune cose.

Il lettore non si preoccupi: con questa nota, per me, la discussione con Boron è chiusa, dato che in realtà io non ho scritto su un uomo – con il quale, tra l’altro, ho sempre avuto rapporti cordiali – ma su una specie che è particolarmente pericolosa nei momenti in cui bisogna prendere decisioni precise. Sono persone che soffrono di quella che chiamo “sindrome dell’autobus”: mettono il cartellino “Non disturbare il manovratore” perché sono “uomini d’ordine”. Si tratta di quel tipo di persone che non criticavano i dirigenti sovietici “per non fare il gioco dell’imperialismo” (il quale, naturalmente, si reggeva e si rafforzava proprio grazie a quei leader), e che non criticano nessun dirigente rivoluzionario che si sbagli. E non perché non vedano gli errori ma perché questo tipo di persone non si sentono parte cosciente di una lotta contro il capitalismo, ma delegano il pensare e il decidere nelle mani dei leader, che considerano “Capi” e che servono fedelmente, scoprendo eventuali errori solo quando il “Líder” li ha denunciati.

Prima di passare agli insulti e agli “argomenti” di Boron, vorrei ricordare due cose: 1) sono stato segretario del Comité Argentino de Solidaridad con Cuba già nel 1957, due anni prima dell’entrata vittoriosa dei rivoluzionari all’Avana e da allora ho difeso costantemente la Rivoluzione cubana (che però non identifico con qualsiasi atto del suo governo e con ciascun governante) e il diritto di autodecisione dei popoli, come quello cubano, nella loro lotta contro il criminale stato di guerra permanente imposto dall’imperialismo; 2) sono stato membro, in Messico, del Tribunale Internazionale Benito Juarez che ha calcolato – con la partecipazione decisiva di noti giuristi ed economisti cubani – i danni diretti e indiretti provocati all’economia cubana dal bloqueo e dalle aggressioni imperialiste. Quindi non ignoro che, quando parliamo dell’economia dell’isola, non stiamo riferendoci a quella del Lussemburgo, come insinua Boron.

Ma riassumiamo ora la sua risposta: dice che lo attacco senza ragioni fondate, solo per il mio “viscerale stalinismo”, e che lo faccio “con tono e stile stalinista”. Per un militante che dal 1948 ha combattuto sempre lo stalinismo e la sua violenza, questo, anche se può apparire assurdo e infantile, è un insulto. Boron sostiene che egli ha sempre criticato lo stalinismo nelle sue lezioni, cosa di cui non dubito. Ma io parlavo di un’altra cosa, dell’inesistenza di un bilancio teorico e di una condanna scritta dello stalinismo tanto del governo cubano che sua, che non ho mai letto, dato che la “spiegazione” di Fidel Castro sul crollo dell’URSS e del suo partito comunista (di 18 milioni di membri) secondo la quale l’URSS è stata “pugnalata alla schiena” e tradita da pochi dirigenti non spiega niente, né condanna alcunché, né può essere presa sul serio.

Deviando abilmente dal tema Boron pretende di farmi dire nientedimeno che Cuba avrebbe cessato di combattere l’imperialismo, mentre il principale contributo di Cuba alla lotta di liberazione coloniale consiste proprio nella sua eroica lotta antimperialista per l’indipendenza nazionale, e la ragione principale del consenso politico della maggioranza dei cubani è dovuta alla decisione incrollabile di non lasciare che Cuba sia una nuova Porto Rico.

Certamente io avevo scritto che oltre alla lotta contro gli Stati Uniti, in certi momenti Cuba ha dovuto combattere anche contro le pressioni dell’Unione sovietica e della Cina, ma lo avevo segnalato per mettere in evidenza le terribili difficoltà che Cuba aveva dovuto affrontare e il coraggio con cui aveva mantenuto una rotta senza esitazioni, indipendentemente da quelli che possono essere stati gli errori. Chi vuole dunque convincere Boron con queste mistificazioni?

