Le radici lontane del conflitto ucraino

 

Un articolo di Andrea Ferrario (Nuova Guerra fredda? No, grazie ) a un visitatore del sito è parso troppo ottimistico. Naturalmente nessuno può escludere in assoluto che anche per eventi imprevedibili ci sia un’escalation che inneschi pericolose spirali. Ma la sostanza dell’articolo è che i due schieramenti che si fronteggiano hanno mostrato di voler diminuire i rischi di questo genere. Giustamente Andrea Ferrario ha segnalato il significato del rinvio al 2016 del modesto accordo di collaborazione tra Ucraina e UE: l’Occidente punta a un compromesso con Mosca, riconoscendone la sfera d’influenza sull’Ucraina.

In realtà, vuoi per ignoranza di molti giornalisti che hanno seguito il conflitto, vuoi per l’efficacia della campagna vittimista di Mosca, rimbalzata per giunta nella sinistra italiana anche dall’Avana e da Caracas, il conflitto è stato presentato spesso come il frutto diretto di un’aggressiva politica della NATO e dell’UE realizzata attraverso provocatori fascisti (identificati tout court con il governo di Kiev). Non voglio negare minimamente le manovre di esponenti occidentali, ma più che un piano d'attacco mi sembra rivelino un dilettantismo incredibile. Ma se si pensa al ruolo della Mogherini, non ci si sorprende più.

 

Senza ripetere qui gli argomenti fattuali più volte pubblicati sul sito che ridimensionavano il peso dei movimenti fascisti presenti in Ucraina (non meno che in Russia e in diverse altre parti dell’ex Unione Sovietica), vorrei affrontare di nuovo un altro aspetto dimenticato: i risentimenti antirussi in Ucraina non sono il frutto di una recente campagna esterna degli occidentali, ma hanno radici profonde nel modo con cui la Russia ha esercitato la sua dominazione su quella che ha considerato sempre un suo naturale prolungamento verso sud.

 

Un po’ di storia lontana

 

Nell’immaginario collettivo russo, oggi come in passato, l’Ucraina, era parte integrante della Russia, anzi la sua culla. Un po’ come il Kosovo appariva ai serbi grazie alla propaganda di Milosevic. E con la stessa assenza di fondamenti.

Solo il nome originario, Rus, fornisce una base precaria a questa tesi. Il regno di Rus con Kiev capitale è infatti apparso nell’882, ad opera di vichinghi, finnici e slavi orientali che parlavano un dialetto paleoslavo di derivazione bulgara, ed è stato abitato per secoli da un gran numero di popolazioni diverse di ceppi linguistici iranici (sciti, sarmati ed alani) o turchi (unni, chazari, peceneghi, ecc.). Mosca non era ancora stata fondata. Tre secoli dopo quel regno, e la Moscovia sorta da poco, furono travolti dall’Orda d’oro di Gengiz Khan. Ma non vale la pena di seguire nel corso dei secoli successivi la sorte di quella terra fertilissima e per questo oggetto di molte mire: la conquista da parte della Russia, iniziata con Ivan III il Grande, “zar di tutte le Russie” ed autoproclamato erede dell’impero bizantino, impiegherà molti anni, mentre l’Ucraina, che ha cominciato ad assumere quel nome, si destreggia tra i regni di Polonia e di Lituania, e il khanato tartaro di Crimea: finirà per accettare la protezione dello zar Alessio solo nel 1654. Intanto vaste regioni sono state colonizzate dai liberi cosacchi, metà contadini e metà guerrieri, spesso sfuggiti alle vessazioni di proprietari terrieri soprattutto polacchi, e che periodicamente insorgono contro gli oppressori. Nel 1648 una rivolta di grandi proporzioni fa strage di nobili polacchi e di ebrei, che hanno la colpa di essere esattori di imposte e affitti, e di esercitare un modesto commercio di vodka per conto dei signori. Anche l’antisemitismo ucraino ha origini e spiegazioni lontane nel tempo.

