Sul Kirghizistan

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Nuovo terremoto politico nell’Asia Centrale

 

Scriverò nei prossimi giorni una nota sulle nuove vicende del Kirghizistan, non appena saranno disponibili notizie più dettagliate sulla nuova crisi. Tuttavia ho creduto utile riproporre intanto sul sito due miei scritti del 2005, che possono contribuire a ricercare le premesse della permanente instabilità dell’area. (a.m. 7/4/10)

 

 

Nell’Asia Centrale ex sovietica il Kirghizistan sembrava un’eccezione positiva: non aveva conosciuto i feroci conflitti del Tagikistan (intrecciati con le vicende dell’Afghanistan, non solo per affinità linguistiche e culturali, ma anche per la presenza delle retrovie del signore della guerra Dostun) né la corruzione del regime di Nazarbaev in Kazachstan, di Karimov in Uzbekistan o di Niyazov in Turkmenistan. Il regime di Askhar Akaev appariva più solido e soprattutto più decente. Tra l’altro era l’unico che aveva un presidente che pur provenendo dal partito comunista, non faceva parte in origine della sua nomenklatura: Akaev prima dell’esplosione dell’URSS era infatti un accademico abbastanza stimato.

 

Ma come aveva governato? Secondo la giornalista russa Julija Latynina del “Zhurnal” (il suo articolo è tradotto nel n° 584 di “Internazionale” del 1–7 aprile 2005)  il PIL procapite nel Kirghizistan sarebbe sceso da 3.281 $ a 211 $ nei quattordici anni di governo di Akaev. Altri danno cifre leggermente superiori, comunque poco verificabili; ma indubbiamente il paese ha conosciuto un drammatico declino, mentre si arricchivano soprattutto i membri della famiglia di Akaev (in particolare il figlio Ajdar e la figlia maggiore Bermet, che il presidente aveva fatto eleggere deputata nelle ultime contestate elezioni, e che aveva già designato per la successione).

Il paese, a parte un po’ d’oro, esporta solo oppio prodotto in loco, o in transito dall’Afghanistan verso la Cina, e dopo la dissoluzione dell’URSS vive praticamente di aiuti internazionali. Per questo gli Stati Uniti hanno potuto ottenere senza problemi la zona su cui hanno costruito la gigantesca base militare di Manas, richiesta col pretesto delle esigenze della guerra in Afghanistan, e in realtà del tutto inutile per questo scopo, mentre è evidentemente finalizzata al controllo della vicina e confinante Cina, oltre che della Federazione russa e delle repubbliche sorte dopo il crollo dell’URSS. Ma per le stesse ragioni anche la Russia ha chiesto e ottenuto di poter costruire una base aerea a Kant, ovviamente molto meno grande e dotata, dall’altro lato della capitale Bishkek: le due basi si fronteggiano alla distanza di poco più di trenta chilometri.

 

Quando le manifestazioni di poche migliaia di persone nella capitale, e poco più numerose a Osh, nel sud, sono state sufficienti a costringere il clan di Akaev alla fuga, non c’è stata nessuna reazione né da parte delle forze repressive kirghize (e questo può essere spiegato con la presenza tra i golpisti dell’ex capo dei servizi segreti Feliks Kulov, che potrebbe diventare il futuro presidente) né dalle truppe russe o statunitensi attestate a pochi chilometri da Bishkek. Probabilmente le une e le altre, pur essendo poco entusiaste del cambio improvviso, non temono molto il “nuovo” regime”, alla testa del quale c’è un vecchio collega di Putin, appunto Kulov, affiancato da un’altra esponente della nomenklatura, Roza Otumbayeva, che era stata già ministro degli Esteri in passato e più volte ambasciatrice, ma anche inviata dell’ONU in Georgia al momento della sostituzione di Shevardnadze con Sakhashvili. E l’altro leader emerso dalla “rivoluzione dei tulipani”, Kurmanbek Bakiev, era stato primo ministro con Akaev fino a un paio d’anni fa. Tutta gente, insomma, con cui a Mosca e a Washington si sa bene come trattare.

Naturalmente, abbiamo già accennato, Putin è rimasto turbato: nessun autocrate guarda con indifferenza l’abbattimento di un suo simile, sia pure con un colpo di palazzo, che non tocca le radici del potere. Ma non aveva la possibilità di intervenire, al punto in cui si era giunti e con l’evidente sfaldamento del regime.

 

E gli Stati Uniti? Vedremo il loro comportamento nella prossima fase. In realtà molti avevano previsto che la dissoluzione dell’URSS e la sua sostituzione con tante repubbliche spesso in conflitto tra loro avrebbe portato più inconvenienti che vantaggi per gli Stati Uniti: tra l’altro perché è diventato sempre più difficile seguire le vicende interne di ciascun paese, è molto più complicato che trattare a Mosca con dirigenti ben conosciuti, come avveniva in passato. Intanto hanno accettato il fatto compiuto.