Boron sostiene che le mie critiche servono all’imperialismo, e sono uguali a quelle di Vargas Llosa e dei suoi compari, e sono caratteristiche delle tane di Miami; dice che lancio una valanga di accuse e dicerie sulla rivoluzione cubana, che lui identifica ovviamente con il progetto che io critico, e in modo più generale con ogni posizione del per lui infallibile governo cubano.

Successivamente corregge lo stesso Fidel Castro, che a suo tempo si autocriticò non per aver tentato di realizzare una zafra record, ma per aver disorganizzato l’economia per ottenerla, e sostiene che io non capisco il coraggio della lotta dei cubani per la loro indipendenza e per la costruzione del socialismo, quantunque esattamente per aver capito e sostenuto questo coraggio, e questa rivoluzione, sono stato rinchiuso in un carcere di massima sicurezza dal “democratico” governo di Frondizi.

Boron continua dicendo che definisco quello che c’è a Cuba come uno “pseudosocialismo”, perché ho negato che il socialismo possa essere costruito in un paese solo. E dice che il Progetto presentato al VI Congresso del PC cubano è solo un progetto. Ma è stato ufficializzato nella Gazzetta ufficiale in ottobre, e le discussioni ampie che si realizzano attualmente puntano a emendare alcuni dettagli e a misurare le reazioni dell’ambiente politico, mentre le misure si stanno già applicando e non sono state elaborate con la partecipazione previa dei lavoratori (cosa che Boron dimentica). Egli inorridisce ugualmente di fronte alla mia proposta di ridurre i privilegi degli alti settori burocratici, compresi quelli militari*, e infine mi consiglia di imitare Marx che appoggiò Lincoln, e Trotsky che appoggiò Cardenas. Ma Marx non disse mai che Lincoln era comunista, né Trotsky si fece cardenista.

Il guaio di questo procedimento di Boron è che fa confondere il necessario appoggio a ogni processo progressista e rivoluzionario con la necessità di idealizzarlo e identificarlo con i governi che non è possibile criticare…**

Su Cuba sto scrivendo da mezzo secolo. Naturalmente non mi considero infallibile né nelle critiche, né negli elogi, ma continuerò a compiere il mio dovere di utilizzare sempre un pensiero critico, positivo, orientato verso la rivoluzione, e non mi sembra di dover cambiare atteggiamento.

Mi dispiace se Boron si sente offeso, ma le vicende di Cuba colpiscono tutti noi in modo drammatico, e non possiamo guardare dall’altra parte mentre altri decidono sui cubani e su noi stessi.

[Traduzione mia. a.m. 8/12/10.]

 

 

Note: * Un’osservazione sulla questione dei privilegi dei militari: è evidente che Almeyra non pensava affatto a indebolire la difesa dell’isola, ma si riferiva ai molti ufficiali che sono stati posti da anni alla testa di imprese miste, soprattutto nel settore turistico, e che fanno parte appunto di quegli strati elevati della burocrazia di cui i critici cubani di sinistra si preoccupano come potenziali restauratori del capitalismo. Tra i molti scritti del dibattito cubano in www.kaosenlared.net/, ho scoperto che c’è perfino chi, come Pedro González Munné, parla apertamente di un cambio al vertice, in cui dovrebbe avere un ruolo importante “la classe militare cubana”, già sperimentata alla direzione di imprese efficienti e “pertanto capaci di realizzare la politica economica tratteggiata nel Documento congressuale”. (a.m.)

 

** A proposito di “impossibilità di criticare” i governi amici vorrei ricordare che a Cuba è inopportuno accennare critiche all’attuale “orteguismo” del Nicaragua, alleato del clero reazionario e di settori somozisti, mentre proprio le critiche alla Cina portarono al ritiro della tessera del partito a Celia Hart. A proposito della Cina, si veda anche quanto ho scritto nell’articolo introduttivo a proposito del boicottaggio del Premio Nobel, in una santa alleanza di paesi uniti dall’intolleranza di fronte al dissenso. (a.m.)