 

La situazione è complicata dal fattore religioso: una parte dell’Ucraina occidentale, che gravita verso la Polonia, ha aderito alla chiesa Uniate, che dal sinodo di Brest (1595) conserva la liturgia ortodossa, ma riconosce l’autorità del papa cattolico. Sarà a lungo soltanto un fattore di differenziazione, fino a quando Stalin interverrà brutalmente convocando nel 1946 un sinodo a Leopoli che impone a vescovi e sacerdoti il rientro nella Chiesa ortodossa, che si impossessa delle chiese e dei beni degli Uniati. Da allora il cattolicesimo in quelle regioni annesse da poco (come conseguenza dell’accordo Ribbentrop-Molotov e poi di quelli di Yalta) rimarrà solo clandestino, e inevitabilmente ostile al regime.

 

E già qui arriviamo a vicende che pesano ancora molto, prima di tutto nella differenziazione politica tra l’Ucraina occidentale e quella orientale. Quest’ultima si era unita alla Russia sovietica, anche se non senza resistenze e contrasti, tra il 1918 e il 1920, e aveva conosciuto anche le conquiste della rivoluzione, l’altra, occupata dalla Polonia al termine della guerra del 1920 con la complicità dell’Intesa, nel 1939 aveva sperimentato solo gli aspetti più deteriori del potere sovietico: la brutalità con cui venivano selezionati (in tutti i territori annessi in base all’accordo con i nazisti) gli elementi sospetti da deportare. Il caso dei polacchi sterminati nelle fosse di Katyn è il più noto (anche se in un blog ho scoperto che un putiniano nostrano lo ridimensionava a “qualche decina di ufficiali”), ma semplicemente perché l’alta concentrazione di corpi rinvenuti (dapprima 4.000, poi 21.857) e il fatto che il governo polacco in esilio a Londra chiedesse tenacemente notizie di quei suoi uomini su cui contava per organizzare un corpo d’armata antinazista, ha impedito che lo sterminio di un intero strato dell’intellighenzia passasse inosservato. Parlo di intellighenzia in senso lato: ufficiali, preti, docenti, medici, visti come il tessuto connettivo della nazione polacca, che Stalin riteneva dovesse sparire di nuovo in una nuova spartizione, questa volta definitiva.

E il trattamento non era riservato alla sola Polonia: era esteso appunto a ucraini e bielorussi occidentali, sospettati di non gradire l’annessione, ai cittadini delle tre repubbliche baltiche, della Moldavia, dello stesso pezzetto di Finlandia conquistato a caro prezzo (ma che doveva nel progetto di spartizione estendersi a tutto il paese, tanto è vero che le armate russe si portavano al seguito un governo provvisorio di fuorusciti finnici).

Ecco perché quando Hitler ruppe gli accordi prima del previsto (era stato colpito dalla difficoltà dell’URSS a piegare la resistenza finlandese, nonostante l’enorme asimmetria delle forze), e invase il territorio sovietico, poté contare non solo sulla sorpresa ma sulla grande disponibilità di collaborazionisti in quei paesi. Anche se Alexander Nekrič ha documentato, nella sua difesa dei “popoli puniti”, che i collaborazionisti c’erano, pur se in misura minore, anche nel resto dell’URSS. Su tutta la vicenda delle spartizioni, rinvio a un mio saggio abbastanza ampio, La Seconda Guerra mondiale, Stalin (e il PCI…), oltre che a IL PATTO RUSSO-TEDESCO – DOCUMENTI. Tra le molte polemiche, mi è parsa da ricordare quella con Burgio sul Patto Ribbentrop-Molotov.