 

Allora gli Stati Uniti sono stati gli ispiratori del golpe? Molti lo ripetono senza precisi elementi. Lo si era detto anche a proposito della Georgia (ma che fastidio poteva dare uno Shevardanadze?) e soprattutto della “rivoluzione arancione” che ha spazzato via Kuchma in Ucraina, sostituendolo con Yushenko. Costui sarebbe un uomo di Washington? Ma se era stato primo ministro proprio con Kuchma! Avrà forse ricevuto le tende arancioni da qualche fondazione statunitense, ma come spiegare che il suo primo gesto è stato decidere il ritiro delle truppe ucraine dall’Iraq? Non sembra un gesto sollecitato da Bush…

Tutte queste cosiddette “rivoluzioni” dai vari colori, che non sono rivoluzioni ma cambi della guardia, non sono però state decise a tavolino. Come ha scritto lucidamente K. S. Karol “la forza propulsiva di queste tre ‘rivoluzioni’ è stata l’impopolarità del regime al potere”. In tutti e tre i casi, la protesta era innescata da clamorosi brogli elettorali. Che c’erano stati davvero, non erano calunnie!

In tutti e tre i casi (e in altri che sono in incubazione in altri paesi con strutture sociali e politiche analoghe, nell’area dell’Asia Centrale o nel Caucaso, ad esempio in Azerbaigian) c’erano anche proteste contro il parassitismo della casta dominante ereditata dal regime sovietico, contro i “sovoki” che si erano limitati “a cambiare le targhette sulle porte dei loro uffici”, come ha scritto un altro giornalista russo Anton Oreh, sempre sul “Zhurnal”.

 

Perché nascondersi le origini endogene di queste crisi, solo perché qualche paese cerca di raccogliere un po’ di cocci? La sinistra italiana aveva già avuto questo atteggiamento di fronte all’esplosione dell’URSS e a quella della Jugoslavia. Qualcuno continua a pensare che a far cadere l’URSS sia stato papa Woitila, e in questi giorni in cui si approfitta della penosa agonia di questo papa conservatore e retrogrado per una invereconda esaltazione del suo operato, c’è chi ce lo ripete incessantemente. E perché allora Giovanni Paolo II non è riuscito a provocare il crollo di Cuba, pur avendo ammesso che il suo progetto era di “fare come in Polonia”? In Polonia il regime era da tempo marcio dentro, e dopo aver tentato invano la strada della repressione, non seppe far altro che chiamare al potere i vecchi oppositori, illudendosi che bastasse un meccanismo elettorale truccato per nascondere la mancanza totale di consenso.

Il papa polacco d’altra parte non era riuscito neppure a far cadere il regime sandinista del Nicaragua in occasione del suo viaggio del 1983 (in cui intervenne con stile aggressivo e oltraggioso). Il sandinismo ha resistito per altri sette anni, ed è crollato in seguito a ben altri fattori, compresi gli errori fatti dai suoi stessi dirigenti alla fine degli anni Ottanta, anche sotto la pressione della sinistra europea.

 

Non possiamo sapere cosa accadrà domani in Kirghizistan, o in Uzbekistan o in altri Stati sorti dall’esplosione del 1991. Ma non possiamo ignorare che dietro molte delle vicende di oggi, comprese le ingerenze statunitensi, c’è l’intrinseca debolezza di quelle nazioni dovuta in primo luogo al passato coloniale (checché ne pensi parte della sinistra, la conquista dell’Asia da parte della Russia zarista non era una “naturale espansione” ma un’impresa coloniale classica); in secondo luogo alle forme spietate con cui avvenne la riconquista di quelle regioni negli anni Venti, e il modo durissimo con cui la dominazione staliniana ha scardinato tradizioni ed economie di quei paesi (ad esempio imponendo con la violenza la monocoltura a cotone al posto di fertilissimi e redditizi frutteti), distruggendo l’ambiente in modo irreparabile, come simboleggia il deserto salato che ha preso il posto della maggior parte del bacino del Mar d’Aral.

Come contributo almeno alla segnalazione delle origini lontane dei problemi di oggi, riportiamo in appendice una recensione a un libro di Marco Buttino, che nel 1997 aveva già curato per Paravia un efficace volumetto su “L’URSS a pezzi”, largamente condivisibile.

Antonio Moscato

I Kirghizi nella rivoluzione del 1917.