 

Devo però aggiungere una precisazione, per non far iniziare tutti i guai dal fatidico 1939. Ho scritto poco più sopra che l’inserimento nella federazione sovietica avvenne “non senza resistenze e contrasti”, ma è una formulazione eufemistica. Tra il 1918 e il 1920, e anche oltre, c’erano stati momenti di scontro, complicati proprio in Ucraina dalla presenza non solo dell’Armata Rossa e dell’Esercito Libero dei Bianchi, ma anche delle formazioni contadine “verdi” che si alleavano alternativamente con gli uni o gli altri contro il nemico principale del momento, e di quelle nere degli anarchici. Scontro spesso armato, e a volte inevitabilmente crudele. Ma era la guerra civile, che i bolscevichi non avevano previsto, per lo meno con quelle caratteristiche e che fu vinta a un carissimo prezzo: lasciando risentimenti e strascichi. Ne ho parlato spesso, anche in un saggio che mi è caro, Il vicolo cieco. Trionfo, involuzione e tragedia del movimento comunista.

 

Lenin e l’Ucraina

 

Ma i bolscevichi più maturi, a partire da Lenin, lo avevano capito e cercavano di rimediare. Ne ha parlato più volte, e a questi aspetti “autocritici” è dedicato largamente il bel libro di Moshe Lewin, oggi sul sito: L’ultima battaglia di Lenin .  Nel cosiddetto “testamento” Lenin – già malato – aveva scritto, a proposito della questione delle nazionalità, questa frase impressionate:

A quanto pare sono fortemente in colpa verso gli operai della Russia, perché non mi sono occupato con sufficiente energia e decisione della famosa questione dell’autonomizzazione ufficialmente detta, mi pare, questione della unione delle repubbliche socialiste sovietiche.[1]

Lenin si scusava per non aver potuto partecipare a causa della malattia alla discussione sul progetto che stava definendo la struttura di quella che dal 1923 si sarebbe chiamata Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, cioè URSS. Ma aveva scritto delle note di severa critica alle limitazioni dei diritti delle repubbliche federate nel progetto: “Noi ci riconosciamo eguali nei diritti con la RSS di Ucraina e con le altre, ed entriamo su un piede di uguaglianza con esse, in una nuova Unione, in una nuova Federazione” e aveva ottenuto alcune modifiche al testo.[2] Tuttavia non era tranquillo sull’esito finale, preannunciato da vari atteggiamenti intolleranti e sopraffattori che si erano manifestati soprattutto in Georgia, dove Ordžonikidze (un fedelissimo di Stalin, che tuttavia perirà ugualmente nel 1937, forse suicida come altri dirigenti, tra cui il leader dei sindacati Tomskij, prima di essere arrestato) aveva “potuto lasciarsi andare alla violenza fisica” contro alcuni dirigenti locali. Così Lenin scrive inorridito che, se si è arrivati a questo punto, “ci si può immaginare in quale pantano siamo scivolati”.

Si dice che ci voleva l’unità dell’apparato. Ma di dove sono venute fuori queste affermazioni? Non sono forse venute fuori da quell’apparato russo che, come ho già rilevato in una delle note precedenti del mio diario, abbiamo ereditato dallo zarismo, e che è stato solo appena ricoperto di uno strato di vernice sovietica?[…] Io penso che qui hanno avuto una funzione nefasta la frettolosità di Stalin e la sua tendenza a usare i metodi amministrativi, nonché il suo odio contro il famigerato “socialnazionalismo”. Il rancore in generale, è di solito, in politica, di grandissimo danno.[3]

Lenin si preoccupava che lo stesso Džerdžinski, il capo della CEKA, nonostante fosse di origine polacca, avesse assunto, come molti altri allogeni, un “atteggiamento da vero russo” e non potesse indagare sulla situazione georgiana (anche se era stato il primo a informarlo). Ma è su Stalin che si concentrano ancora una volta le critiche più severe: lo si paragona due volte a Giergimorda, un rozzo poliziotto sciovinista descritto da Gogol.