 

Marco Buttino, La rivoluzione capovolta. L’Asia centrale tra il crollo dell’impero zarista e la formazione dell’URSS, L’Ancora, Napoli, 2003 (pp. 488, € 30)

 

Ai fini della comprensione delle attuali crisi che scuotono l’Asia ex sovietica, può essere utile il documentatissimo libro di Marco Buttino, che affronta con ricchezza di dati le vicende di un’area oggi suddivisa soprattutto tra Uzbekistan, Kirghizistan e Kazachistan, e allora si chiamava indistintamente Turkestan, con capitale Tashkent fin dalla sua conquista, avvenuta nel 1858. Buttino ricostruisce le vicende di quell’area a partire dall’inizio della guerra mondiale, e poi con particolare attenzione nel 1917-1919. Una storia di una frattura profonda tra la minoranza russa, in forte crescita e che punta a strappare con la violenza le terre alle popolazioni nomadi, che sono soprattutto kazachi e kirghizi.

Ogni protesta, innescata dalla fame, viene presentata come sommossa e stroncata a raffiche di mitragliatrici; i nomadi vengono sospinti verso i confini della Cina, che li respinge, e muoiono a migliaia lungo le strade innevate. Il generale Kuropatkin in particolare attuò un piano di pulizia etnica, di cui espose le linee generali in un rapporto allo zar dell’agosto del 1916 (p. 83). Furono distrutti completamente 24 villaggi e molti altri parzialmente. Il bilancio ufficiale parlava di 1000 morti (tutti musulmani) ma altre fonti lo portano a 5.000, senza contare i morti per stenti nella fuga verso la Cina. Le tecniche erano quelle di ogni guerra coloniale, e comprendevano stupri e oltraggi alle donne, e provocarono una spaccatura profonda anche tra i russi e i musulmani sedentari, artigiani o mercanti del bazar, che furono coinvolti e finirono tra le vittime perfino quando si erano recati a chiedere protezione alle truppe russe contro i nomadi kirghizi, dungani o kalmyki.

Le truppe russe erano inoltre affiancate da “volontari”, cioè da contadini russi o cosacchi, che partecipavano con zelo allo sterminio di chi rivendicava le proprie terre (i russi sostenevano che le terre da pascolo non fossero di nessuno, ma in realtà appartenevano collettivamente alle diverse tribù). Anche nel giugno 1892, a Tashkent, truppe e coloni russi avevano stroncato con centinaia di morti una protesta contro le norme brutalmente imposte alla popolazione in seguito a un’epidemia di colera: alcune dettate da ragioni igieniche, anche se fastidiose, come l’allargamento forzato delle vie del bazar, con la distruzione di negozi e botteghe, altre puramente vessatorie, come l’obbligo di aspettare per giorni il medico legale prima di procedere al seppellimento, obbligo che, oltre a violare la legge islamica, in estate provocava un fetore insopportabile nelle abitazioni e anziché circoscrivere l’epidemia la accresceva.

Il libro ricostruisce (non in rapporto ai soli kirghizi, che sono tuttavia ricordati in molte pagine, e che pagarono un prezzo più alto per il loro nomadismo) le caratteristiche di quella conquista, che fu di tipo coloniale, anche se le colonie russe non erano oltremare, e utilizzò le stesse politiche di divisione, pulizia etnica, espulsione di ogni altra forma di colonialismo. L’interesse maggiore viene dalla descrizione, che occupa gran parte del libro, del modo con cui la rivoluzione russa del 1917 arrivò in quella zona, “per telegrafo”, raggiungendo e coinvolgendo quasi solo la popolazione russa, soldati, ferrovieri, coloni, col risultato che quella musulmana considerò quindi la formazione dei soviet come una questione dei russi.

Non si tratta di una novità assoluta, ne avevano già scritto, tra gli altri, Alexandre Benningsen, Heléne Carrère d’Encausse e lo stesso Buttino, ma indubbiamente uno studio così minuzioso su un’area relativamente circoscritta presenta un interesse particolare. Scontri sulla distribuzione delle magre risorse, oltre che sui temi della libertà religiosa, provocarono un distacco irreparabile tra le popolazioni islamiche e i soviet, e la formazione di bande di basmachi (banditi, letteralmente, ma in realtà guerriglieri) che diedero filo da torcere per molti anni. La repressione fu per giunta affidata inizialmente a reparti armeni, legati al partito nazionalista Dashnaktsutyun, dato che i primi reparti locali formati da centinaia di musulmani arruolati per combattere i basmachi avevano fatto pessima prova: un terzo di loro era stato assassinato per punirli del loro collaborazionismo, e altri si erano dedicati a rapine e vessazioni (anche se avevano aderito ai soviet, erano in genere ex interpreti o collaboratori della polizia). Ma gli armeni aggredirono sistematicamente e spietatamente la popolazione locale, sostenendo che anche se avessero ucciso tutti i musulmani della valle del Fergana, “non avrebbero fatto tanti morti quanti erano gli armeni uccisi dai musulmani in Turchia”. Ovviamente in questo modo spinsero molti indecisi a rifugiarsi sotto la protezione dei basmachi.