Il georgiano che considera con disprezzo questo aspetto della questione, che facilmente si lascia andare all’accusa di “socialnazionalismo” (quando egli stesso è non solo un vero e proprio “socialnazionale”, ma anche un rozzo Giergimorda grande-russo), quel georgiano in sostanza viola gli interessi della solidarietà proletaria di classe, perché niente ostacola tanto lo sviluppo e il consolidamento della solidarietà proletaria di classe quanto l’ingiustizia nazionale, e a niente sono così sensibili gli appartenenti alle nazionalità “offese” come al sentimento di eguaglianza e alla violazione di questa eguaglianza. […] Ecco perché in questo caso è meglio esagerare dal lato della cedevolezza e della comprensione verso le minoranze che non il contrario. Ecco perché in questo caso l’interesse più profondo della solidarietà proletaria, e quindi anche della lotte di classe proletaria, esige che noi non abbiamo mai un atteggiamento formale verso la questione nazionale, ma che teniamo sempre conto della immancabile differenza che non può non esserci nell’atteggiamento del proletariato della nazione oppressa (o piccola) verso la nazione dominante (o grande).[4]

Le altre misure proposte da Lenin nella lettera (l’ampliamento del CC, l’attribuzione di funzioni legislative al Gosplan, l’organo responsabile della pianificazione), ecc., non erano probabilmente sufficienti ad arginare i processi involutivi, ma comunque tentavano di farlo. Ma non c’è dubbio che Lenin si sforzava di opporsi all’involuzione, mentre Stalin la asseconderà, la nasconderà e anzi la nobiliterà verbalmente. Quindi l’inizio delle differenziazioni, e la prima critica radicale della società russa “sovietica”, può essere fatta risalire a Lenin più che a qualsiasi altro.

 

Un vecchio mito: l’Ucraina è parte della Russia

 

Ho sentito però dire varie volte che l’Ucraina è stata staccata dalla “grande famiglia russa” a cui apparteneva dalle macchinazioni occidentali. Ebbene, questi sedicenti comunisti che ripetono questi argomenti della propaganda panrussa, dovrebbero fare i conti con quanto Lenin (per non parlare di Trotskij, che ovviamente non tengono minimamente in conto) aveva detto più volte dell’Ucraina.

Ne aveva parlato molte volte nel 1917, bollando l'ipocrisia dei Kerenskij che parlavano dell'Algeria o dell'Irlanda senza parlare dell'Algeria russa o dell'Irlanda russa, come Lenin chiamava l'Ucraina, l'Armenia, la Finlandia, il Turkestan (che in decine di scritti, non solo contingenti o polemici, definisce seccamente «colonie» dell'impero russo).

Sull'Ucraina ritorna più volte:

La democrazia rivoluzionaria della Russia, se vuol essere veramente rivoluzionaria, se vuol essere una vera democrazia, deve rompere con questo passato, deve riconquistare a se stessa, agli operai e ai contadini della Russia, la fiducia fraterna degli operai e dei contadini dell'Ucraina. E non può farlo senza riconoscere pienamente i diritti dell'Ucraina, compreso il diritto alla libera separazione.

Non siamo fautori dei piccoli stati. Siamo per l'unione più stretta degli operai di tutti i paesi contro i capitalisti, i "propri" e quelli di tutti i paesi in generale. Ma proprio perché quest'unione sia volontaria, l'operaio russo, non fidandosi per niente e neppure per un momento né della borghesia russa, né della bor­ghesia ucraina, è ora favorevole al diritto di separazione degli ucraini, non impone loro la sua amicizia, ma laconquista trattandoli come eguali, come alleati e fratelli nella lotta per il socialismo.[5]

A chi obiettasse che essendo uno scritto del giugno 1917 potrebbe trattarsi di «tattica», si può rispondere in primo luogo che per i marxisti rivoluzionari come Lenin non era neppure concepibile quella «tattica» divergente dalla strategia e indipendente o contrapposta ai princìpii che diverrà invece pratica corrente nel periodo staliniano e che rimane ancora oggi nel senso comune di vecchie e «nuove» sinistre anche nel nostro paese.

 

Ancor più significativa è la lettera inviata a Ordzonikidze il 2 marzo 1921, dopo la conquista del potere da parte dei comunisti georgiani. La riproduciamo pertanto integralmente.

Orgionikidze. Baku 2-III-1921

Trasmettete ai comunisti georgiani e particolarmente a tutti i membri del Comitato rivoluzionario georgiano il mio caloroso saluto alla Georgia sovietica. Vi prego particolarmente di farmi sapere se vi è tra noi e loro un accordo completo su questi tre problemi:

Primo: bisogna armare immediatamente gli operai e i contadini poveri, per creare un forte esercito rosso georgiano.

Secondo: è necessaria una particolare politica di concessioni verso gli intellettuali e i piccoli commercianti georgiani. Bisogna capire che non soltanto non conviene nazionalizzarli ma bisogna anche sopportare determinati sacrifici pur di migliorare la loro situazione e di lasciar svolgere loro il loro piccolo commercio.

Terzo: è infinitamente importante cercare un compromesso accettabile per fare blocco con Giordania o con i menscevichi georgiani come lui, che prima ancora dell'insurrezione non erano del tutto contrari all'idea di un regime sovietico in Georgia a determinate condizioni.

Vi prego di ricordare che le condizioni interne e internazionali della Georgia non esigono dai comunisti georgiani l'applicazione degli schemi russi, ma un'elaborazione abile e duttile di una tattica originale, basata su un atteggiamento più conciliante verso gli elementi piccolo-borghesi di ogni tipo.

Attendo una risposta

Lenin[6]

 

Nei mesi successivi, prima di cominciare la sua battaglia sulla «questione georgiana», Lenin aveva tempestato di telegrammi i dirigenti delle repubbliche caucasiche insistendo nello stesso senso, sia sul terreno del rispetto delle particolarità e delle forze politiche locali, sia per la costituzione di un'armata rossa autonoma.

Anche Trotskij espresse a più riprese concetti analoghi, e dedicò successivamente vari scritti soprattutto alla questione dell'Ucraina. A proposito di quella fase, in uno dei suoi ultimi scritti rimasto in parte allo stato di abbozzo, Trotskij aveva osservato che, se l'intervento militare ebbe pieno e facile successo e non provocò neppure nessuna complicazione internazionale (a parte una nuova campagna anticomunista da parte della II Internazionale, che aveva dedicato molta attenzione alla Repubblica georgiana inviandovi nel settembre 1920 una delegazione al più alto livello tra cui spiccavano Kautsky, Vandervelde e Ramsay MacDonald), in realtà «il metodo di sovietizzazione della Georgia ebbe un gravissimo significato per gli anni successivi» :

Nelle regioni dove le masse lavoratrici avevano già aderito al Bolscevismo prima della Rivoluzione esse accettarono ogni difficoltà e sofferenza come inerenti alla loro stessa causa. Così non fu nelle regioni più arretrate, dove la sovietizzazione era stata portata dall'Armata Rossa. Ivi le masse lavoratrici consideravano le privazioni a cui erano sottoposte come risultato del regime imposto dal di fuori. In Georgia la sovietizzazione prematura rafforzò i Menscevichi per un certo periodo di tempo e condusse alla vasta insurrezione delle masse nel 1924, quando, secondo l'ammissione dello stesso Stalin, la Georgia dovette essere "tutta arata di nuovo".[7]