La situazione fu complicata nel 1918 dalla crisi tra bolscevichi e socialrivoluzionari, che erano in maggioranza nei soviet del Turkestan, e da una serie di scissioni provocate dalla “vecchia guardia” bolscevica che si opponeva alla linea proposta dal comitato centrale del partito con un radiogramma che chiedeva di “attrarre, in modo ampio e proporzionale, la popolazione indigena all’attività di governo, senza richiedere obbligatoriamente l’appartenenza al partito” e raccomandava di “smettere di requisire i beni dei musulmani” e di “evitare ogni attrito che genera antagonismo”. (p. 339)

In realtà “la dittatura del proletariato continuava a essere identificata con la dittatura russa e ad avere un significato evidentemente colonialista”.

La situazione si complicò perché entrarono nell’Armata Rossa molte migliaia di ex prigionieri di guerra ungheresi o di altre nazionalità dell’impero austro-ungarico, che avevano aderito al partito comunista ma volevano quanto prima aprirsi una strada per il ritorno in patria, e si interessavano poco alle contraddizioni locali: spesso parteciparono insieme alle bande armene ad operazioni militari spietate nei confronti dei governi autonomi di Kokand e Bukhara. La situazione era aggravata dalla presenza di truppe britanniche nel Caucaso e nell’attuale Turkmenistan, dove scacciarono i bolscevichi da Ashkhabad. Dopo la momentanea sconfitta dei rivoluzionari gli armeni si erano appoggiati agli occupanti, ma quando gli inglesi si ritirarono rimasero esposti alla vendetta degli azeri, che fece migliaia di morti e distrusse il quartiere degli armeni. (p. 359)

Comunque gli sforzi di una parte del gruppo dirigente bolscevico aveva saputo gradatamente recuperare un rapporto con alcuni dei capi ribelli, stabilendo accordi per il loro inserimento nell’Armata rossa. Tra questi capi il più forte e pericoloso era Muhammad-Amin-Akhmet-Bek, detto Madamin bek, che arrivò ad avere nel suo esercito fino a 5.000 armati, inquadrati regolarmente con l’aiuto di alcuni ufficiali russi. D’altra parte Madamin bek aveva più volte ribadito che non era antirusso.

“Sebbene ci chiamino banditi, non siamo banditi perché non abbiamo interessi personali. Noi difendiamo donne e bambini indifesi. […] Non siamo ostili ai russi; però i russi che partecipano alle rapine e alle uccisioni con gli armeni sono nostri nemici”. (324)

Nel marzo 1920 Madamin bek stabilì un accordo con l’armata rossa, che nel frattempo aveva disarmato le bande armene, ma nel maggio dello stesso anno sparì misteriosamente mentre si recava da un altro kurbashi, Kur Shirmat, per convincerlo a passare dalla parte del potere sovietico.

Uno dei limiti del libro è la scarsa attenzione dedicata alle ingerenze della Gran Bretagna nelle vicende di quell’area, che fu grande e continua, a partire dall’India e dall’Iran. Per questi aspetti è invece utilissimo il libro di David Fromkin, Una pace senza pace. La caduta dell’impero ottomano e la nascita del Medio oriente moderno (Rizzoli, Milano, 2002), che è partito invece dalla ricostruzione dei conflitti tra diverse tendenze nell’amministrazione britannica durante e dopo la prima guerra mondiale, in un’area ben più larga di quella esaminata da Buttino, ma con interi capitoli dedicati ai rapporti di Mosca con la Turchia per arginare la penetrazione britannica.

La panoramica de La rivoluzione capovolta sugli anni Venti è rapida ma inquietante, e il giudizio di Buttino severo, soprattutto sulla politica di divisione e contrapposizione di gruppi nazionali costruiti a tavolino insieme alle frontiere che hanno retto fino al 1991 (e a oggi). “Il riconoscimento ufficiale dei gruppi nazionali fu accompagnato dalla lotta contro la loro cultura. Nella seconda metà degli anni Venti si inventò infatti un reato nuovo: divenne reato il rispetto della tradizione. Le moschee furono chiuse e con esse le medressa; i waqf furono nuovamente vietati; le tariqat vennero sciolte e i membri, che non riuscirono a nascondersi, vennero arrestati; le donne furono costrette ad abbandonare il velo perché il nuovo regime predicava la parità dei diritti e soprattutto voleva mettere in crisi la società tradizionale a partire dalla famiglia. Alla conquista era seguita la pacificazione sovietica e poi la politica di ingegneria sociale, di ‘modernizzazione’ e di educazione ai valori del nuovo regime”. (p. 415).

Bisognerà tornarci, anche per capire le origini lontane di molti problemi attuali, e per evitare che nella sinistra italiana passi la spiegazione di Putin, che dalla Cecenia al Kirghizistan, vede solo “le macchinazioni di al-Qaeda”.

Antonio Moscato