Evidentemente Trotskij aveva intuito lucidamente le radici oggettive del processo di differenziazione politica in base alle diverse esperienze fatte, differenziazione che diventerà poi ben più grave negli anni successivi. Le inquietudini di Trotskij, le raccomandazioni di Lenin, le proposte dei comunisti georgiani (il cui gruppo dirigente contava militanti di notevole esperienza e ricchezza politica, che saranno sterminati da Stalin negli anni Trenta) non impedirono al plenipotenziario di Stalin nel Caucaso, Ordžonikidze, di provocare guasti di cui si paga il prezzo fino ai giorni nostri (ad esempio, tracciando in modo del tutto arbitrario i confini tra le tre repubbliche, creando le premesse del dramma del Nagorno Karabach). Lenin aveva dedicato a Ordžonikidze alcune righe sferzanti nel suo Testamento, e aveva proposto di «punir[lo] in modo esemplare» (aggiungendo «lo dico con rincrescimento tanto maggiore in quanto appartengo personalmente alla schiera dei suoi amici e ho lavorato con lui all'estero nell'emigrazione»). Non fu punito, allora, e rimase tra i più stretti collaboratori di Stalin fino al suo suicidio, avvenuto nel febbraio 1937.[8]

 

La carestia

 

Evidentemente tanto Lenin che Trotskij avevano intuito la dinamica che poteva intaccare i rapporti tra le nazioni entrate a far parte dell’URSS. Ma il peggio doveva ancora venire, e non lo immaginavano neppure. Anche prima che si instaurasse  una centralizzazione burocratica che, ad esempio, paracadutava funzionari da Mosca a una repubblica gelosa della sua autonomia, a guastare i rapporti fu la criminale collettivizzazione forzata che scavò un solco incolmabile. Molti ucraini continuano infatti a interpretare la crisi nelle campagne sovietiche al momento della grande collettivizzazione del 1929-1933, che provocò molti milioni di morti nella sola Ucraina, come un tentativo deliberato di genocidio degli ucraini. In realtà era solo la forma distorta e criminale con cui Stalin affrontò in ritardo il problema dei kulaki, in Ucraina come in Russia e nelle altre repubbliche sovietiche a forte componente contadina. Fu questo, e non una particolare predisposizione al fascismo a rendere più forti e più radicali le opposizioni al potere sovietico prima e dopo la sua caduta.

Su questa vicenda – su cui esiste una vastissima memorialistica – rinvio all’interessante libro curato da Andrea Graziosi [a cura di], Lettere da Kharkov, La carestia in Ucraina e nel Caucaso del Nord nei rapporti dei diplomatici italiani, 1932-1933, Einaudi, Torino, 1991. Tra i documenti ci sono stralci dai giornali locali che parlavano apertamente dei casi di cannibalismo che si verificarono in quegli anni, e che venivano ovviamente negati sulla stampa centrale di Mosca. È interessante che i diplomatici italiani, tutti ovviamente fascisti data l’epoca, mantennero riservate le notizie impressionanti che avevano raccolto, senza farne il pur minimo uso propagandistico. Successivamente Graziosi ha pubblicato un’ampia opera d’insieme sulla storia dell’URSS , che ha all’interno del primo volume (L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica, 1914-1945, Il Mulino, Bologna, 2007) un capitolo su La fame e il suo uso, 1932-33 (pp. 331-362), di notevole interesse.

(a.m.17/9/14)


[1] Lenin, Opere, vol. XXXVI, 1969, p. 439.

[2] Ivi, p. 513.

[3] Ivi, p. 440.

[4] Ivi, pp. 442-443.

[5] Lenin, Opere, vol. XXV, Roma, 1967, p. 84.

[6]Pubblicato sulla «Pravda Gruzii», n. 5, 6 marzo 1921, ora in Lenin, Opere, vol. XXXII, Roma, 1967, p. 144.

[7] Leone Trotskij, Stalin, Garzanti, Milano, 1947, pp. 366-367.

[8]Sulle cause della sua morte furono sollevati numerosi dubbi in varie epoche, ma è abbastanza probabile che sia stato spinto al suicidio dall'arresto ed esecuzione di suo fratello e dei più stretti amici (tra cui il suo vice Pjatakov e Alioscia Svanidze, fratello della prima moglie di Stalin), e soprattutto da chiari segni che gli si preparava la stessa sorte (tra l'altro una perquisizione del suo stesso appartamento).